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sabato 29 giugno 2013

Il Clown

Lì in montagna ci andavo tutte le estati costretta dagli esami di riparazione e da mio padre, che non vedevo quasi mai.
Mi annoiavo nonostante le passeggiate, i miei sedici anni e il grande gruppo di amici che ritrovavo, cresciuti ogni anno un po’, al bar sotto il portico sulla piazza, l’unica. Mi annoiavo nonostante tra noi ragazze ci si scambiasse fidanzati, esperienze e ripetizioni di greco, nonostante avessi il permesso di restare fuori fino a mezzanotte, nonostante il cinema parrocchiale e le feste in piazza.
Mi annoiavano le gite ad alta quota e le lunghe passeggiate in piano. Il gelato, ogni sera di un gusto diverso e il baretto fuori porta, dove un ragazzone biondo, gentile solo per  provarci, offriva boccali di birra a tutte.
Così passavo molte ore in solitaria su un’altalena nascosta tra gli alberi, un vecchio e solido copertone messo lì non so quando né da chi, e che mi cullava per ore. Ci andavo dopo il pranzo generoso cucinato dalle mani esperte e creative di mio padre, quando tutto era silenzio e ogni cosa riposava, anche le campane della chiesa, l’unica, che dominava la Piazza. Andavo lì col mio diario e una radiolina per guardare il cielo muoversi sopra di me come un fondale teatrale malfermo, per sentire la resina sotto le dita e per piangere. Piangevo ciò che non sapevo, forse l’adolescenza, il corpo stretto in una mutazione iniziata da troppi anni e che ancora non finiva né sarebbe mai terminata. Piangevo un lieto fine che mi sembrava già irreale.
Piangevo un rimpianto mai provato ma che vedevo nello sguardo degli adulti, la premonizione di una vita che sarebbe stata un gran bordello, piangevo tutte le morti che avrei pianto.
Singhiozzavo per un po’ lasciando che l’aria asciugasse le mie guance ancora troppo piene, gli occhi sorpresi, spalancati sul mondo delle ambiguità, su quel “parlar dietro”, che origliavo dagli adulti seduti al grande tavolo dell’albergo, e mi faceva vergognare per loro e un po’ per me, per ciò che sarei diventata anch’io, forse.

Ho sempre trovato la bugia un atto creativo, il pettegolezzo un’aberrazione. Ma ho imparato troppo tardi a non fidarmi di chi mi sussurrava segreti altrui all’orecchio, la logica non è mai stata il mio forte, la mia è stata troppo a lungo una visione soggettiva dell’esistenza, un misurare l’altro col mio stesso cuore, così come il passo, cui cerco sempre di star dietro, che sia di un bambino o di un vecchio.
Le mie bugie sono diventate storie. Una volta compreso che la tridimensionalità è anche mentale, una volta vista l’altra faccia della medaglia e dei miei errori, ho cercato di scovare nei personaggi l’orrore e la meschinità di cui tutti siamo fatti.
Eppure continua a sorprendermi il giro di parole che non arriva mai al punto. Frasi esatte che poi, magari a dieci anni da lì, scopro che volevano dire ben altro –peccato- penso –non poter registrare in diretta la propria vita e riascoltare le parole poi negate, fatti, interi episodi, che ognuno ricorda in modo diverso: Ti ho picchiata soltanto una volta, quella volta che ero ubriaco.
No, è successo per anni. Mi hai picchiata ogni giorno della tua esistenza.
Ognuno prende di sé la versione migliore. Perdiamo tempo a rimuovere le nostre nefandezze additando di continuo quelle degli altri.

Mi ritrovo a pensarci per giorni interi alla perfidia di certi, e ogni volta mi domando se anch’io so essere così crudele. Mi rispondo che sì, nessuno è perfetto e io per prima, che sto qui a giudicare.
Ma un segreto è un segreto. Sicuro come la morte che puoi raccontarlo soltanto a te stessa.
Per questo mi svelo mentendo. Perciò creo corpi e li seziono, abomini spaventosi che possano sorprendermi con la propria umanità più intima.
C’è sempre una ragione per fare del male. In chiunque è nascosta la motivazione più comprensibile, che sia ignoranza o una vita in galera, un paio di genitori violenti, o una malformazione che ci ha reso storpi.
Eppure la mancanza di franchezza continua a disturbarmi. Le vie traverse che troppo spesso prendiamo per non dire: non mi piaci, non ne ho voglia, non mi va, sono perdite di tempo. Ambiguità oscene che nulla hanno a che fare con una bugia divertente, con una festa a sorpresa che mi ha tenuta sveglia tutta la notte impedendomi di arrivare in tempo a un appuntamento. Oppure l’incontro con un clown, nel fitto di un bosco di montagna, un ventenne riccio e bruno dagli occhi ancora truccati dalla performance, e che nel piccolo circo faceva anche l’attrezzista. Un incontro (vero o presunto che importanza ha?) e che quel giorno m’impedì di arrivare a casa per cena, di chiamare papà e di mentirgli, di muovere un passo da quell’altalena e dal clown che mi teneva stretta, intrappolata tra baci profondi e “ti amo” sinceri, assurdi ma veri, impossibili ma fin troppo reali.
Nessuno ci ha mai creduto a quell’amore iniziato a sole due ore dall’obbligatorio addio, a quel tizio così bello da sembrare una ragazza che, baciandomi nel buio del portone, si dichiarò mio per l’eternità.

Eppure queste sono le sole bugie che varrebbe la pena dire e ricordare. Non il pettegolezzo sulla presunta malattia di qualcuno che nemmeno conosco. Non le scuse che nascondono paure nemmeno tanto vere, un secondo fine grande e chiaro come la luna, una luna che è un sipario teatrale basculante nel buio, che guardo ogni notte cullata da una fresca serata estiva e dall’altalena, fissata a una quercia secolare.

domenica 23 giugno 2013

Panico

Forse, il panico è un’aggressione emotiva e irrazionale di una parte di sé, una parte dormiente e oscura, sulle altre. Oppure è la felicità che si ribella quando noi la rendiamo infelice, costringendola a una vita non nostra. Non so nemmeno quali origini abbia, il panico, né quale sia l’avvenimento, immagine, odore o suono, che lo risveglia.
Di lui, maschile e singolare, conosco forma e colore, voce e passo.
È arrivato un giorno prendendomi alle spalle, con violenza. Come un innamorato molesto mi lascia ancora senza fiato, a volte, sempre meno. Forse è stata la mia reazione indifferente ad aver placato i suoi bollenti spiriti, forse la propensione ad arrendermi a ciò che non posso vincere, o l’attitudine spirituale all’accettazione del dolore come pagamento per il male inflitto (chissà quando a chi o perché). Forse è stato il mio desiderio di accoglierlo e capirlo, anziché combatterlo, a renderlo sempre più tollerabile.
Il Panico è un film dell’orrore di cui ognuno costruisce la trama. Un Thriller mozzafiato che si arricchisce ogni volta di uno o più particolari. Il mio panico è una pellicola tagliata in più punti e di cui non vedo mai il finale.
Il mio horror inizia in ascensore con titoli di testa appena sfocati e un suono disturbato, una stazione radio che perde d’improvviso la frequenza. La luce è sempre pallida, lampadine a basso consumo appena accese, neon che frigge zanzare e falene e che sa tanto di obitorio.
Il pavimento -casa, strada, vicolo o piazza- si muove nonostante me. È un terremoto psichico in cui, senza più punti d’appoggio, barcollo verso una direzione incerta. La casa diventa estranea e così la strada –sempre quella sotto casa- una prova di coraggio piena zeppa di tranelli.
Il semaforo, ad esempio, lampeggia un giallo per pedoni che sa di tradimento, che nasconde l’intenzione di diventare rosso proprio quando mi trovo a metà tragitto. No, non lo ammetto, è ovvio, nascondo anche a me stessa la fobia pazzesca che mi tiene in ostaggio e prendo tempo, mi metto alla ricerca del cellulare che proprio non serve, delle chiavi, che ho appena riposto nella tasca esterna, della scusa più giusta per costringermi ad aspettare e passare con il verde fisso. Il vicolo, che conosco come le mie tasche, pare non avere fine e volersi gettare nell’oscurità, e quei pochi passi, la distanza tra il portone e la panetteria che normalmente percorro in un fiato, diventa un oceano di angoscia. Il panico è terrore infantile che suda freddo.
Il panico non si può raccontare, se sono ancora viva non posso dichiarare di essermi appena vista morta.
La piazza, assolata o imbrunita da un tardo pomeriggio pieno di gente, diventa crudele. La piazza di sempre, a due passi da casa e che di notte guarda la luna, si contrae e si espande. Per effetto di un grandangolo mentale diventa nemica, e anche il bar, quello solito, assume un aspetto spettrale. Il tempo perde battiti (e così il cuore), e già lo vedo espandersi per diventare oblio di morte.
Non ho corso, ma mi sento in affanno.
Il mio panico dai colori spenti brilla, nell’oscurità o in piena luce, di rosso sangue: l’auto m’investirà, il vicolo m’ingoierà, la piazza mi soffocherà. Nel bar, dove vado ogni mattina, qualcuno mi accoltellerà. Il gatto, nella mia mente ormai una tigre, mi sbranerà. Allora immagino ambulanze e il mio corpo disteso, la mia bara e gli amici attorno che piangono.
Il mio panico ha rumori ovattati o fortissimi. Dura manciate di secondi che sembrano anni. Nel bar decido di usare il rallenty e molte comparse. C’è gente che conosco, sì, ma sembra che proprio tutti mi guardino. Nel bar, anche la solita battuta suona volgare e rozza.
Pago. Nonostante abbia toccato il portafogli già diverse volte, penso di averlo perso. No, è qui, eccolo finalmente. Conto il resto, ma stavolta con angoscia.
Mi defilo stando un po’ curva e rasentando finché posso la parete, guardo il vuoto che ho davanti e che si fa più desolante. Rimbombano troppo i miei passi nel vicolo stretto. Lì, in quell’angolo oscuro accanto alla siepe, un nemico è in agguato.
Anche le chiavi di casa –toccate un istante prima- si nascondono in borsa e tra le mie stesse mani.
In ascensore riprendo a respirare. Chiusa la porta mi sento di nuovo al sicuro. Mi lascio scivolare sul pavimento: non ho più forze. Mi domando se la prossima volta saprò riconoscerlo.

mercoledì 19 giugno 2013

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venerdì 14 giugno 2013

Miserabili 2.0


Oggi è il mio compleanno e ieri è uscito il mio primo romanzo. La mia felicità, dunque, dovrebbe e potrebbe essere completa, ma così non è, e a meno che non mi capiti un grosso colpo di fortuna, alla quale però non credo e che comunque, sin qui, non mi ha mai regalato niente, la mia situazione non potrà cambiare.
Comunque, Big Giove è entrato nei gemelli della terza decade soltanto due giorni fa e allora, poiché non ho niente da perdere, scrivo questa lettera aperta affinché le Banche la finiscano con questa persecuzione.

Sono fallita nel 2007.
Non vi starò a raccontare il perché e il come, non ho memoria per le date, e poi la mia storia l’ho già trasfigurata e distillata nella vita di un altro, nell’esistenza di un personaggio diverso da me e che mi auguro sarà in grado, al più presto, di raccontarsi attraverso le pagine di un romanzo.
Non posso dirvi che cosa è successo a Elena in quegli anni. Nemmeno sono capace di riassumere in poche righe quali e quante siano state le ingenuità e gli errori che hanno trasformato il più bello dei sogni nel più spaventoso degli incubi. Non ho voglia neppure di riassumere in tre parole la quantità di ore perse nelle sale d’aspetto delle varie e inutili associazioni di categoria, che non sono state in grado nemmeno di indicarmi la strada per uscire dal paradosso nel quale la mia esistenza era stata gettata. Non vale la pena puntare il dito contro la sordità della politica, o raccontare per filo e per segno di come Comune, Regione e Provincia, non siano stati in grado, e non abbiano voluto, nonostante avessi trovato un importante finanziatore, affidarmi una sede scalcagnata da rimettere a posto e a disposizione della comunità. Inutile rivangare il passato andando a ripescare la mia “Lettera di resistenza imprenditoriale” che nel 2006 mi fece arrivare alla segreteria di Bertinotti, allora Presidente della Camera, e che si risolse in un nulla di fatto. La pena di svegliarsi a poco più di trent’anni con l’incubo del protesto, del distacco della luce e dei brutti musi (giustificati) di chi mi lavorava accanto, è qualcosa che ho già delegato a Paolo Moretti, il mio protagonista, affinché questa brutta storia si allontanasse da me prendendo un’altra forma e un altro finale.

Sono fallita, e anziché limitare la mia responsabilità alla srl, ho voluto pagare gli amici che avevano lavorato per me, vendendo l’attico in centro che mia madre mi aveva regalato. Conclusa la vendita, avrei potuto –la legge me lo consentiva- pagare solo i debiti legati ai fidi sulla casa e con il rimanente comprarmi un’altra proprietà, sempre in centro, per ricominciare una nuova vita. Invece, per onestà, e poiché credo sia fondamentale pagare in vita i propri creditori, ho fatto fuori tutto il capitale saldando ognuno almeno per la metà del debito: onesti saldo e stralcio.
Così, in un mattino di Luglio mi recai all’Eur per firmare tre assegni dell’ammontare di circa quattrocentomila euro (la cifra non è esatta e forse anche maggiore) al distinto Manager in cravatta il quale poi, mi consegnò una quietanza.
Ero felice. Avevo eliminato l’ipotesi di avere ancora una volta qualsiasi rapporto con un Istituto di credito. D’altra parte anche le banche sono aziende, non Istituti di carità.

Così sono rinata a nuova vita. Il lavoro in Luiss, la scrittura, un nuovo amore, una nuova via da percorrere.
Ma un mattino di ottobre di due anni fa, quando di nuovo ero senza occupazione, vedo arrivare nella nebbia e sotto una pioggia sottile, due ufficiali giudiziari con una cartolina azzurra tra le mani.
E chi se la ricordava più quella maledetta fideiussione.
L’avevo firmata appena entrata nella mia microazienda alla fine del 1999. L’avevamo firmata in tre, perfettamente consapevoli e così ottimisti da non pensarci nemmeno più. Poi, passati alcuni anni, non ci ho pensato più perché così presa dal parare i colpi giornalieri, troppi e sempre più gravi, gli avvisi dell’istituto di Credito mi sembravano l’ultimo dei problemi. Rimandavo, come tutti rimandiamo di fronte alla Segretaria cui pagare la tredicesima e il fornitore della carta per le stampanti. Ma questi sono meccanismi che soltanto chi ha un’impresa può conoscere, capire e giustificare.
Ho fatto opposizione al decreto ingiuntivo. L’ho fatta perché mi sono ingenuamente domandata come mai, quel giorno, il ligio Manager non mi avesse fatto presente anche di quel vecchio debituccio dimenticato. Avrebbe potuto dirmi, poiché sapeva che l’azienda stava fallendo, di saldare anche quella cifra, tra l’altro irrisoria in confronto agli assegni appena firmati, un saldo e stralcio di diecimila euro e la mia vita ora filerebbe liscia.
Invece no.
Il debito ha continuato ad accumulare interessi.
Quando ho cercato una mediazione, proponendo loro un pagamento rateale minimo mi hanno proposto, ovviamente, un piano di rientro impossibile. O una finanziaria e un saldo e stralcio altissimo oppure niente. Oppure si procede. Si procede a cosa?
A parte i cerchietti che porto alle orecchie e un piccolo anello, ho venduto ogni altro bene, per pagare l’avvocato, s’intende, perché almeno cinquecento euro a udienza glieli devi dare. I mobili anche, antichi e di famiglia, li ho svenduti al prezzo di niente perché non potevo permettermi un magazzino e perché in casa del mio compagno non avrebbero trovato posto.
Mi rimangono i libri, e basta.

Nemmeno i miserabili di Victor Hugo, Signore e Signori, nemmeno quando c’era la galera per debiti, si procedeva verso chi aveva onestamente dato fondo a ogni bene per pagare i propri insoluti.
O forse succede perché per me il denaro non ha mai avuto una grande importanza, perché per me il denaro è niente anzi, è il peggio.
Ora vi chiederete il perché di questo post così scandalosamente personale.
Perché sono incazzata nera, e non sono la sola a vivere una situazione di “pignoramento mobiliare” del nulla. Perché vorrei che questo post, questa confessione amara e questa ulteriore pubblica umiliazione, andasse in giro come emblema della situazione di tanti.
Perché tra qualche giorno i due ufficiali giudiziari si ripresenteranno in una casa che non è mia, rischiando di far crollare anche la sola certezza che mi rimane: quella di potermi svegliare con serenità e a mente sgombra per scrivere delle storie. Perché questo incubo, che porterà comunque a un nulla di fatto, mi toglie il sonno e la voglia di andare avanti, di affermarmi, magari, e di poterli saldare, finalmente, e in monete da un euro.
Ma le Banche italiane sono sorde e cieche.
Diversamente dagli istituti di credito di altre nazioni non si domandano mai come aiutare qualcuno a pagare il proprio debito: non ci aiutano a crescere, ma a fallire. Ma su questo ci ho scritto una storia di duecento pagine, e tanto basta.
Scrivo e pubblico questo post perché l’Unicredit, dopo il mio Tweet di stamattina, è venuto già due volte sul BLOG per leggere di cosa si trattava: si tratta che o mi mettete in galera o non vi posso saldare.

Scrivo questo post perché capiti nelle mani di qualche politico di buona volontà, che assieme ad altri e in nome degli aiuti dati dallo Stato (ossia da noi) alle Banche, decidano di proporre un disegno di legge che blocchi o che congeli, non dico cartolarizzi, i debiti di chi come me è un imprenditore fallito e non ha né una prima né una seconda casa e neppure un conto corrente bancario. Domando che almeno per le aziende fallite si abbia un po’ di riguardo, che gli istituti di Debito la finiscano di cercare di cavare sangue dalle rape. Le ragioni sono infinite, a partire dalle spese giudiziarie che per ogni causa come la mia, per ogni impugnazione fatta per prendere tempo e cercare soldi, corrispondono una marea di quattrini e di tempo buttati.
Scrivo questo post perché pretendo che la mia felicità sia completa.
Ma siamo dei Miserabili 2.0.
E adesso venite a pignorare il niente che mi rimane. Io non cerco pietà né prestiti, voglio la giustizia che mi spetta, voglio lo stesso trattamento di chi si permette fidi milionari e di chi, passando sottobanco del cash, riceve i prestiti che vuole e senza garanzie. Ho già pagato. Lasciatemi vivere.

(Postilla: Oggi, lunedì 17 giugno alle 11:00 circa ho ricevuto un'altra visita dall'Unicredit. Lo so che è follia parlarsi da qui, ma poiché vi ho incuriosito rilancio la mia offerta di un rientro minimo (e miserabile) mensile, che mi sollevi dall'essere debitrice e dal mettere in difficoltà chi mi ospita. Contattatemi su bibolotty@gmail.com. ne trarremo vantaggio entrambi. Siate ragionevoli per una volta. E siate umani).

martedì 11 giugno 2013

Come una bambola

Foto: Marc McAndrews

«Non ricordo nemmeno più quale fosse stata la miccia che quel giorno aveva innescato la lite. Forse una goccia minuscola, la famosa ultima parola... » e prese il cellulare che teneva appoggiato al tavolino per lanciarlo nella borsa, in un gesto di paziente rassegnazione molto simile alla sua espressione, «...o forse era stata una minaccia. Un’altra ancora.
Però ricordo che la mia vita era ricominciata proprio pochi istanti dopo, era stata la meraviglia di ritrovare il mio braccio immerso in una lama di luce e in un pulviscolo di creature dell’aria, a risvegliarmi dal torpore in cui vivevo da sei anni». Nadia alzò lo sguardo e allargò la bocca in un sorriso che rivolse al finestrino e al paesaggio piatto e incolore che gli scorreva dietro. Strinse gli occhi un istante e sorrise ancora, stavolta verso il basso, alle punte dei suoi stivali rossi da cow girl, mimando un’espressione ironica e divertita «Polvere! È soltanto polvere, cretina!, Mi avrebbe risposto lui se avesse potuto parlare», poi mi guardò per bene cercando in me una reazione.
Dopo un paio di digressioni sul mio taglio di capelli, e sulla camicetta bianca che lei aveva “uguale uguale”, la mia compagna di viaggio riprese a raccontare.
«Nella luce che riempiva la sala da pranzo, mi prese una strana voglia di ballare. Sì, una voglia un po’ pazza... » e mi agguantò il ginocchio per salire e scendere sulla mia coscia un paio di volte, quasi fossi stata lì presente e potessi richiamare alla memoria quel ricordo, o  sapessi bene di cosa parlava. Un gesto che diceva: siamo un po’ tutte uguali, cantiamo felici per casa facendo pulizie mentre vorremmo essere da un’altra parte. «Comunque» riprese seria «dopo due passi di samba, ripassai le posizioni base della danza, e che forse ricordavo anche male, per fermarmi in seconda, usando la credenza come sbarra. Poi decisi di fare tutto ciò che facevo abitualmente, proprio come se lui dovesse tornare alle tredici e quaranta, puntuale, mai prima né in ritardo».
Immaginai la mia interlocutrice spazzare il pavimento usando la scopa come microfono, mimare il mood della popstar in questione infilandoci dentro strofe sbagliate. La infilai in un piccolo appartamento assolato e pieno d’inutili soprammobili e in una vestaglia verde pistacchio, i capelli mossi intrappolati in una pinza massiccia e in faccia uno stralunato buonumore.

«Sì, dovevo rifare il letto e mettere a posto casa. Volevo che fosse tutto in ordine: Perché non stai qui a prendere aria!, mi avrebbe urlato in faccia se solo fosse stato presente in quell’istante, mentre perdevo tempo cambiando stazione radio».
Nadia s’infilò il pollice nella bocca grande e rimase qualche istante a guardare lontano, oltre il sedile di fronte e i corpi degli altri passeggeri, superando le dieci carrozze che ci speravano dalla motrice e ancora più in là, fino a sei anni prima e al Pub, «Una sera che assieme a Tizi e Monia giravo per le vie del centro fatta di birra e piena di cattivi propositi. Tutto è successo tra birra e paroline sussurrate all’orecchio. Poi c’è stato tanto Pop romantico, tanto pane, amore e fantasia, una fantasia che a lui proprio non mancava. C’era stato tanto Ferradini che mi cantava a ogni mio “no non mi va”. Perché lui non ci voleva proprio credere ai miei “mi fai male”. A ogni minaccia di separazione corrispondeva l’umiliazione: vai! Vattene cretina! e m’indicava la porta, sorridendo, con la faccia di chi sta per essere liberato da una costrizione mostruosa e opprimente».
Nadia cercava le parole nel grigio assonnato della campagna Piemontese, stringendo lo sguardo miope verso un altrove ancora più scuro del cielo, provava a tirare fuori spiegazioni plausibili e più o meno sincere «Vai! Imbecille! Mi urlava tra una pausa e l’altra, quando gli ripetevo che bastava così, e che se mi avesse lasciata un attimo in pace domani avrei fatto di più e meglio, che non ce la facevo, e che avevo bisogno di fare due passi. Di chiudere la bocca, di serrare le gambe. Di camminare da sola.
Ma guarda che da quella porta non rientri più eh!
Sì, non rientrare mai più in casa... » disse, e fissò i suoi occhi pieni di speranza e sgomento nei miei «ogni volta che ci pensavo a non tornare più, provavo un senso di libertà infinita e di gioia soffocante».
Ma era andata anche oltre Nadia, era arrivata anche a scendere un paio di rampe di scale. Era stata capace persino di alzare la voce –se non c’era nessuno, se sapeva che a quell’ora il palazzo era deserto.

«Come facevo ogni giorno, anche quel mattino abbassai le tapparelle e accesi un incenso. Uscita dalla camera da letto mi assicurai che fosse tutto perfettamente in ordine.
Anche se in ginocchio ci finivo lo stesso, lì in bagno, a pulire il cesso con la lingua ci dovevo stare almeno una volta alla settimana», e rivolse lo sguardo lucido e arrossato verso l’alto, verso il cielo plumbeo e decisamente sordo alle sue preghiere.
L’incubo iniziava al venerdì sera, quando lui si faceva tre doppio malto di seguito e la costringeva a fare video da caricare su youporn, «Amava esibire il suo cazzo come il più prezioso dei trofei cui aspirare», concluse con un’espressione di vergogna infantile coperta da un lembo d’ironia.
«Perché io ti ho scelta per come sei fatta!, Cretina!, Mi urlava dalla doccia o dalla cucina, in un momento qualunque della giornata e senza che nessuno gli avesse domandato niente.
Perché io ti ho capata nel mucchio per quell’attrezzatura che ti porti addosso... non per il cervelletto che tieni».  E cambiando espressione, Nadia tirò fuori dal portafogli alcune foto sbiadite. Il giorno della sua laurea in Medicina. Doveva essersele passate tra le dita talmente tanto da consumarle.
Immaginai appartenessero alla sua vita perfetta quelle foto, a quando lui era ancora gentile e le cingeva con attenzione, come fosse stata una bambola di porcellana.
«Ero una bambola e basta. Una bambola gonfiabile e nient’altro. Una roba dove c’infili frustrazioni e astio e poi ti senti meglio. Solo che non paghi! E lo stesso avrebbe fatto quella mattina, senza domandarmelo, mentre badavo al sugo e apparecchiavo la tavola. Incominciava e finiva che gli prendeva la fregola improvvisa, e mi usava, per poi lasciarmi al buio senza una parola, come se tirarsi su la lampo dei pantaloni fosse la sua unica priorità e la sola cosa da fare. Perché a volte non basta, gli dicevo io con dolcezza, quelle volte che fingeva comprensione e affetto. E allora andava a puttane! Andava a puttane e mi svegliava in piena notte facendosene una davanti a me, per sfregio, per cattiveria. Per niente.
I suoi regali erano biancheria volgare e sex toy. Le vacanze solo in Club esclusivi per scambisti e villaggi per nudisti con festini quotidiani». Nadia si passò una mano sulla fronte come presa da un’improvvisa stanchezza.
«Non mi ha domandato mai se ci volevo andare» concluse in un fiato solo «ma forse gli avrei risposto di sì... ».

Nadia si era vista diversa, come nemmeno sapeva più, come nemmeno era più  in grado d’immaginare. Medico, forse, o insegnante di danza per bambine minuscole dalle minuscole gambette. Sarebbe rimasta a casa, forse, magari avrebbe fatto dei figli.
«Perché dobbiamo diventare una coppia come tante?, mi diceva se avevo un ritardo, se gli manifestavo la mia voglia. Poi mi strattonava fino alla stanza, quella dei “giochi”, piena di cavalletti, cinghie, fruste, crocifissi a dimensione umana e dove si divertiva a legarmi per mostrarmi a chiunque volesse spendere un po’ di soldi in coca e che capitava da noi a qualunque ora del giorno e della notte».
Nadia bevve un lungo sorso d’acqua e poi riprese «Le volanti le aspettai al portone. Avevo copia delle prime tre denunce e delle perizie che mi ero fatta fare al Pronto Soccorso: otto. Me l’aveva detto Monia, aveva insistito: vacci, magari un domani ti servono o magari no».
Era successo all’alba, dopo l’ennesima marchetta che lui le aveva imposto, dopo che il mezzo maiale che l’aveva voluta sculacciare fino all’alba se n’era andato. Il marito era ubriaco perso, rilassato. Lo aveva preso alle spalle e legato con il nastro da pacchi, poi gli aveva infilato in bocca due paia dei propri slip e l’aveva lasciato lì a piangere e pisciarsi addosso.
Gli avrebbe tagliato volentieri la gola, mi disse infine carezzando la borsa firmata e ripescandoci da dentro il cellulare.

L’accompagnai aiutandola con i bagagli. Si chiamava Nadia la mia compagna di viaggio, ma questo l’ho già detto. E questa è la sua storia.

lunedì 3 giugno 2013

Un ragazzo biondo

Una moglie, Diletta, una madre e una figlia “quadrata”, era stata anche una studentessa modello, Diletta, e ora uno di quei medici dediti soltanto al lavoro e alla famiglia. Pronto Soccorso secondo i turni, e poi sala operatoria. Una vita tra i bisturi.

«Tu sei per caso su twitter?» l’assistente la guardò sorpreso e lei diede un colpo di tosse. Sorrise in quel modo vago, come quando era a cena con amici e fingeva di ascoltare quando invece rifletteva sulle operazioni che l’aspettavano il giorno dopo.
«Mettigli i punti» ordinò «dodici» aggiunse all’indirizzo del ragazzo in camice, un giovane medico che arrossiva qualunque cosa lei gli domandasse. Poi si diresse verso il piccolo lavabo lasciando che il suo sguardo scuro tornasse, a intervalli regolari, proprio sul ragazzo biondo che, coraggioso e capelluto come un giovane leone, si lasciava mettere i punti senza emettere nemmeno un fiato.
Slacciandosi il camice pensò che una mascella così l’avrebbe riconosciuta anche tra la folla. Anche l’angolo del labbro, il destro, naturalmente piegato all’insù, così vicino a quel neo tanto perfetto da sembrare finto. Anche le mani, grandi e robuste, ricoperte di peluria fitta e bionda che sapeva sicuramente di sabbia.
Sfilato un guanto si voltò di nuovo, ma stavolta intercettò lo sguardo divertito del ragazzo biondo.
No, no, no, pensò Diletta scuotendo leggermente la testa in un evidente stato di disagio.
Non poteva essere, no, non poteva riconoscerla, no, ma era certa che fosse proprio lui. Non aveva nessun dubbio.
Il caso non esiste, si ripeteva assieme a una lunga serie di altre banalità lasciando scivolare lo sguardo riflessivo ovunque fuorché lì sul lettino, per paura che quel sospetto sottile diventasse una realtà solida e imbarazzante. Di tanto in tanto, mentre si lavava con cura le mani, con gli occhi si azzardava a salire fino alla sua mano, alle nocche abbronzate dal sole, seccate un po’ dalla salsedine, arrivava al dorso e poi viaggiava con calma tra i solchi e i dossi più scuri fino al polso largo e ricoperto di peluria bionda, che per lei, sapeva di vento e di mare.
«Lascialo a me» disse in un respiro affannato al giovane assistente che subito si fece da parte.
«Ne mancano due... », si affrettò a dirle il giovane medico arrossendo di nuovo.
«Fai pure pausa, vai di là», gli ordinò senza guardarlo, ritornando a indossare con risolutezza camice, mascherina e guanti.
Non restava che affrontarlo.

I neon e gli alimentatori di corrente friggevano nel silenzio. Lei si fingeva intenta nel suo lavoro di medico, mentre lui non le toglieva lo sguardo di dosso spostandolo dalle labbra piccole e carnose agli occhi, scuri e dal taglio orientale, dal collo lungo alle linee dei seni abbondanti, e di nuovo su, dove scorreva orizzontalmente la fronte liscia e poi giù, carezzando col pensiero un orecchio e poi l’altro, e quei pendagli, che ricordava bene di aver visto nelle foto: l’unico pezzo estraneo alla sua pelle.
Era lei non c’era dubbio.
Non l’aveva cercata, né le era stato dietro... dietro a cosa, poi: a un nickname del cazzo! E riprese a guardarla ricominciando daccapo, di nuovo partì a ispezionare la fronte della donna per finire tra i suoi seni ampi e sicuramente caldi.
Era stato un caso, pensò il ragazzo mentre la donna terminava il proprio lavoro bardata da chirurgo, così diversa in quello sguardo serio, nella divisa di ordinanza, tra due ingressi che non facevano che aprirsi e chiudersi come le porte di un vecchio Saloon.
Che poi il suo nickname era anche carino, nulla di eclatante, non come quello che usava lui, un nome e una sola intenzione: farsi qualunque donna dai quaranta in su gli fosse capitata sotto tweet.  Almeno quello era il suo motto da trentenne niente affatto incline alle relazioni fisse, ma preso al laccio dalla biondina del primo banco e ormai prossimo all’altare.
Anche dopo avrebbe continuato. Se lo ripeteva anche lì, mentre ripassava quei tratti mascherati e li ricollocava nella location originale, una camera matrimoniale ordinata ed elegante, piena di specchi, che lui esplorava appena arrivato in ufficio, nel suo studio di avvocato nato “figlio di papà”, un quinto piano assolato in via Virgilio con tanto di assistente e segretaria.
Non avrebbe mai rinunciato a quell’attesa: la donna sposata, meglio ancora con figli è una pietra dura da scavare, ma sicuramente la scopata migliore da conquistare. Ti da tutto e subito, diceva e scriveva spesso, impazzisce dal piacere dopo quattro anni di fedeltà forzata, e ti saluta con un bacio pieno di promesse.
Perché il ragazzo biondo lavorava su più fronti e su più social. Le sceglieva con cura e sapeva aspettare. Le guardava capitolare, lentamente, sapeva e domandava solo il giusto.
E quella che stava terminando la sua medicazione era stata per lui un incontro speciale, pensò soffermandosi di nuovo sugli orecchini, due semplici gocce di rubino imprigionate in una sottilissima gabbia di fili di oro bianco.

«Allora?» disse Diletta guardandolo con occhi accesi, «Ti fa molto male?», e con la mano guantata di lattice gli sfiorò appena la ferita sotto il ginocchio della gamba sinistra che, muscolosa abbronzata e bionda, giaceva tra i lembi macchiati di sangue del pantalone leggero. Alla smorfia di dolore del ragazzo si levò la mascherina e tornò al lavello.
Aveva recuperato, nemmeno sapeva dove, il proprio ritmo ospedaliero. Dandogli le spalle, la donna gli fece le raccomandazioni di rito: i medicinali, il controllo dei punti, evitare bagni di mare.
In lei non c’era più alcuna traccia di quel sospetto. L’aveva rimosso.
Nella smorfia di dolore del ragazzo, tra le labbra carnose e quella testa giovane piena di riccioli ribelli, Diletta aveva rivisto qualcuno. Non suo marito, no. Si chiamava Carlo. Era stato un incidente stupido, una gomma bucata su una provinciale semideserta a farli incontrare. Quella era stata la sua unica storia di solo sesso. La sua unica avventura extraconiugale, ma perfetta come linee dei loro corpi che si stagliavano davanti a un tramonto salentino, tra gli aghi di pino e la spiaggia deserta su sacchi a pelo che sapevano di sale e sabbia. Si salutarono il giorno dopo davanti al gommista, in un bar pieno di mosche, piccolo e buio, che odorava di vino rosso e olio amaro.

Nel frattempo il ragazzo biondo provava a mettere giù la gamba appena medicata.
«Fai piano» disse la donna rimettendosi di spalle dopo averlo guardato soltanto per un breve istante.
Se nessuno dei due avesse fatto altre allusioni a Twitter, il ragazzo biondo non avrebbe insistito in quello sguardo. Ma la donna non aveva pensato agli orecchini. A quelle due gocce di rubino così particolari e che lei stessa aveva disegnato. Non pensava nemmeno ai primi piani di se stessa che gli aveva inviato, quelli nei quali simulava qualcosa di abbastanza ambiguo tenendo una banana tra le labbra. Erano sempre particolari, certo, la solita visione parziale da autoscatto, ma chissà perché o l’orecchio destro o quello sinistro c’entravano sempre nell’inquadratura.
Per il terrore che qualcuno potesse un giorno entrare in contatto con lei e andare oltre il suo nickname per ricattarla, non inquadrava mai il proprio corpo e il viso per intero. Per maggior sicurezza copriva anche i tatuaggi, nel suo caso due: un minuscolo cuore trafitto sulla nuca e le iniziali dei suoi figli sul polpaccio destro.
No, a quelle due gocce di rubino non ci aveva pensato neppure un istante.

«Grazie Dottoressa... » le disse il ragazzo biondo che, saltellando sulla gamba sana, s’infilava la giacca leggera.
«Belli quegli orecchini» aggiunse in un sorriso luminoso e pieno di sottintesi.

Diletta non rispose, soltanto, gli fece cenno di non dimenticare la ricetta dei medicinali.