«Allora? Come sta il mio piccolo e grasso malatino?» disse la donna sfilandosi il soprabito bagnato di pioggia, poi, si mise in ascolto. Niente, a parte l’incessante ronzio degli elettrodomestici e il ticchettio della pendola, non le parve di sentire altro rumore.
Accesa la luce dell’ingresso e sfilato con cura un cappello da uomo, rimise a posto le forcine che erano sfuggite dai capelli troppo lisci e si passò un velo di cipria sul viso.
«Allora?», disse specchiandosi e portando la voce da contralto verso la luce che brillava in fondo al corridoio buio.
«Che hai?» ripeté stavolta con una voce infantile, «se il mio maialino mi ha chiamata con urgenza e con quella vocina triste triste, significa che stavolta è proprio grave!» e sorrise mentre con fare sicuro scostava tende e spalancava persiane.
«Huuummm...» mugolò una voce maschile.
«Allora ci sei?» disse lei sorridendo.
«Huuummm... sto male... sto malissimo... » disse la voce evidentemente soffocata dalle coperte.
«Adesso vediamo... dici sempre così. Spero che stavolta il mio malato grave non mi abbia scomodato inutilmente», e seduta sul bracciolo di una bella Frau lucida e rossiccia, si chinò per allacciare alla caviglia un paio di scarpe nere dai tacchi che sembravano perforare il legno del pavimento per quanto erano sottili. Nel frattempo si era tolta anche la giacca e adesso, sfilando la gonna, scoprì una sobria guepiere nera.
Si chinò di nuovo abbracciando con entrambe le mani la caviglia per salire sino all’allacciatura del reggicalze. Ripeté l’operazione sull’altra gamba ed espirò a fondo prima di rimettersi sul viso un’espressione compassionevole e commossa. Poi, con lentezza estenuante ma badando a far risuonare i tacchi sul pavimento di legno, percorse il lungo corridoio per fermarsi davanti alla porta da cui proveniva la luce.
«Finalmente... » disse una voce maschile assonnata.
«Finalmente?» rispose lei con un accento vagamente severo e riprese «Fino a prova contraria, ossia fino a quando non la pianterai di telefonarmi a ore impossibili per frignare come un imbecille, l’unica che può pretendere qualcosa, caro maialino indecente, sono io».
E appoggiò la schiena e le natiche rotonde e sode allo stipite della porta.
«Che male ho fatto nella vita, eh?» gli disse con espressione seria dopo aver incrociato le braccia sul petto.
La voce non rispose. Si era nascosto sotto le coperte, forse, oppure aveva messo su un’espressione buffa visto che adesso la donna sorrideva un tantino fuori parte.
«Non credere di impietosirmi. Fuori piove a dirotto e io avevo altre cose da fare!».
Dalla stanza non si udì risposta.
La donna si spostò al centro della porta, in piena luce.
«Sei bellissima», disse l’uomo con un accento drammatico, come se quella bellezza gli avesse fatto venire in mente tutta la propria inutilità.
«Mettiti in ginocchio» ordinò restando ferma con le mani sui fianchi.
«Scendi dal letto e vieni qui» e indicò la punta delle sue scarpe lucidissime.
«Qui», ripeté bonaria. «Da bravo, striscia fino ai miei piedi lurido maiale, e saluta la Padrona come si deve».
Dall’interno della camera si udì del trambusto. L’uomo doveva aver fatto cadere qualcosa ma lei, dopo aver mormorato un umiliante «quanto sei imbranato» scosse la testa e si rimise dritta.
«Come si saluta la Padrona? Te l’ho detto tante di quelle volte che non dovrei nemmeno più impartirtelo quest’ordine», e si passò una mano tra i capelli, lanciando uno sguardo spazientito verso il centro della stanza dove l’uomo, evidentemente, camminava carponi verso di lei.
«Da bravo...» gli disse con un sorriso incoraggiante e l’uomo, di cui ora s’intravedeva la testa lucida, prese la scarpa tra le mani e, tra infantili mugolii, tirò fuori la lingua per passarla con cura su tutta la sua lunghezza.
«Che cosa è successo? Perché non sei al lavoro?» ma lui non rispose.
«Eh?... Non ho sentito». L’uomo in effetti non avevo detto nulla e teneva lo sguardo sul pavimento.
«Togli subito le tue manacce dalla mie scarpe», l’uomo eseguì.
«Adesso apri per bene le mani... così... una accanto all’altra... bravo!», e dovette imprimere una certa forza perché il tacco, puntato al centro esatto della mano ben aperta, penetrasse nella carne morbida.
L’uomo fece una smorfia di autentico dolore ma non emise fiato.
«Guarda qui!» l’incalzò la Padrona «Guarda! Guardami, imbecille!» e l’uomo, rimanendo immobile alzò verso l’alto gli occhi piccoli e scuri che sembravano quelli di un tenero topolino, mentre la dominante, con le dita spostava la culottes leggera per mostragli lo spettacolo esclusivo e a distanza ravvicinata.
«Ti ho detto di muoverti?» e senza lasciargli il tempo di rispondere, impresse il tacco appuntito al centro della fronte ampia del maschio che, in quel pigiama a righe orizzontali sembrava una strana specie di animale. Una specie protetta, forse, o in via di estinzione.
«Lo senti il profumo, eh?».
L’uomo grugnì appena, incerto sul da farsi, se mostrare il giusto entusiasmo o fingersi ancora pentito.
«Annusa, dai porcellino, annusa bene e grugnisci» e sorrise ancor prima che lui iniziasse a deliziarla con un balletto così gioioso che se avesse avuto la coda avrebbe scodinzolato, e se avesse avuto orecchie lunghe e pelose le avrebbe mosse senza ritegno come un cane che abbia sentito arrivare il padrone.
«Bravo, bravo il mio porcellino educato» e la donna seminuda si piegò sulle gambe lunghe e magre fino ad arrivare al faccione tondo dell’uomo e dirgli tra le labbra, e in rapida successione, alcuni «porco, maiale e pervertito» pieni di promesse.
«Dai, adesso vai sul letto» gli ordinò senza particolari espressioni, come chi deve sbrigare rapidamente una faccenda per poi passare ad altro.
E l’uomo scomparve assieme al suo pigiama seguito dalla donna e dai suoi tacchi spaventosi.
«Perché non sei al lavoro?».
Lui emise un grugnito e poi un lungo gemito.
La camera da letto era in penombra e in disordine. Dalle persiane socchiuse un grigio plumbeo impediva al tempo di scorrere e allo spazio di dilatarsi.
Sui mobili, decine di cornici con foto di famiglia li guardavano sorprese per quel darsi da fare con corde e frustini, tra decine di arnesi di diverse forme e dai colori sgargianti tirati fuori con foga dal comodino accanto al grande letto.
Finché non si udirono che balbettii e sospiri, e un andare su e giù di carne umida e bollente, risuonare di palmi aperti, lamenti sommessi e più forti, alcuni cupi e altri gioiosi, tantissimi “sì”, molti “dai” e “ancora”, balbettanti “se continui così mi farai morire” e drammatici e sinceri “rimani così, ti prego”. Infine, il preoccupato annuncio di lui, un ansioso “sto per venire” che non era una richiesta ma un’affermazione certa cui seguì, comunque, il rassincurante e femminile “anch’io”.
«Ti amo», disse la voce maschile al termine del rumorosissimo orgasmo.
«Vai tu a prendere la bambina a scuola?», disse la donna ancora affannata.
«Ho consiglio di amministrazione alle quindici... ».
«Allora chiamo in ufficio e dico che ti è salita la febbre: vado io».
«Tesoro?»
«Sì?» rispose lei.
«Stasera siamo a cena dai tuoi».
Accesa la luce dell’ingresso e sfilato con cura un cappello da uomo, rimise a posto le forcine che erano sfuggite dai capelli troppo lisci e si passò un velo di cipria sul viso.
«Allora?», disse specchiandosi e portando la voce da contralto verso la luce che brillava in fondo al corridoio buio.
«Che hai?» ripeté stavolta con una voce infantile, «se il mio maialino mi ha chiamata con urgenza e con quella vocina triste triste, significa che stavolta è proprio grave!» e sorrise mentre con fare sicuro scostava tende e spalancava persiane.
«Huuummm...» mugolò una voce maschile.
«Allora ci sei?» disse lei sorridendo.
«Huuummm... sto male... sto malissimo... » disse la voce evidentemente soffocata dalle coperte.
«Adesso vediamo... dici sempre così. Spero che stavolta il mio malato grave non mi abbia scomodato inutilmente», e seduta sul bracciolo di una bella Frau lucida e rossiccia, si chinò per allacciare alla caviglia un paio di scarpe nere dai tacchi che sembravano perforare il legno del pavimento per quanto erano sottili. Nel frattempo si era tolta anche la giacca e adesso, sfilando la gonna, scoprì una sobria guepiere nera.
Si chinò di nuovo abbracciando con entrambe le mani la caviglia per salire sino all’allacciatura del reggicalze. Ripeté l’operazione sull’altra gamba ed espirò a fondo prima di rimettersi sul viso un’espressione compassionevole e commossa. Poi, con lentezza estenuante ma badando a far risuonare i tacchi sul pavimento di legno, percorse il lungo corridoio per fermarsi davanti alla porta da cui proveniva la luce.
«Finalmente... » disse una voce maschile assonnata.
«Finalmente?» rispose lei con un accento vagamente severo e riprese «Fino a prova contraria, ossia fino a quando non la pianterai di telefonarmi a ore impossibili per frignare come un imbecille, l’unica che può pretendere qualcosa, caro maialino indecente, sono io».
E appoggiò la schiena e le natiche rotonde e sode allo stipite della porta.
«Che male ho fatto nella vita, eh?» gli disse con espressione seria dopo aver incrociato le braccia sul petto.
La voce non rispose. Si era nascosto sotto le coperte, forse, oppure aveva messo su un’espressione buffa visto che adesso la donna sorrideva un tantino fuori parte.
«Non credere di impietosirmi. Fuori piove a dirotto e io avevo altre cose da fare!».
Dalla stanza non si udì risposta.
La donna si spostò al centro della porta, in piena luce.
«Sei bellissima», disse l’uomo con un accento drammatico, come se quella bellezza gli avesse fatto venire in mente tutta la propria inutilità.
«Mettiti in ginocchio» ordinò restando ferma con le mani sui fianchi.
«Scendi dal letto e vieni qui» e indicò la punta delle sue scarpe lucidissime.
«Qui», ripeté bonaria. «Da bravo, striscia fino ai miei piedi lurido maiale, e saluta la Padrona come si deve».
Dall’interno della camera si udì del trambusto. L’uomo doveva aver fatto cadere qualcosa ma lei, dopo aver mormorato un umiliante «quanto sei imbranato» scosse la testa e si rimise dritta.
«Come si saluta la Padrona? Te l’ho detto tante di quelle volte che non dovrei nemmeno più impartirtelo quest’ordine», e si passò una mano tra i capelli, lanciando uno sguardo spazientito verso il centro della stanza dove l’uomo, evidentemente, camminava carponi verso di lei.
«Da bravo...» gli disse con un sorriso incoraggiante e l’uomo, di cui ora s’intravedeva la testa lucida, prese la scarpa tra le mani e, tra infantili mugolii, tirò fuori la lingua per passarla con cura su tutta la sua lunghezza.
«Che cosa è successo? Perché non sei al lavoro?» ma lui non rispose.
«Eh?... Non ho sentito». L’uomo in effetti non avevo detto nulla e teneva lo sguardo sul pavimento.
«Togli subito le tue manacce dalla mie scarpe», l’uomo eseguì.
«Adesso apri per bene le mani... così... una accanto all’altra... bravo!», e dovette imprimere una certa forza perché il tacco, puntato al centro esatto della mano ben aperta, penetrasse nella carne morbida.
L’uomo fece una smorfia di autentico dolore ma non emise fiato.
«Guarda qui!» l’incalzò la Padrona «Guarda! Guardami, imbecille!» e l’uomo, rimanendo immobile alzò verso l’alto gli occhi piccoli e scuri che sembravano quelli di un tenero topolino, mentre la dominante, con le dita spostava la culottes leggera per mostragli lo spettacolo esclusivo e a distanza ravvicinata.
«Ti ho detto di muoverti?» e senza lasciargli il tempo di rispondere, impresse il tacco appuntito al centro della fronte ampia del maschio che, in quel pigiama a righe orizzontali sembrava una strana specie di animale. Una specie protetta, forse, o in via di estinzione.
«Lo senti il profumo, eh?».
L’uomo grugnì appena, incerto sul da farsi, se mostrare il giusto entusiasmo o fingersi ancora pentito.
«Annusa, dai porcellino, annusa bene e grugnisci» e sorrise ancor prima che lui iniziasse a deliziarla con un balletto così gioioso che se avesse avuto la coda avrebbe scodinzolato, e se avesse avuto orecchie lunghe e pelose le avrebbe mosse senza ritegno come un cane che abbia sentito arrivare il padrone.
«Bravo, bravo il mio porcellino educato» e la donna seminuda si piegò sulle gambe lunghe e magre fino ad arrivare al faccione tondo dell’uomo e dirgli tra le labbra, e in rapida successione, alcuni «porco, maiale e pervertito» pieni di promesse.
«Dai, adesso vai sul letto» gli ordinò senza particolari espressioni, come chi deve sbrigare rapidamente una faccenda per poi passare ad altro.
E l’uomo scomparve assieme al suo pigiama seguito dalla donna e dai suoi tacchi spaventosi.
«Perché non sei al lavoro?».
Lui emise un grugnito e poi un lungo gemito.
La camera da letto era in penombra e in disordine. Dalle persiane socchiuse un grigio plumbeo impediva al tempo di scorrere e allo spazio di dilatarsi.
Sui mobili, decine di cornici con foto di famiglia li guardavano sorprese per quel darsi da fare con corde e frustini, tra decine di arnesi di diverse forme e dai colori sgargianti tirati fuori con foga dal comodino accanto al grande letto.
Finché non si udirono che balbettii e sospiri, e un andare su e giù di carne umida e bollente, risuonare di palmi aperti, lamenti sommessi e più forti, alcuni cupi e altri gioiosi, tantissimi “sì”, molti “dai” e “ancora”, balbettanti “se continui così mi farai morire” e drammatici e sinceri “rimani così, ti prego”. Infine, il preoccupato annuncio di lui, un ansioso “sto per venire” che non era una richiesta ma un’affermazione certa cui seguì, comunque, il rassincurante e femminile “anch’io”.
«Ti amo», disse la voce maschile al termine del rumorosissimo orgasmo.
«Vai tu a prendere la bambina a scuola?», disse la donna ancora affannata.
«Ho consiglio di amministrazione alle quindici... ».
«Allora chiamo in ufficio e dico che ti è salita la febbre: vado io».
«Tesoro?»
«Sì?» rispose lei.
«Stasera siamo a cena dai tuoi».
E' bellissimo dal finale inaspettato.
RispondiElimina:)
Spettacolare.
RispondiEliminaComplimenti.