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martedì 31 gennaio 2012

Teresa e la coscienza che mai pesa

A Cortina proprio no a capodanno non si può!
E nel mezzo di una cena non ne può valer la pena!
I grandi patrimoni di destra e di sinistra
passano le Alpi ma per colpa di una svista.
I nostri capi comici parlan male del governo
ma a pagar le tasse non metton grande impegno.


Non voglio fare nomi, non ne vale più la pena
i corrotti sono tanti da ricordarli appena,
ma io vorrei sapere dal Vespone nazionale
se lui a mamma Rai paga il canone annuale.
Siam troppo abituati a questi luoghi comuni
E anche al malaffare siamo oggi tutti immuni.

Stanca di domandarmi come una cretina
quale sarà il nome del ladrone stamattina.
Su tutti i social network si urla alla rapina
ma poi cediamo sempre a saltar fatturina.
Si dice spesso sì al dentista che è capace,
lo sconto va bene e ognuno vada in pace.

Milena l’altro ieri ha pagato l’avvocato
-Milleessetecento era il prezzo se scontato!-
Giovanni il barbiere lascia il caffè pagato,
per ogni cliente che va via con un saluto,
quello che si ferma invece ligio alla cassa
passa per cornuto e nemico della massa.

Nessuno ne ha mai colpa né mai si dà dell’empio
- son sempre solo loro a far da cattivo esempio!-
Così poi ripetiamo agli amici annuendo
- non posso dir di no a una segnalazione
al capo di un giornale o all’esimio direttore,
è ancora il solo modo per avere l’assunzione!-

E andiamo via contenti e ci diam le gomitate
Per tutte quelle tasse che si dicono evase.
Siam tutti galeotti in un paese di corrotti
Scriviamo “bla bla bla” ma poi ci stiamo zitti
- mica son cretino a esser l’unico a pagare!-
ma qualcuno il buon esempio lo deve pure dare.



Questa è l’ipocrisia di chi evade giornalmente
e poi fa i conti in tasca a un lontano parente.
-Nicola il mio vicino ha il suv nuovo e l’amante!
la mia dirimpettaia riceve sempre strana gente!
Ma poi se il parrucchiere non fattura il taglio nuovo
saltiamo dalla gioia perché ci ha tolto cinque euro.

Siamo il solito paese pieno di contraddizioni,
un giorno corrotti e il giorno dopo censori.
Cerchiamo solo il modo per salvare il nostro culo
- l’IMU non la pago e vado avanti come un mulo!
Della Res Publica non siamo mica cittadini
Toccate proprio tutto ma non i miei quattrini!-

Tanto anche in ospedale sappiamo come fare
La lista d’attesa che è uno scherzo saltare.
Non importa mica se fottiamo un cittadino
-Io non lo conosco non è certo mio cugino!-
I nostri debitucci van rimessi al debitore
e faccio che il domani non m’induca in tentazione.

sabato 28 gennaio 2012

Diario di LOLA, settimo giorno, fotografie

Foto di: Alva Bernardine

Scivolata fuori dal supermercato con la busta della spesa piena di luoghi comuni e frasi, fatte lì per lì al bancone del pane, mi sono incamminata verso fiume.
Sull’asfalto ho misurato i miei passi e la distanza da Max, che al sicuro da ogni mio sguardo digitava frasi oscene a una qualunque, una che non avesse il mio nome magari, almeno non quello di una cabarettista che arrampicata su uno sgabello con in mano un bicchiere di roba forte e il trucco sfatto, riannoda i fili della calza smagliata –non della sua vita-, in attesa di riprendere il secondo set.
Per evitare di svoltare a destra, verso l’insegna spenta del commissariato, ho vagato un po’ senza entusiasmo.
Ho cercato a lungo il passato di alcune facce rinchiuse in cornici fuori moda, e che appoggiate lì da anni, forse dal giorno dell’inaugurazione, mi guardavano come malati gravi in attesa di visite, dagli scaffali di un vecchio negozio per stampe fotografiche.
Mi sono domandata chi è che li aveva lasciati lì. Se qualcuno aveva un giorno acconsentito perché quel pezzo di vita fosse messo bene in vista o se il negoziante, per questioni di gusto personale - o di semplice odio verso l’umanità intera-, avesse condannato quegli attimi a rimanere lì a vita, fino ad assumere un’aria triste e scolorita, fino a opacizzarsi come una pietra tombale che nessuno va mai a ripulire.
Mi sono chiesta che fine avesse fatto quella lì che allora sposa bambina e impettita nell’abito bianco della prima comunione aspettava l’attimo solenne. E chissà se anche lei si era sentita investita di una missione speciale quel giorno o se aveva pianto, come feci io, mentre salivo i tre scalini di pietra che mi separavano dal Don, prima di prendere tra le labbra, per infilarlo subito sotto la lingua, quel corpo e quel sangue così speciali.
Che cosa pensavano in quel momento gli adulti è stato per anni un tormento. Quali guai dovevano gravare sulle loro teste, mentre in ginocchio e con le sopracciglia aggrottate si ostinavano a sussurrare tra le labbra quel dolore, me lo sono domandato ogni domenica della mia infanzia.
Ma quel giorno mi sollevai delusa dalle ginocchia, in chiesa, e lo fui ancora di più quando tornai a casa, nel mio letto, nel constatare quanto dentro il buio della stanza, che mi faceva ancora più paura, non ci fosse alcuna traccia di santità: nessuna luce apparsa dal buio a incorniciare una faccia d’angelo dal collo lungo.
E chissà se quella donna, che immobile dal giorno delle sue nozze d’argento sorrideva, aveva già scoperto i vizi capitali dal marito o le sue stesse voglie, che riposte da qualche parte assieme ai bicchieri del corredo buono, avrebbero atteso in eterno un domani più propizio al il piacere.
C’era un uomo che si portava negli occhi già una traccia di al di là ma che forse, a chi lo guardava allora, doveva sembrare indifferenza e cinismo.
Pensai di entrare nel negozio con la scusa di comprare qualcosa, un album fotografico appartenuto ad altri, a quegli umani che camminano sul filo ad altezze vertiginose, ma ancora non lo sanno, o fanno finta, come se ci fosse un domani eterno e un poi, ancora tutto da definire.
Cercavo un album di giornate limpide al parco, di corse sulla spiaggia con il costume pieno di sabbia e l’inconfondibile macchia di catrame sul di dietro, proprio lì dove non dovrebbe stare.
Magari un reportage completo di un matrimonio, con le gerarchie familiari che banchettano, la sazietà che gonfia i sorrisi e i piedi che urlano pietà e si ribellano alle scarpe nuove, i capelli costretti in acconciature ridicole, la speranza di divertirsi un po’ negata già dall’antipasto, perché il marito sbronzo è da tenere sotto controllo così come la cugina, che ha tanto insistito per esserci, ma parla male della sposa e dice parolacce.
Volevo comprare un album di gite fuori porta, con la bambina che piange e nonna che dorme, stipata come un vecchio baule sul sedile di dietro, in fondo, i gambaletti color carne di due tinte più scuri nelle ciabatte da casa, rassegnata a quel domenicale essere riposta sotto l’ombrellone al solo scopo di elargire bibite e panini.
Volevo facce da riempire di senso, di un passato da ricostruire a forza di pietas e amore, volevo occhi appagati e fieri.
Album di vite cui restituire la parola e il libero arbitrio e non una speranza sempre disattesa, non un cammino vano, non un chissà e un forse.
Nonostante il campanello avesse annunciato il mio ingresso, nel negozio sembrava che non ci fosse anima viva.
Ho provato a chiamare con un timido –c’è nessuno- e visto che la risposta tardava, sono tornata sui miei passi.
Mi dica, mi ha ripetuto un paio di volte con un che di sbrigativo una voce maschile e dall’accento meridionale che doveva essere apparsa alle mie spalle.
Mi dica, ha ripetuto mentre mi voltavo.
Cercavo un album!, sono riuscita a dirgli.
Sono un amico del fotografo, ma dica pure a me, magari posso fare qualcosa, ha detto, e si è passato la mano sulla spalla, come se gli fosse rimasta attaccata una ragnatela, come se anche lui, assieme a quelle foto, fosse appena uscito da un al di là opaco.
Il collo largo e un’evidente scoliosi, la faccia, resa ancora più irregolare dal setto nasale vistosamente deviato, l’uomo aveva quel che di arrogante che mi faceva cercare disperatamente un buon motivo per uscire in fretta da lì.
Per caso si è persa?
Sì, volevo rispondergli.
Sì, sono ferma da un bel po’ a questo incrocio dai semafori guasti e dalle luci lampeggianti. Sa, ero lì che aspettavo l’occasione più giusta quando la luce si è spenta e non ho visto più la strada. Mi sembra di aver sbagliato qualcosa, sì, e che se lei potesse aiutarmi, ora, stamattina, gliene sarei grata per sempre, stavo per dirgli
No, ho detto, invece, soffermandomi sull’unghia perfetta della mia mano che seguiva una piega del tailleur giallo ocra.
Da quel piano americano che lo incorniciava, potevo vedere bene il taglio dell’abito antiquato ma ben tenuto, elegante, quasi un completo della festa addosso a lui e alla sua pelle scura, increspata dal sole come chi zappa la terra o trapana l’asfalto.
Guardi, piove, ha detto avvicinandosi a me e alla vetrina o più probabilmente alla vetrina e a me.
Era più alto di me, il che è raro.
Solo Max fino ad ora è risultato positivo alla prova del tacco.
Aveva addosso un buon odore, un misto di saponetta lux e camicia stirata.
Quando ho capito che da lì non sarei uscita mai più, e che –non so per quale magia- quel negozio sarebbe sparito nel nulla e che di me non sarebbe rimasta più traccia, ho fatto un paio di passi verso la porta.
Ha detto: non esca con questa pioggia, signora.
Ho risposto: sì, ha ragione.
Lalama, ha detto stavolta sorridendo e porgendomi la destra ampia –come dev’essere in un uomo dal collo forte e dal setto nasale deviato-.
Lalama, sì, esattamente quella che taglia, ha continuato senza staccare gli occhi dalla pioggia, o forse dalla polvere che stava in vetrina.
Lola, ho risposto alzando il tono della voce come in una specie di contentezza insensata.
Il mio cognome non è sugli elenchi, ma sicuramente lo conoscono tutti, almeno quelli che Max ha condannato a morte con un click, con un “no” ben marcato incasellato su un modulo di una richiesta di mutuo.

martedì 24 gennaio 2012

Teresa e il pensiero vintage.

Che nervi questa Italia che sta sempre a commentare,
colpa dei social network e della disoccupazione,
colpa di chi ha detto che solo l’ironia,
ci salva dalla noia e dalla misantropia.
L’ansia di dir qualcosa e di comunicare
di stare lì sul palco e tutti a straparlare.



La fantapolitica e l’arte del complotto
son quasi più attraenti di un terno al lotto.
La storia è sempre quella ed è quasi un tormentone
non esiste più know how né la vera professione.
Ognuno s’improvvisa secondo l’occasione
oggi capitano, domani, cialtrone.

Tutti sempre in cerca del bruco nella mela
e ora ci si mette anche la giovane moldava.
Uno non è eroe ma ha fatto il suo dovere
l’altro è un vigliacco e non c’è altro da sapere.
Digitare un’opinione, o fare copia e incolla,
è ormai dell’esistenza, l’unica molla.

Il web è popolato da editori rinomati,
e tutti ci auguriamo di essere notati.
Ma giudici e padrini li incontri alle feste
alle inaugurazioni o nelle case d’aste.
La casta dei giornali e dell’editoria
badano al tuo nome e mai alla fantasia.

La colpa è di chi lascia a casa l’eccellenza,
lo Stato sempre il primo ad aprire la danza.
Le stanze di palazzo aperte alle veline
ventenni laureate a pulire le vetrine.
Dicono che il clima è veramente cambiato,
ma io la differenza ancora non la noto.

Inutile sforzarsi e sperare in un futuro,
nella vita devi avere solo un gran culo.
Non serve lo studio, non la competenza,
di quella già sappiamo che si può fare senza.
A nessuno proprio importa dove hai studiato
a tutti interessa chi è che hai conosciuto.

Sottosegretari che cercan soluzioni
Sono sempre i figli “di”, dei soliti padroni,
uno che a studiare non ha faticato
e che a ventidue anni è già laureato.
Lo studio di papà a sua disposizione
un doppio stipendio e la certa pensione.

Dovremmo finirla di stare a sindacare
di cercare ogni minuto la frase originale.
Un poco di umiltà e di ascolto interiore
e mettersi nei panni dell’interlocutore
Invece di cercare di emergere tra i tanti,
cerchiamo la verità che è in tutti quanti.

Non sono disfattista e la politica non c’entra,
è un fatto di costume in cui conta l’apparenza.
Io che sono nata negli anni sessanta,
io che ho preso tutta la mia dose d’ideale,
io che a colazione bevevo latte e “Capitale”,
tra queste macerie, mi trovo proprio male.

venerdì 20 gennaio 2012

Teresa e l'inutile spesa

Ha ragione Serge Latouche quando dice certe cose,
che la nostra frustrazione è barattata con le spese,
l’acquisto compulsivo come estremo tentativo
di colmare il vuoto è un assurdo palliativo.
Ninetta mia cugina che non trova l’uomo giusto
ha la scusa sempre pronta per il cellulare guasto.



Giovanni mio cognato che voleva far l’artista,
si è fatto l’auto nuova e adesso pure l’autista.
Marino suo fratello in depressione perenne,
compra moto nuove per farsi la ventenne.
Zazà lo zio acquisito che sognava un’altra vita,
Sta bene solamente se ha roba nuova tra le dita.

Susanna la mia amica non si sente realizzata,
sorride se mi elenca tutto ciò che si è comprata.
Lino il fidanzato che è ormai senza lavoro,
ruba a sua madre per comprarle roba d’oro.
Zia Ada quest’estate per andare in vacanza,
ha costretto suo marito facendogli violenza.

-Io voglio quel maglione non ne posso fare a meno!
È proprio quello giusto esattamente di quel nero!-
Ma il nero è sempre uguale, è solo un’altra scusa
per tornare a casa sola ma con una nuova blusa.
Davanti alla vetrina viene in bocca l’acquolina:
è solo un modo assurdo di aumentare l’autostima.

Se ho ricevuto un “no” chiaro ed esaustivo,
m’infilo in un coiffeur per farmi un taglio nuovo.
Mi dispiace cara mia, la tua faccia è sempre uguale!
Non puoi sperar così di colmar la frustrazione
del marito disattento e dell’amante che non chiama
forse è della tua vita che cambierei la trama.

Di cappotti, maglie e jeans ho già l’armadio pieno
ma comprare quel vestito appaga ogni desiderio.
Lo compro e son felice e cammino più leggera
ma quando torno a casa la mia vita è ancora nera:
il ragazzo che non studia, mia figlia ha già le voglie
io guardo quel cretino di cui sono anche la moglie.

Non c’è più nessun guru da stare ad ascoltare
non più nessuna traccia su cui poter camminare
ma solo otto punti che dovremmo attuare:
rivalutare, riconcettualizzare, ristrutturare
ridistribuire, rilocalizzare, riutilizzare,
poi ridurre e infine riciclare.


Questa è una ricetta per cambiar l’economia,
per la felicità di ognuno è l’unica via.
Spezzare la catena che ci lega al consumismo
all’acquisto senza senso che porta al parossismo
per esser più coerenti con ciò che professiamo
quando sui social network clikkiamo e protestiamo.













Teresa scrive anche per: http://www.informarexresistere.fr/2012/01/21/teresa-e-linutile-spesa/#axzz1k0rOd1hS

martedì 17 gennaio 2012

Teresa e l'abbraccio digitale

Della storia della nave non ho voglia di parlare,
non mi va, lo fan già tutti, non mi metto qui a copiare.
Posso dire solamente: accidenti al comandante!
Una secca l’ha affondata, ecco solo com’è andata,
non un iceberg gigantesco né una gigantesca ondata,
forse solo distrazione, ecco, solo, com’è andata.


Oggi sono molto triste, non in vena di conquiste,
le storie qui sul web sembran tutte già viste.
Ci stai per pura noia o per una distrazione,
lo fai mentre il tuo “capo” è a fare colazione.
Magari quel commento allo “stato” di qualcuno
E ora ti ritrovi a dar corda ad un cretino.

L’uomo digitale è di emozioni un trafficante
Si eclissa e si palesa solo quando se la sente,
seduce con e mail e foto ritoccate
regala tutt’al più, storie taroccate.
Eh sì, porca miseria, non è più come una volta,
che uscivo al pomeriggio con l’amica bella e stolta,
e andavo fino al Corso a fare la mia scelta.


Oggi ci si acchiappa tra virgole e “mi piace”
È il punto sospensivo quello che seduce
È l’attimo fuggente di un incontro rimandato,
il punto a un’esistenza da maschio incatento.
L’amore digitale è un buongiorno con faccina
Il cercare tra i commenti la tizia più carina.



L’essenza di quel cuore che batte lontano
normalmente non lo trovi a portata di mano,
l’amore in questo tempo di vuoto e di distanza
lo trovi, comunque, al chiuso di una stanza.
E ancora ci ostiniamo a stare lontani,
l’abbraccio solamente ci rende più umani.

E sforno meringhe e cucino grandi torte,
e sola qui nel blog, mi annoio a morte,
l’amore che cos’è? L’ho visto da lontano
è passato di sfuggita e mi ha teso la mano,
l’amore che cos’è? è una breve passione,
lascia stare quella roba che c’è in televisione.

L’amore sul web è solo un’emozione,
lo sogni di notte e gli imbocchi parole,
lui dice ciò vuoi e fa quello che deve,
l’amore sul web è per chi ancora se la beve.
Non dico di no a un sogno fugace,
l’amore alla fine da solo mi dà pace.

domenica 15 gennaio 2012

Diario di LOLA, sesto giorno, la scrivania

(Foto di Julien Pacaud)
Vero, è un po’ di giorni che non mi faccio sentire. Non voglio tenerti sulle spine no, è che è tutto molto strano, troppo, così volevo capirci io qualcosa prima di raccontarti com’è andata. E ancora non so come sta la faccenda.
L’altro giorno - una di quelle mattinate in cui nel cielo ci vorresti nuotare per quanto è limpido - avevo deciso di attraversare il ponte per arrivare al Commissariato a un paio di isolati più in là del fiume, ma quando sono andata in salone per cambiare l’acqua ai lilium ho visto di nuovo la donna. Stavolta mi guardava e basta. Non annuiva come fa di solito per poi finire quella pantomima in un sorriso no, se ne stava con il naso all’insù e guardava verso di me, e sembrava anche ce l’avesse con me. Le sopracciglia, tatuate, si erano abbassate sugli occhi, e lo sguardo era stranamente scuro. Allora mi sono allontanata in cerca della macchina fotografica ma quando sono tornata di lei non c’era traccia e le persiane dell’appartamento erano chiuse.
Ho avuto paura e mi sono diretta subito in studio anzi no, per la verità mi sono messa a correre, e con le braccia protese in avanti, come una bambina, per bloccarmi di colpo sulla soglia e alla sua porta sempre aperta.
Max stava con lo sguardo perso nel solito altrove e tamburellava con ritmo pacato sulla scrivania. La scrivania di suo padre e del nonno, robusta e troppo impegnativa, troppo grande, come una donna cannone tra acrobati sottili e ballerine.
Quella scrivania messa così divora tutto il resto.
Lì sulla destra ho sistemato le mensole di ferro battuto prese a Parigi. Volevo così la nostra casa, piena di punte e spigoli, piena di vuoti. Anche le cornici, che occupano l’intera parete a sinistra, sono vuote, e le piante di orchidee e aunthourium vicine alla finestra stanno su tre piedi lunghi e sottili, immobili sotto il sole come gru nella palude.
Ci penso ogni giorno a come liberarmi di quella maledetta scrivania.
Ho lasciato Max sognare il centuplicarsi del suo danaro e l’ho immaginato sguazzarci dentro per un po’ e solo quando gli sono andata più vicino ho visto il suo lungo indice ordinare alle finestre di google di nascondersi in fretta.
Che c’è?, mi ha domandato con lo sguardo.
Non poteva capire tutta quella storia -la donna misteriosa, la mia angoscia... - e tornando verso il corridoio gli ho detto che volevo solo avvisarlo che più tardi sarei uscita.
Ha sorriso e basta senza badare nemmeno al tailleur che avevo addosso, un vecchio pezzo da museo color ocra che avevo voluto comprare a tutti i costi a Firenze, in un negozio di roba vintage, in un pomeriggio di pioggia che sapeva di cioccolata calda e di lenzuola stropicciate e umide in un tempo che mi pare ancora immobile.
Lo odia quel tailleur perché gli ricorda la sua prima volta, perché lo costrinsi a uscire per correre in tassì alla ricerca del negozio nascosto in una traversa buia. Lo odia perché volli tornare a piedi, di corsa, sotto la pioggia battente e perché una volta in Hotel m’infilai vestita sotto la doccia bollente.
Esci, mi disse, esci subito di là e preparati per la cena, mi disse senza guardarmi, e infilando nel taschino carta di credito e occhiali aggiunse un conclusivo -Fai presto- prima di scomparire risucchiato dal lungo corridoio e nell’ascensore.
Dal bagno, era passata un’ora, lo sentii armeggiare nella cabina armadio con delle buste, era rientrato, mi aveva perdonata. Quando alzai lo sguardo stava dietro di me.
Ero sempre lì a guardarla da bambino, mi disse, mia madre, disse ancora, mia madre, ripeté prima di cambiare sguardo e addolcirlo così come la voce.
Infilale in bocca, e mi porse un paio di minuscoli slip che teneva in un pugno, e scendi subito, aggiunse. Mangerai domattina, e si voltò verso la porta, se lo riterrò opportuno, concluse dandomi le spalle, in piedi e al centro esatto della stanza e del mio passato.
Mi aspettava alla luce calda del salotto con un bicchiere tra le mani e quando mi vide si alzò aggiustandosi con abilità la piega dei pantaloni per porgermi la mano.
Muta, lo guardai mangiare e parlarmi di sé e di me, del tempo che avremmo vissuto, di quello passato a cercarmi, della noia che prima di me aveva divorato le sue ore e i minuti senza senso, dei giorni pallidi fatti di scadenze da rispettare e tappe obbligate.
Muta, lo seguii in un tassì e muta lasciai fare alle sue mani mentre il tassista guardava la scena dallo specchietto retrovisore e nei miei occhi pieni di lacrime sottili.
Ma ora il mio Max passato e dimenticato in quella stanza luminosa al secondo piano di una via chiusa al traffico, se ne stava di là in studio a fare quattrini, mentre io scendevo in strada vestita color ocra.
Perché ti racconto di me e lui?
Tu non sei Max, tu non sei nessuno e dici di volermi aiutare. Quella donna io non so chi sia, così come la gente che per strada mi guarda. Sono loro la mia ossessione assieme a tutto questo silenzio e a questo tempo che non va più da nessuna parte.

Quando cammino la gente mi guarda. Anche quando parlo, chiedo un giornale o prendo un caffè la gente mi guarda.
Io no, perché io la gente la spio.
Esco da casa e vado in cerca di vite su cui indagare, personalità che fanno rumore e che si domandano perché si vive e perché si muore, che non lasciano a Dio o a chi per lui l’onore di vincere la mano e di avere sempre ragione.
E per le mie indagini il supermercato è un posto perfetto.
Lì tra gli scaffali gli umani parlano spesso da soli e tra loro si scambiano inutili battute, come animali nel branco. In quei posti dove cattiva musica a tutto volume rende difficile concentrarsi, questi esseri senzienti non vedono al di là del proprio naso e della lista della spesa.
L’uomo grasso si rosicchia le unghie e riempie il carrello di vino e birre, patatine e cibi precotti, la mamma indaffarata litiga con se stessa incapace di fare una scelta tra qualità e prezzo, la tizia nevrotica e insicura prepara una cena per due e non bada ai capelli dalla ricrescita bianca –la sola cosa su cui lui concentrerà lo sguardo-. Il vecchio, cerca un modo qualunque per attaccare discorso, il bambino, una buona scusa per frignare.
Quando cammino porto occhiali scuri. È che non mi va di incontrarmi in un riflesso e non riconoscermi più in questa nuova veste: non so più chi sono. È come se l’incrocio dai semafori rotti dove mi trovo anche adesso mi tenesse in ostaggio da sempre.
Quando mi sono fermata qui?
Quand’è che ho cominciato a cercare un altrove più definito?
Ma voglio ritornare alla storia, anzi, scusa per la divagazione.

venerdì 13 gennaio 2012

Considerazioni sull'uso e il consumo del "sesso estremo”.

Disegno di Man Ray


Se su Google digito “S/M” mi arriva per prima la definizione di wikipedia che, puntuale, dà notizia di questa pratica sessuale, conosciuta ai più come sadomasochismo, accostandola sbrigativamente, in tre righe, alla devianza e alla perversione.
Io non mi definisco un’esperta in “pratiche sessuali estreme”, non oso farlo, non è mia, in generale, l’abitudine a definirmi in qualche modo come invece fanno, a sproposito, alcuni giornalisti e scrittori. Non lo faccio perché anche se amo, conosco e frequento certe pratiche -e pochi praticanti esperti per la verità-, mi piace parlarne per sottintesi, standone alla larga, cercando comunque di non entrare –o di farlo in punta di piedi- nel merito di qualcosa che rimane rinchiuso nel privato di ognuno.
Così come non pubblicizzo le mie amicizie, i miei rapporti e tutto quanto di spettacolare mi è capitato nella vita, e se non mi dico “esperta” è semplicemente perché per me, nulla, in certi ambiti, è spettacolare, strano, deviato o perverso.
Rido pensandomi rinchiusa all’interno di una definizione, una qualunque, e mi fa orrore l’idea di essere riposta –quando e se arriverà il mio tempo- sullo scaffale di una libreria tra la letteratura di “genere” erotico o peggio “femminile” e mi dà già allergia l’idea di essere definita opinionista, critica, giallista o romanziera. Ma visto che siamo stati addestrati a comprare guardando sempre le etichette e ci pare assurdo non sapere con esattezza gli ingredienti di un determinato prodotto, cerchiamo sul web ciò che dovremmo essere in grado di saper riconoscere da soli.
Attorno al sesso estremo e grazie alla letteratura di serie “C”, si è sviluppato negli ultimi anni un mercato ricchissimo di merchandising, film e manualistica che poco ha a che vedere con la realtà.
Perché la maggior parte dei veri esperti, quelli che da sempre frequentano –e senza troppa pubblicità- questa pratica di sottomissione/dominazione consenziente, acquista i propri strumenti –se proprio servono e non bastano le mani o la cinta- in semplici e poco costosi negozi di ferramenta o casalinghi, non certo nei sexy shop.


Nessuno si può definire un esperto di sesso o delle sue derivazioni. Il sesso riserva continue sorprese e non ci sono limiti né nel numero né nelle forme che il piacere può assumere perché, di fatto, non esiste un manuale d’uso –anche se i più stupidi continuano a sfornarne di nuovi-.
Se guardiamo il sesso come conoscenza e semplice esperienza –visiva, tattile, olfattiva, gustativa e psichica- ci renderemo conto che la fonte del piacere è soggettiva e pertanto indefinibile.
Come si possono elencare le preferenze di ognuno?
Come tracciare la soglia del dolore/piacere o il limite entro cui rimanere?
Ma gli “esperti”, qui, in questa penisola dove ogni ambito va ricoperto, i tuttologi dall’apparenza e dal look giusto, dopo aver messo in fila una ventina di racconti privi di profondità e pieni di luoghi comuni –smalti di ultima tendenza, creme, tutine di latex e vibratori- tracciano linee guida e danno consigli del tipo che il sesso estremo si pratica sapendo che è solo finzione, o che il settanta per cento delle coppie pratica sesso estremo –intendendo con esso, è chiaro, qualche sculacciata sonora e nulla più-.
Il sesso estremo non è finzione.
Anche se esistono un inizio e un termine di una “sessione” sado maso, i segni sul corpo rimarranno indelebili anche per un paio di settimane –la submissive trova in questo il massimo del piacere-, così come la sensazione di bruciore diffuso che farà sentire alla slave la vicinanza con il Master per lo più, e per definizione, irraggiungibile e assente.
Perché questa pratica ha molto a che vedere con il legame mentale di Master e Slave e con il potere che l’uno esercita sull’altro in un continuo gioco di assenza e privazione.
Le punizioni, almeno quelle che io conosco, sono più dolorose se applicate alla mente piuttosto che al corpo.
Quindi non basta, come la maggior parte dei nostri esperti in materia sostiene, indossare un abbigliamento da cubiste e uno sguardo un attimo truce per darsi alla pazza gioia raggiungendo così altissime vette di piacere.
Il sesso estremo è saliva, dolore, attesa, privazione, pissing e umiliazione.

Digitando la parola “Bondage”, pratica derivante dalla stessa matrice ma basata sulla legatura del soggetto sottomesso, ecco che mi si apre un mondo.
È bastato un fatto di cronaca nera perché sia scoppiato il caso e la curiosità. Ed è a questo punto della ricerca che l’inesperta fan del rischio, il nottambulo frequentatore di siti hard core o il marito stanco, s’imbattono in un mondo dei balocchi fatto di personal trainer e coach, corsi e manuali, annunci e promesse che poco hanno a che vedere con lo spirito di certe pratiche e direi con il sesso stesso e perché no, con l’amore in generale perché, che lo vogliate o no, queste pratiche si basano sulla fiducia.
I soliti esperti, che si sono dati per l’occasione a un frenetico e casuale copia incolla tra colleghi, così come le centinaia di Ghostwriter che si ostinano a scrivere finte biografie di vere prostitute, danno di queste pratiche definizioni da supermercato, patinate e che odorano di crema alla Vaniglia. Questi vademecum sono così inutili e così poco autentici, da trarre in inganno sì e no la solita casalinga frustrata e in odore di trasgressioni da sabato sera.
I signori esperti dovrebbero sapere -e sono grandi tanto da potersi applicare un pochino!-, che il sesso non è mai slegato dalla vita quotidiana, non è qualcosa per il quale è necessario infilarsi maschere e non va al di là delle mura domestiche e dei sogni che riponiamo sotto il cuscino ogni notte.
Un Master non ha nulla da imparare e si riconosce da lontano: basta uno sguardo o una parola giusta. Master e Slave si nasce, ed esserlo, come ho ripetuto più volte in altri post, ci porta automaticamente a una condizione di solitudine e ricerca costante.
I millantatori, infatti, si nascondono ovunque.
Quelli che sfuggono la noia quotidiana, cercano riparo in pratiche “diverse” sperando così di cambiare il risultato. Ma non è così semplice.
Il sesso, e questo lo dovrebbero capire anche gli editori, che costringono i più talentuosi –scrittori sicuramente sul filo della devianza e della visionarietà -, ad amputare dai propri scritti le parti più “sconce”-, il sesso, è qualcosa che s’intrufola nel nostro quotidiano senza un disegno prestabilito, che scaturisce d’improvviso, naturalmente, se guardo, per esempio, la mano di un uomo che apre con decisione lo sportello di un’auto o che si aggiusta il bavero del cappotto, un passo svelto, uno sguardo sfuggente.
Esiste chi ha l’arte del comando nel dna e non lo saprà mai –per educazione, religione o pudicizia-, e chi ama stare in ginocchio ai piedi di qualcuno da quando è nato, e che per farlo è passato dalla punizione del padre a quella del parroco a quella del marito, vagando nel buio della propria perenne insoddisfazione per sentirsi, in aggiunta, anche “deviato” o perverso.


Tutto questo parlare degli “esperti”, ha a che vedere con la straordinaria richiesta di “sesso estremo” che il pubblico fa. Mi basta dare un’occhiata alle parole chiave digitate per arrivare al mio blog per capire che le cosiddette perversioni, hanno sull’italiano medio un’incredibile presa, e nella società dell’informatizzazione -più che dell’informazione-chiunque, previa richiesta del direttore editoriale può, armato di buona volontà, mettere insieme qualche informazione di base, sempre attento –per carità- a porre l’accento sulla pericolosità dell’esercizio di tali pratiche, senza mai spiegare il perché.
Il sesso non ha nulla a che vedere con la violenza e non esiste un “sesso estremo light” come chiamato su molti magazine, se è light non può essere estremo. Quindi attenzione: se picchiate vostra moglie perché vi sentite frustrati andate in analisi o da un buon divorzista e se al contrario la bendate e le date qualche pizzicotto e ciò basta a eccitarvi, siete già sulla strada sbagliata, state perdendo tempo con una pratica confezionata da Marketing Manager dell’hard core e che non vi porterà a niente.
Le regole di questa pratica sono poche e vengono generalmente sussurrate dal Master alla neofita submissive.
Una è sicuramente quella di lasciar perdere i travestimenti e di darsi da fare a conoscere il proprio Master, condividerne i gusti e le preferenze, l’altra è quella di accordarsi sulla “safeword” ed essere certi di ricordarla –certe volte si perde completamente il controllo- e soprattutto di essere sempre in condizione di poterla pronunciare; l’ultima regola –assai più romantica- è di ringraziare sinceramente il Master o la Mistress dopo ogni colpo ben dato.
Tutto il resto è attesa, fiducia ben riposta e complicità, totale adesione e amore sconfinato.

martedì 10 gennaio 2012

Teresa e la solitudine dei capi d'impresa.

Ho appena preparato una grossa millefoglie,
e mi son venute in testa delle strane voglie,
e guardando Marchionne in televisione,
mi sono domandata quand'è che fa l’amore
o se si domanda, anche in quell’istante
se quel rapporto lì sarà o no conveniente.














Se anche in quel momento così delicato,
ha  quell'espressione lì da amministratore delegato
oppure tutto a un tratto si fa timido e imbranato.
Tra uno strato di crema e un di cioccolato
l’ho voluto immaginare fragile e delicato,
chiamar per un consiglio il suo fedele avvocato.


Mi domando in cosa lui trovi il piacere
se lui in fin dei conti tutto può ottenere,
e poiché si desidera ciò che avere non possiamo,
chissà che cosa cerca lui che ha tutto vicino.
Come può sentirsi un uomo così importante,
che ottiente tutto al prezzo di niente.

Come i giardinieri che nella sua villa Svizzera
pagava un terzo del minimo stipendio,
dicendo poi di non saper nulla di tale scempio.
Che poi un uomo come lui che nasce normale,
saprà di certo, o forse per sentito dire, cos’è la fame,
e davanti a uno specchio dovrà pur passare.

Ma lo diciamo tutti che è un manager geniale,
che sopra il grande oceano sa come comandare,
e poi lavora così tanto e così di buona lena,
che farsi la barba per lui non vale la pena,
o forse sotto la doccia la fa una puntata,
o diciamo grazie a lui anche per l’acqua risparmiata.

Povero Sergio tra conference call e aerei
li reprime proprio tutti i suoi più bassi desideri.
Io non lo so proprio come si fan tanti quattrini,
ma tanti tanti tanti da sfamar grandi e piccini,
ma si sa che il soldo oggi è di chi se lo guadagna
e poco importa ciò, che un morto in croce insegna.

Lui lavora sodo, non e che “lavoricchia”,
è un manager mondiale e si rifarà in pensione,
di tutto il tempo perso a stare dietro alla fusione,
alla crescita, al volume, alle vendite e all’inflazione.
E non posso più pensare al capo d’impresa,
devo trovare venti euro per fare la spesa.

sabato 7 gennaio 2012

Teresa e la twittologia

C’è chi crede che a twittare
ci si possa guadagnare,
c’è chi vaneggia, pontificando,
su come il proprio nome si vada amplificando,
chi detta regole e dà direttive,
sul giusto modo di ritwittare.


Chi si sveglia al mattino facendo la conta,
dei vip che siedono alla sua tavola rotonda,
chi si contraddice in continuazione
e insiste anche ad aver ragione.
Inutile fare i nomi degli insigni giornalisti
Che sono diventati all’improvviso twitteristi.

Twitter è un microcosmo disumano e classista
che misura il talento dai follower in lista.
Il numero dei twitter è poi fondamentale,
dire poche cose, e giuste, è ormai lo sport nazionale,
maestri improvvisati che fan di twitter una filosofia
anziché mettere in pratica la propria esibita filantropia.

A guardarli bene questi moderni fari delle coscienze,
ci si accorge che rispondon solo per convenienze,
cinguettano tra pari di massimi sistemi,
e lascian senza risposte noi comuni mortali.
C’è chi parla di leggi, gerarchiche e frustrazioni
Ma a ben guardare è stato il primo a parlar di gare e premi.

Il web è libertà assoluta, il web è vita vissuta e democrazia,
non portate anche qui il sistema della partitocrazia,
se vi conviene coltivare rapporti di scambio,
fatelo a casa vostra e risparmiateci questo scempio.
Non restate dietro il monitor a pavoneggiarvi
Su quanti hanno avuto l’ottima idea di ritwittarvi.

Nella vita vince solo chi ha curiosità intellettuale,
vince la sincerità e la capacità di vedere,
vince chi è in grado veramente di aiutare,
vince ancora e sempre chi è in grado di amare.
E non dite -per carità- che volete con noi "massa” mescolarvi,
ciò presuppone che da soli vi siate posti al di sopra degli altri.


È l’umanità che sceglie chi innalzare
e chi con il proprio giudizio lasciar annegare,
sareste degli zero non ci fosse la “massa” di cui tanto parlate,
a mettersi in ascolto di ciò che dite.
I più grandi virtuosi hanno avuto in dono l’umiltà,
i più grandi poeti parlano solo di umanità.

venerdì 6 gennaio 2012

Diario di LOLA, quinto giorno, il sogno

Ho provato a chiamarti ma stavolta avevi il cellulare spento.
Colpa delle feste.
Colpa di tua moglie, che ti sta sempre attorno carica di premure coniugali e di “tesoro” infiocchettati come i regali che di nascosto -e piena di infantile emozione- ha lasciato scivolare sotto l’albero la notte dell’antivigilia o nel pomeriggio, quando ti ha mandato di corsa, e con una scusa, a comprare qualcosa all’ultimo momento, prima dell’arrivo degli ospiti, ancora caldo per la lunga doccia e fresco di colonia.
Il cielo è stato grigio come di rado nei giorni di festa, e stamattina ho indagato un po’ sulla donna che dal palazzo di fronte annuisce e mi sorride.
Anche il mio portinaio sostiene che quell’appartamento, proprietà indivisibile fra tre fratelli litigiosi, è sfitto da anni e che da anni nessuno ci mette piede. Ho provato con il salumaio di zona, quello da cui ci serviamo sempre, e che preso dall'euforia dei guadagni e bardato da Babbo natale alzava le spalle e annuiva e poi negava – felice di approfittare della mia distrazione per rubare sul peso-.
Pazienza.
Aspetterò che passino le feste per capire. La stessa cosa mi sono detta passeggiando per il centro, pazienza, e l’ho pensato anche quando mi sono vista, pallida e troppo magra, riflessa negli specchi delle boutique affollate.
Pensavo ad altro, alla donna misteriosa e al sogno di stanotte, a Max, e anche mentre toccavo tutto ciò che mi stava a portata di mano ripensavo alle stille di sangue che sui miei piedi, e poi attorno alle caviglie, sembravano rubini di un sandalo gioiello. Pensavo all’uomo seduto in poltrona e che in un primo momento credevo fosse Max, ai calzini verde petrolio che intravedevo nel buio, al filo di fumo giallastro che usciva dalle sue labbra e produceva un curioso rumore. Sentivo anche il mare a un passo da me, nel sogno, e devo aver confuso il bagliore di un lampione per il gelido chiarore lunare.
Era l’alba quando svegliandomi mi sono accorta che Max non c’era.
Sono anni che mi sveglio di soprassalto al centro esatto del buio, e sempre alla stessa ora, e Max è sempre stato lì con il suo respiro calmo, come quello di un bambino senza colpa e non ha ancora provato il dolore. Max è sempre stato lì, immobile, a lasciarsi guardare.
Ma stavolta non c’era e così mi sono alzata per cercarlo. Volevo dirgli di quell’incubo e della donna che solo io riesco a vedere. Volevo dirgli di non lasciarmi andare e di abbracciarmi un attimo, anche solo quando capita, o quando proprio non ha niente da fare.
Ho camminato al buio e ho seguito le trame del morbido tappeto -quello che ci regalò Anna per il nostro matrimonio- poi ho sfiorato il legno caldo e le sue sfumate imperfezioni e poi l’altro tappeto –quello comprato in Giappone, quando Max mi teneva ancora per mano- poi, il ancora il legno dell’ingresso. Ho anche urtato contro l’anta dell’armadio a muro, che devo aver lasciato aperto, e dopo altri tre passi sono entrata in salone.
È lì che nel sogno c’era l’uomo che sembrava Max e che fumava, lui, invece, era in studio a elaborare eccellenti strategie finanziarie. Secondo me era lì a chattare.
Era un sacco di tempo non sentivo la sua voce. Max mi invia emoticon per e mail o sms anziché parlare.
L’ultima volta è stato un mese fa, mi pare, quando a tavola mi ha domandato di passargli del pane. Anzi, ora che ricordo ha pronunciato solo la parola pane, come un bambino appena svezzato e che ancora non sa domandare. L’ha fatto solo perché io avevo gli occhi appoggiati sul giornale, e chissà da quanto tempo stava lì a gesticolare inutilmente, e chissà perché non si era alzato a prenderlo da sé, a tre passi da lui, sul carrello liberty di cristallo e ottone, che più di una volta sono stata sul punto di rompere: un regalo di sua madre.
Comunque, quando Max mi ha vista sulla porta –una sagoma scura-, e dopo essersi spostato i capelli dagli occhi con il suo solito gesto breve, mi ha detto: vieni da me bambina.
Ho saltellato fino a lui come un cane fedele e mi sono seduta sulle sue gambe lunghe e muscolose.
So com’è fatto quel corpo.
Le ho misurate in lungo e in largo le fasce muscolari che in sintonia con il suo fare sicuro lo sollevano di continuo per accompagnarlo altrove.
Saprei disegnare anche al buio l’ovale perfetto del suo viso e la curva del suo setto nasale, la fossetta sul mento sempre un po’ ispida, il collo sottile come quello di una donna. Posso anche raccontare nei minimi particolari la sua arroganza e il suo fare sbrigativo quando decide di restarmi vicino invece di andare a mercanteggiare e fare quattrini.
Qualunque altro uomo mi scodinzolerebbe dietro come il più servile dei cani mentre Max non mi degna neanche di un fischio, come tua moglie, che si sarebbe venduta un rene pur di farsi toccare da te la notte della vigilia di Natale.
Poi, Max deve aver sentito il mio peso perché sollevandomi dai fianchi mi ha domandato cosa ci facessi sveglia a quell’ora ma quando mi sono decisa a dirgli di quello strano sogno e della donna misteriosa, già esultava per un rialzo di capitale.
L’uomo del sogno che sedeva con le gambe allungate sulla poltrona di Max, e che fumava facendo rumore, sembrava un po’ il tizio che ho visto assieme a mio padre confabulare qualcosa e che ho lasciato tanti anni fa, a fumare appoggiato al bancone di un bar del centro.
Indagherò sulla donna scomparsa e su quell’appartamento.
Non può essere scomparsa nel nulla una che da due anni vedo passare davanti alla finestra sempre indaffarata con qualcosa: trasporta una sedia, svolge una lunga corda o prende appunti su un piccolo quaderno color acquamarina.
L’ho vista fino a ieri e ogni giorno davanti alla larga finestra al secondo piano qui di fronte spostarsi dietro anonime tendine di finto lino e finto pizzo.
Non può essere andata lontano.
Forse il portinaio non ha capito, e così il salumiere.
L’ho vista anche dalla strada oltre che dalle mie finestre. In realtà mi pare di averla vista anche entrare nel portone.
È piccola di statura, e i capelli sono tinti di un nero intenso. Il viso è rotondo e le guance ancora piene. Le sopracciglia sono tatuate e gli occhi chiari e opachi. Le mani sembrano le zampe adunche di un rapace: ha l’artrite.
Sì, ho preso il binocolo da teatro un giorno di qualche mese fa.
Sono anche riuscita a vedere un tappeto blu notte dove poggiano le gambe del tavolo, una credenza dal marmo leggermente opaco e le gambe di una sedia in stile sicuramente foderata di tessuto lucido e rosa decisamente dozzinale.
La sedia che trascina da una parte all’altra del salone, invece, è di legno, forse la usa in cucina dove sicuramente pranza e cena, da sola. La corda che porta sull’avambraccio destro, come i manici di una borsetta, è spessa, come quella che Max portava sulla spalla quel giorno in villa e che sogno possa stringersi un giorno attorno al mio collo, ai miei polsi, tra le mie gambe e infine alle caviglie.
Max vuole dormire tranquillo.
Max pensa che certe cose è meglio guardarle fare da altri e altrove, magari di là di quel maledetto monitor formato gigante che lo tiene in ostaggio da anni.
Allora ho pensato di lasciarlo ai suoi numeri e sono tornata di nuovo a letto, e di nuovo ho attraversato il buio.
Stavolta però non ho sbattuto contro l’anta dell’armadio, mi sono tenuta al centro allungando le braccia sui lati, come un’acrobata poi, mi sono preparata a calpestare il marmo gelido.
Nel letto ancora caldo ho provato a sentire l’odore di Max. Pensavo che con l’idea di un lui accanto mi sarei addormentata.
Voglio solo sapere chi è che si nasconde nell’appartamento di fronte. Credo che non potrò dormire finché non saprò che cosa vuole da me quella donna.
Sto uscendo per andare al commissariato.
Non è così distante, mi basta attraversare il ponte.
Foto di Alva Bernardine

giovedì 5 gennaio 2012

Tratto da "Domani nella battaglia pensa a me” J. Marias


«(...) tutto è così anche se ce ne dimentichiamo e non ci pensiamo per rimanere attivi e per continuare ad agire senza sapere, decidere senza sapere e percorrere i passi avvelenati; tutto è così, camminare per la strada scelta o salire su una macchina il cui conducente ci invita dal suo sedile tenendo la portiera aperta, volare in aereo o rispondere al telefono, uscire per cena o restare in albergo guardando distrattamente dalla finestra alla ghigliottina, compiere gli anni e crescere e continuare a compierne per essere arruolato, fare il gesto di dare un bacio che scatena altri baci che ci faranno fermare e di cui renderemo conto, chiedere o accettare un lavoro e stare a vedere come il temporale si prepara senza metterci al riparo, bere una birra e guardare le donne ai loro sgabelli davanti al banco, tutto è così e tutte quelle cose possono portare coltelli o vetri rotti, la malattia e il malessere e la paura, le baionette e la depressione e il pentimento, l'albero spezzato e nella gola una spina; e la caccia alla corda, lo scivolone del barbiere; i tacchi messi da parte e le mani grandi che stringono le tempie, le mie povere tempie, la sigaretta accesa e la nuca bagnata e girata, le gonne stropicciate e il reggiseno piccolo e il petto infine nudo, una donna vestita che adesso sembra dormire e un bambino che sogna ignaro del suo ereditato combattimento aereo. Domani nella battaglia pensa a me, quando io ero mortale; e cada la tua lancia».

Domani nella battaglia pensa a me

Javier Marias- Einaudi

martedì 3 gennaio 2012

Teresa e la morte della micro impresa.

Eccomi finalmente in questo importante contenitore
che sforna notizie di rilievo a tutte l’ore,
come opinionista mi sento fortunata,
di poter dire la mia senza esser controllata.
Mi chiamo Teresa e della Bibolotty sono un’invenzione,
ma vivo di vita mia, e mia è anche qualsiasi intuizione.


Ho quarant’anni e sono stata aimè sposata,
lei mi ha fatta anti proibizionista e femminista sfegatata,
disoccupata, ottima cuoca e troppo spesso innamorata.
Amo certe idee un po’ vecchiotte e la lotta sociale,
come l’equità di cui si fa un gran parlare,
e che vorrei al più presto diventasse reale.

L’anno è però iniziato per alcuni molto male,
per le famiglie che hanno organizzato ad esempio un funerale,
perché il padre/marito/figlio non voleva i suoi dipendenti licenziare.
Perché questo è l’argomento del giorno,
nomi e storie di resistenza imprenditoriale
che la stampa solo oggi si appresta a raccontare.

Ma dov’era la stampa quando tutto è iniziato?
Dov’era la pubblica opinione quando il primo fattaccio è stato denunciato?
Conosco imprenditori che dal duemilacinque urlano e scrivono ai giornali,
che da anni denunciano delle banche gli orrori,
che parlano di prestiti rifiutati e di tassi d’interessi da usurai,
che chiedono al governo e alla nazione che li tolgano dai guai.

Solo oggi che l’economia è immobile e forse è deceduta,
i tiggì e gli opinionisti si riempiono la bocca di “micro impresa andata perduta”.
Ma i giornalisti non sanno che le micro imprese non han bisogno di parole
ma di Manager illuminati che pagati dallo Stato li vadano ad aiutare.
La gente non sa che è la burocrazia e i cambi di governo
ad aver reso un’amministrazione di fatto semplice un vero inferno.

Un imprenditore che sta per fallire ed entra in liquidazione,
non trova nemmeno il denaro per definire la sua posizione.
Perché anche chiudere costa caro,
e l’imprenditore non troverà mai nessuno che gli presti quel denaro.
Lo stato dovrebbe adesso proporre una sanatoria
sia per le tasse evase per necessità che per chi voglia chiudere in gloria.

Lasciamo stare gli amici licenziati, le feste comandate in azienda e le speranze perdute,
non parliamo di che fine potranno fare
dopo che anche la casa, unica proprietà, hanno dovuto ipotecare.
Non è questo di cui si deve parlare,
ma di una soluzione e di un aiuto reale per chi entra oggi in liquidazione,
e di cosa fare per impedire, che ancora in molti si lascino cadere da un balcone.

Non vorrei mai morire per denaro ma solo per amore,
ma so cosa si prova a firmare per necessità un assegno che non ha valore,
so cosa vuol dire entrare in banca dove tutti ti guardan con sospetto,
sapere che forse, domani, i tuoi figli saranno dei senza tetto.
Ma qui vincono le lobby più accreditate,
e i nomi e le storie di questi uomini qualunque, saranno presto dimenticate.