Pagine

sabato 30 giugno 2012

Cinecittà chiude per sempre.


Ho fatto un sogno: che il nuovo Cda RAI, nato sotto la paternità del governo dei loden, decideva, per una questione di “rigore e trasparenza”, di bandire nuovi concorsi per autori, attori, voci, orchestra, registi, costumisti, scenografi, compositori, Maestri.
Un sogno, sì, perché appena messi gli occhi sul Mac, leggo che gli studi di Cinecittà saranno trasformati in un "resort", una spa, un centro di bellezza insomma.
Come se ne avessimo bisogno.
Ho subito rivolto lo sguardo a Fellini, che di quegli studi aveva fatto la location dei suoi sogni e a Visconti, che lì girò “Bellissima” assieme alla Magnani.
Nessuno ha mai mosso un dito perché questo nostro pezzo di storia diventasse una pubblica Accademia delle arti come in Italia, di fatto, non ce n'è.
Una pubblica Accademia per dare lavoro e un po’ più di dignità agli “artisti”, sempre più difficili da reperire soppiantati dai chi, Visconti, non l’ha nemmeno mai sentito nominare.
Perché non c’è nessuna norma in questo ambito. E solo qui, in Italia.
Le scuole di teatro, musica, cinema, trucco e scrittura, nascono dal nulla e sono promosse a scuole della Provincia o della Regione o del Comune, senza che ci sia nessun concorso di affidamento che preveda programmi, personale docente e non docente in gara, e una graduatoria soggetta a verifiche.
Per le sedi, idem. Per anni sedi pubbliche sono state assegnate in comodato d’uso a emeriti sconosciuti e senza che l’ente assegnatario proponesse un Bando pubblico e possibilmente chiaro.
Tutto passava e passa sotto silenzio e magari in periodo pre o post elettorale.
E la professione, muore. 
Non ci meraviglia più niente, lo so, però certe cose preferisco metterle in fila prima e guardarle, ogni giorno, prima che mi lobotomizzino completamente, che così impegnata a sopravvivere dimentichi di averlo detto, prima che qualcuno metta in faccia un’espressione di stupore di fronte a questo sfacelo.



Sono almeno trent’anni che gli “artisti” sopravvivono nel proprio pezzente mondo a partita iva e che il lavoro lo ottengono se stanno nel giro di Opzetek, Verdone, Giordana, Fandango, insomma, nel giro giusto.
Il sindacato ha lottato per anni per ottenere un albo, così come nel resto d’Europa.
Tornata da un lungo periodo di studi all’accademia d’arte teatrale di Amsterdam, sognavo che anche noi potessimo godere di un vero ufficio di collocamento, di sussidi di disoccupazione e di vantaggi fiscali. Stare in un “albo” avrebbe significato punteggio per i concorsi, paghe rigorosamente allineate e calcolate in base alle repliche fatte, ai contributi versati eccetera.
Ma è dalla fine degli anni settanta che l’Italia ha perso completamente la faccia, fottendosene anche di mantenere una parvenza di “rigore e trasparenza”, perciò ci rassegnammo a lasciare il mondo come stava e a vagare per provini in attesa di un ruolo secondario o come generico.

Anche all’epoca del perbenismo DC le raccomandazioni fioccavano, ma contro l’assoluta capacità, la cultura, e il curriculum, anche la raccomandazione poteva poco.
Si aveva rispetto per l’arte e lo spettatore era educato a ben altro talento.
Al sabato sera le luci brillavano per lo Show, ma a illuminare gli studi c’erano professionisti, non uno ma tanti, tutti, dagli ospiti ai cantanti, dai comici, Ave Ninchi, Paolo Panelli e Bice Valori, Aldo Fabrizi, alle soubrette come Loretta Goggi, le gemelle Kessler, Raffaella Carrà.
E l’orchestra, relegata oggi sul fondo della scena era fino a pochi anni fa al centro del palco, composta da nomi di musicisti già impressi nella nostra storia.
Alle orchestre RAI, tre, si accedeva solo per concorso. Oggi è tutto a chiamata.
Allora che senso ha che un ragazzo vada a studiare in Conservatorio?

Ognuno portava con sé un curriculum ricco di studi, palcoscenici, concorsi, un grosso carico di gratitudine figlia delle privazioni subite dalla guerra che li rendeva più umili, umani.
Sono cresciuta, e forse per questo sono così disperatamente offesa, con una tivù dei ragazzi fatta da chi ha trainato la cultura del palcoscenico italiano e di tanta avanguardia: Mariano Rigillo, Paolo e Lucia Poli, Lina Wertmuller e quel capolavoro di Gianburrasca, Renato Rashel.
Nei telefilm c’erano Tino Buazzelli, Luigi Vannucchi, Paola Pitagora, Tino Carraro, Giulio Brogi, Walter Maestosi, Regina Bianchi, Carla Gravina, Ugo Pagliai, Massimo Girotti, Rossella Falk, Paolo Ferrari,  boicottato dal pubblico per anni e solo per aver girato la pubblicità di un detersivo.
La serie dei grandi classici erano tutti girati negli Studi, scritti da sceneggiatori e autori di spicco, gente che di quel mestiere campava e a buon diritto, e che si portava dietro scenografi, macchinisti, datori luci, tecnici del suono che erano mostri di esperienza.
Manco a dire che erano flop, il risultato era un grandissimo successo di pubblico, alfabetizzazione e teatri di prosa pieni in cui tutti accorrevano a vedere la star della tivù.
Oggi, chiunque s’improvvisa attore, sceneggiatore, giornalista, autore e musicista, e il prodotto di qualità non c’è più.
Viene tutto dato in outsourcing a grandi SpA e pagato fior di quattrini, tutto denaro pubblico.
I conduttori, i cui testi sono sicuramente redatti da schiere di “schiavetti” pagati in nero, sono strapagati, così come gli ospiti. E così si taglia sul resto, si risparmia su tutto, sacrificando per l’ingordigia di uno la sopravvivenza di tanti altri.
E quindi, gli studi di Cinecittà chiudono perché nessuno ha idea di come utilizzarli.
Stanotte ho mente di fare un altro sogno, che certa gente, i nuovi fari della coscienza civile, decidano di sacrificare un po’ dei proprio cachet, per dare spazio a nuovi talenti scelti da una commissione di addetti ai lavori e tramite pubblico concorso.

Che certi grandi "esperti" mettano assieme le nostre grandi realtà didattiche, Silvio d'Amico, CSC, Conservatori e e Accademie, per costruire un grande Campus per le arti con annessi gli alloggi- che qui mancano-.
Ma naturalmente è chiedere troppo. 
Difficile che i nostri politici facciano qualcosa per il bene della comunità. 
E se non sanno ciò di cui parlo -così come immagino- compresi i giornalisti (Il fatto quotidiano), che continuano a parlare di inutile e dispendiosa difesa della "TRADIZIONE", andassero a fare un giro negli USA dove migliaia di nostri studenti lasciano spesse mazzette di dollari per studiare.
Solo gli imbecilli scambiano l'antico per vecchio e il lusso per pacchianeria. 




giovedì 28 giugno 2012

Teresa: la piazza la pizza e il tizio che l’attizza. Italia Germania 2012



Son qui nel mio studiolo a far meditazione,
difficile è però trovar la buona l’ispirazione.
Se è la nazionale poi che si lancia sul pallone
e non posso io alienarmi da tanta confusione,
non posso che lanciare un sonoro sospirone
e rassegnarmi anch’io a finirci nel pallone.

Allor ora m’acchitto per scendere in piazzetta:
è lì che stanno tutti con in mano birra e pizza.
C’è anche Pino il tizio con la barba che m’attizza
così io mi metto lì, sul muretto a fare la civetta.
Solo un paio di bottoni del vestito io mi slaccio
se la nazionale vince, io mi metto in ginocchio.















Lui tiene la birra in mano e commenta colorito,
è proprio vero che, quel Pino è un saporito fico.
Ma mai come Balotelli, che ha fatto impallidire
l’italiano medio e il suo razzismo mai da dire.
Allora son felice, e al primo goal gli do una botta
Pino mi guarda e dice «sei pronta per la lotta?».

Felice corro a prendere una birra e dei taralli,
saltello per la piazza e tintinno di sonagli,
serate io e lui a ballar musica anni ottanta,
che vado pure in chiesa, e tocco acqua santa.
Lui intanto è tutto preso, gesticola, borbotta,
io benedico quella proverbiale e forte botta.

Chissà se è così anche quando fa l’amore,
oppure è così fico sol davanti ad un pallone?
Mio dio che grosso dubbio ora m’è venuto:
che di questo tizio io mi dimentichi anche il nome
che guardandolo stupisca e mi ricordi del pallone
che mandò un giorno in pezzi la vita e il mio cuore.

Allora mi defilo e lascio Pino tra gli amici,
saltello oltre la Piazza, e salto sulla bici.
Preferisco avere il vento ad arricciarmi i capelli
Che il suo speciale spot su Cesare Prandelli.
Vado sino al mare, mi distendo sulla rena
Alzo gli occhi e... «Uh... non c’è la luna piena».



martedì 26 giugno 2012

Il JAZZ l'ho conosciuto che ero ragazzina



Il Jazz l’ho incontrato appena arrivata a Roma.
In realtà molto tempo prima che mi ci trasferissi per studiare alla Silvio d’Amico.
Ci capitai per caso, una sera di fine Marzo dei primissimi anni ottanta.
Ero alla mia prima fuga da casa. La prima, sì, perché a causa di certa letteratura pensavo che fuori dal mio regno dorato ci fosse molto di più. Ma questa, è un’altra storia.
Quella volta, comunque, avevo compito di greco e il primo rapido per Roma mi parve perfetto. Nell’ansia di essere acciuffata e condotta come Pinocchio davanti a un giudice dalla faccia di scimmia, arrivai a Termini che era pomeriggio.
Sapevo già dove andare, nella mia irrazionalità adolescenziale calcolavo quasi sempre gli effetti delle mie azioni. Il “quasi” a quell’età è d’obbligo. Però, prima di arrivare alla meta, via dei Coronari, volli respirare ancora quella strana aria di libertà che sapeva di pericolo e primavera.
Più tardi, con in mano e un pacchetto di Marlboro rosse, mi ritrovai a Largo de Fiorentini.
Lì mi raggiunse un suono dolcissimo su per le scale di un locale buio e che sapeva di muffa.

Per entrare mi feci largo tra la gente, così tanta che nessuno mi domandò tessera, biglietto o documento, così tanta che raggiungere il palco fu faticosissimo, così tanta che non mi resi nemmeno conto di essere nel cuore del jazz.
Un tizio suonava il sax, teneva sempre gli occhi al cielo, sì, perché credo che il soffitto scuro di pietra viva nemmeno lo vedeva quello lì, impegnato com’era a farsi suggerire gli accordi da dio in persona.
Stava lì, in piedi, dritto come un fuso e così concentrato da sembrare sofferente, così pieno di energia e luminoso, da essere tutt’uno con il suo sassofono. E da quella melodia dolcissima e triste, quel tipo dalla faccia tonda e lo sguardo in estasi, tirava fuori degli urli che parevano più che preghiere, imprecazioni e anatemi, e io che ancora non conoscevo la vita mi domandai cosa fosse quel dolore di tenebra.
Quello che suonava il sax, lo conobbi anni dopo, era Massimo Urbani, sassofonista geniale, morto in un torrido giorno di fine giugno del 1993 (il 23).

Assieme a lui, sul palco, e lì attorno, armati di ance, chitarre, contrabbassi, plettri, piatti, bacchette e spartiti c’era il jazz italiano, quello nascente e quello che di lì a poco sarebbe scomparso, e di là, al bar, un vecchio che sembrava un ragazzo mal messo, magro, americano e un bel po’ brillo.
Era Chet. Ma lo scoprii solo più tardi quando raccontai a mia zia dell’avventura notturna, e del tizio senza denti che suonava la tromba.
Quando mi trasferii a Roma, al Music Inn ci tornai immediatamente e l’atmosfera era la stessa.
Picchi Pignatelli, bionda, elegantissima e dallo sguardo profondamente triste, accoglieva tutti con saluti e baci, il barman, un tizio baffuto che sembrava uscito da un film di Billy Wilder, da mezzanotte in poi mi offriva da bere e la musica, la musica non finiva mai.

Quella sera, al sax, sul palco, c’era Massimo Urbani con suo fratello Maurizio, c’erano Roberto Gatto, Fabrizio Sferra, i fratelli Deidda, i fratelli Corvini, c’erano Giorgio e Dario Rosciglione, Gegè Munari, Riccardo Biseo, Stefano di Battista, Enzo Pietropaoli, Cinzia Tedesco, Maria Pia De Vito, Massimo Nunzi, Pirone, i fratelli Iodice, Cinzia Gizzi, Tony Formichella, Fabio Mariani, Maurizio Giammarco, Umberto Fiorentino, Massimo Moriconi,... e scusate se ne ho dimenticati tantissimi perché l’elenco è lungo, ma il flauto fatato di Nicola Stilo non lo scordo di certo.
C’era il grande Tony Scott, con il suo pantalone aderentissimo che nascondeva bizzarri segreti, con il suo “hey Man” sempre a fior di labbra.
Pepito Pignatelli già non c’era più. C’era però il grande manifesto del suo amico, Gato Barbieri. Ricordo il giovane Pieranunzi. Marcello Rosa con il suo ensemble di tromboni, la sua eleganza e il suo proverbiale humour inglese.
Al Korvin non l’ho conosciuto, preziosissima prima tromba dell’orchestra RAI di Roma -all’epoca ce n’erano tante- e che riempiva il locale, fino all’alba, di lunedì, con la sua ”Jazz Studio Big Band”.
C’era Renato Nicolini.

In quegli anni, alternavo il noioso obbligo scolastico di andare a teatro con la gioia dei locali notturni.
L’Alexander Platz e il Music Inn erano le mie mete preferite, lì la musica si faceva carne e il gioco era tangibile.
Ma l’atmosfera era la stessa anche al Saint Louis, al Caffè Latino, l’Alpheus, da Annina allo Stardust, in vicolo de Renzi, a Trastevere, dove ho sentito l’allora giovanissimo e talentuoso Rosario Giuliani improvvisare fino all’alba di un giorno feriale.

La vita mi ha condotta poi a lavorarci dentro la musica, e poi ad allontanarmene di nuovo. Ma questa, è ancora un’altra storia.
Quest’anno, mi sono ritrovata a scendere le scale di quegli stessi locali e di altri, e mi sono subito fatta una domanda: dov’è finito il jazz? O meglio, dove siamo finiti tutti?
Troppo occupati a sopravvivere?
I “nomi” in cartellone non sono diversi da prima, ma non ci siamo più noi, il pubblico.
Non c’è più pelle, sorriso, abbraccio.
È come se fosse finito il gusto dell’ascolto, del girare per la città di locale in locale soltanto per sentire chi c’è.
E di musicisti giovani ce ne sono, eccome, e di scuole pare ne nascano ogni giorno. Ma forse sono in giro alla ricerca del successo facile, vittime di un marketing che li lega a melismi già noti e di successo. Facili prede degli incompetenti che stanno in tivvù e dei “talenti” di Xfactor che durano al massimo un anno prima di ricoverarsi con i polipi alle corde vocali.


O sono i gestori dei locali che non funzionano.
Localari improvvisati che pensano che Chet Beker sia una marca di birra e Coltrane una nuova griff e che si illudono che con la musica si facciano i soldi.
Una desolazione.
Case del Jazz create dal Comune a suon di milioni e che ospitano DJ set e feste private anziché essere, come promesso dall’allora Sindaco Veltroni, polo d’attrazione e di studio per giovani musicisti.
Villa Celimontana che dopo diciannove anni di attività si vede negare l’aiuto del Comune - ringraziamo Alemanno-.

Se il Jazz esiste, perché non c’è più chi lo ascolta? Perché non è lì?
Farlo da casa, davanti al monitor, non è la stessa cosa.
No, non è uguale starsene sulla sedia con le cuffie nelle orecchie, anziché uscire assieme a lei/lui e mano nella mano attraversare la notte, come prima, come tanto tempo fa, ritmando all’unisono “Giant Steps”.
Non è uguale, no, e da quello che vedo in giro, temo non lo sarà mai più.
E forse è così anche per il Rock dove nessuno più è in grado di far spostare folle oceaniche.
Non vorrei essere spettatrice del tramonto dell’arte.
Un’arte che a farla a pezzi e a riprodurla in serie per venderla, non ha più dato spazio a veri talenti.
Un’arte soffocata dalla ricerca del denaro e del successo, della perfezione e della tendenza.
Un’arte che non ha più nulla da dire, rassegnata ai giornali e ai giornalisti di gossip.

Forse, dovremmo alzarci da qui e fare qualcosa.

Dedicato a Massimo Urbani, e a un mondo pieno di individualità degne di nota.










martedì 19 giugno 2012

TERESA e il giorno della MERITOCRAZIA


Ipocrise dello stivale


Questo è un paese ipocrita e vittimista,
spara sol se vuole e si ricicla ecologista,
all’improvviso poi è sì tenace garantista
all’occorrenza può esser ligio europeista
se va di moda è, anticomunista, golpista
induista, buddhista e grande perbenista.













Perbenista sì mi pare termine più giusto
Se alfin si tratta di/ denigrar con gusto,
una tizia che si scopre è raccomandata
ma che per ciò che fa, è anche abilitata,
sol perché un tempo ha fatto dei filmini
non pare sia ora il caso di fare i ruffiani.

Cos’è una novità la raccomandazione?
C’è altro modo di/ avere un’assunzione,
forse per merito o per un’acclamazione,
per ascensione, auto elezione, affezione,
o per pubblico concorso di abilitazione?
Perché meraviglia la raccomandazione?

Se proprio ieri l’altro ci siamo scervellati
per capir dove e con chi, esser ora affiliati.
Per annusare bene i nuovi eletti coronati
tutti i tizi che devono esser corteggiati
e per ottenere un “ciao” dai privilegiati
siam anche pronti a essere sbeffeggiati.

Tal cugino Alfio che sta in salumeria
ha avuto la spintina dalla sua prozia
che era la sorella di un che in polizia
rischiava di far controlli sulla pulizia
e sempre in nome della democrazia
di far chiudere per mesi la salumeria.

Giovanna che lavora presso il comune
ha fatto la scalata grazie alle sfortune
ebbe un incidente ed è uscita immune
investita da un tizio assessore comunale.
Un danno così enorme si deve sì pagare
con il denaro cash o con un’assunzione.

Si va per via amicale o per sano ricatto
per scambio di voto o per fatti di letto
per reciproco favore o per antico affetto
per stima reale o questione di rispetto.
Il mio non è cinismo ma sano realismo
non è qualunquismo ma pragmatismo.

Non posso che piegarmi alla disonestà
se questa è la sola schifosissima realtà.
Non c’è alcun che valuti le mie capacità
ma solo e solamente quell’amicizia là.
Vorrei fosse altrimenti ma ciò è utopia!
È solamente un sogno la meritocrazia.

Lasciate ora stare la Signora Topazio
mi par abbia già pagato l’antico dazio.
Facciamoci magari un esame sincero
se per non pagare l’IVA lavoriamo in nero
e che se capitasse a noi, d’oro l’occasione
la prenderemmo sì la raccomandazione.

venerdì 8 giugno 2012

Diario di Lola, diciannovesimo giorno, tenebre


Foto di Eugene Recuenco


La notte svela sospiri e lamenti, nasconde storie e ricordi che si animano solo davanti agli occhi di chi è disposto a guardarli. Le parole non dette o sussurrate appena, ripetute nel caldo dell’astio covato da tempo con le voci dell’odio che si risveglia per guardare il rimpianto e gli spazi vuoti dell’amore inutilmente atteso, s’intrecciano, per arrivare sin qui, in questa stanza, tra me e la finestra aperta sul buio.
Nessun altro sa. Nessun altro ascolta.
La madia sottile accanto al camino fa finta di niente, e anche il divano
sembra occuparsi solo di me e del mio peso assente, e così le due poltrone dai braccioli di legno che guardano altrove. Solo le tende non ignorano il coro funereo, e si levano a mezz’aria restandoci un po’, animate come da gigantesche mani o corpi invisibili, precipitando poi di nuovo in basso, danzando la notte in un ritmo mortale.
La notte cancella i contorni delle cose e i viventi, all’imbrunire, si confondono con le sagome opache di chi vaga e cerca di risposte, di chi ancora tenta di aprire la porta di casa, di chi pensa di essersi addormentato un attimo e basta, e che l’incubo presto finirà.
C’è chi sul marciapiede sta fermo da anni e ancora si domanda dov’è la sua ombra, sua madre o l’uomo cui stringeva la mano solo un attimo prima che si facesse buio. Ossa consumate da tempo aspettano di svegliarsi e di trovare l’umano sorriso lasciato appena qualche ora fa. Facce cerulee e corpi mutilati, pelle bruciata e abiti a brandelli, cercano una direzione e una guida.
In questo spazio sospeso abitano tutti quelli che si sono perduti, che non hanno capito, che si sono distratti esalando l’ultimo respiro, che hanno lasciato fuggire via il corpo eterico per attaccarsi alle voci di chi li piangeva. Questi che ascolto sono i lamenti di chi è rimasto nel piano di mezzo, su un’autostrada che finisce in una vallata sospesa nel nulla, sul baratro dell’infinito e dell’eterno ritorno.
E posso vederle ovunque le loro facce scarnificate, i volti trasfigurati dal dolore inespresso, dalla vecchiaia respinta, dalla sorpresa di una morte che si è cercato di rimuovere a tutti i costi, allontanata di continuo, minimizzata e ridotta, donata ad altri e con generosità sorprendente, nascosta dietro la caparbia e cieca affermazione quotidiana del proprio io, soffocata sotto un delirio d’onnipotenza, puerile, dietro l’accumulo di oggetti, lauree e riconoscimenti, feste, bagliori e chiasso.
Ma è andata così, ci ha presi alle spalle, ci ha sorpresi in un attimo lasciandoci in bilico.
Per Marta, invece, la storia è andata diversamente.

Quella che mi ha aperto la porta non era la donna dal volto scavato e dalle mani artritiche che avevo intravisto giorni fa apparire e scomparire dietro le tende.
Marta è una quarantenne bruna, alta e magra. Tremendamente magra per essere stata una cantante lirica.
Le ho domandato subito come mai lei riuscisse ad aprire la porta e a versarsi da bere: basta non pensarci, mi ha risposto soppesando con cura le parole, pronunciandole con una dizione un po’ teatrale, come se quelle fossero le uniche giuste da usare.
Ci ho provato subito anch’io, e tutto quel ridere ai miei goffi tentavi di agguantare oggetti mi hanno umanizzata almeno un po’.
Lei è rimasta qui perché suo figlio è tenuto in ostaggio.
Il suo rapitore, è Vince Lalama.
Non potevo crederci, e ancora stento a farmene una ragione, ma questo mondo parallelo non è niente affatto dissimile dal nostro. Anche qui ci sono ladri e malfattori, imbroglioni, gente losca, solo che qui si vendono e comprano anime come ai mercati generali, sottraggono sogni e virtù a chi è già da questa parte ma non riesce a fuggire. Loro hanno un’arma, conoscono bene le debolezze dei vivi, e le usano per tenere sotto scacco i già morti.
È durante la notte, è nel buio, che la morte tasta con la sua mano adunca la nostra vita, è attraverso il nostro respiro profondo che l’oblio entra in noi e ci sottrae forza e vitalità.
Lalama ha su di me mire oscure che Marta non mi ha potuto dire per non protrarre più a lungo l’agonia di suo figlio che Vince, grazie alle sue conoscenze tra qui e l’altrove, cercherà di tenere in ostaggio il più possibile.
Marta conobbe Vince in una notte di luna piena. Cantava a Sanremo, al Casinò, e lui con la sua due cavalli bianca, che nelle notte sembrava una scia luminosa tra le stelle, la convinse per un viaggio improvvisato a Montecarlo.
Erano gli anni ottanta e Vince aveva all’incirca l’età che dimostra oggi, quando il suo viso non è trasfigurato dalla morte. Ha fatto una pausa sorvolando leziosamente sulla sua di età, alzandosi dal divano in una piroetta che è finita nei tre passi che le servivano per arrivare al mobile bar. Si è versata qualcosa di forte e ha levato il bicchiere al mio indirizzo.
Tornata al divano ha passato la sua mano, forte e gelida di morte, sulla mia.
Conosceva bene mio padre, e Olimpia. 
Quella in cui incontrò Vince, era una di quelle notti in cui sentiva che tutto era possibile e che dagli anni a venire avrebbe ottenuto il meglio. Le strade erano tutte spianate lì davanti ai suoi occhi chiari, larghe e lunghe, dritte, autostrade deserte e assolate che avrebbe percorso senza trovare ostacoli. Era una di quelle notti d’inizio estate in cui avrebbe voluto correre a perdifiato verso il mare, guardare sorgere il sole e fissare il punto d’arrivo dei suoi sogni proprio lì, sulla linea dell’orizzonte.
E lì al Casinò di Montecarlo sembrarono realizzarsi tutti e di colpo i suoi sogni, e il ventitré vinse, vinse tanto, vince troppo, vinse quanto mai nessuno avrebbe sognato. Accadde anche che lei e Vince fecero l’amore e stavolta, per glissare sula faccenda, è andata alla finestra per spalancarla.
Solo due mesi più tardi, Marta aveva già preparato i documenti per ipotecare la casa.
Visti i prestiti che chiedeva in giro, le fughe improvvise verso destinazioni ignote, la voce fuori forma per gli esercizi mancati, le notti insonni a corrugare la fronte lì al tavolo verde, a torturarsi mani e fegato per quell’altro milione perso nel nulla, lasciato al croupier dallo sguardo impassibile, lasciato lì assieme alla vergogna che non si può non provare davanti agli sguardi di compassione, Marta stava compromettendo anche la carriera. Davanti a quel ventitré maledetto, a quel numero bastardo che non voleva più uscire, che si nascondeva, si negava, passando da un tavolo all’altro e che si confondeva, mischiandosi con le carte del Blak Jak o chissà dove, lo sguardo vivace di Marta era invecchiato di colpo. Perso il vigore di un diaframma ormai stanco di pianto, persa la passione per il canto, che vuole impeto e domanda forza.
Lalama, da amante focoso si era trasformato in breve in aguzzino pressante e poco loquace, e gli interessi sui prestiti, aumentavano di giorno in giorno in modo esponenziale.
Lui rideva alle sue richieste di proroga, l’affrontava in pubblico, la aspettava fuori dal teatro, si metteva in prima fila per torturarla con la sua presenza minacciosa.
Un giorno però, lo sorprese accanto alla sua auto scoperta in attesa di qualcuno, vicino alla nostra villa. Fu un caso che dopo nemmeno un minuto, in quel primo pomeriggio torrido, vide Olimpia raggiungerlo chiamando il suo nome. Seguì l’auto finché non sparì dietro gli alberi della villa comunale.
Erano amanti.
S’informò in giro e scoprì che Lalama riforniva mio padre di pietre preziose provenienti da strani traffici, seppe anche che era stata Olimpia stessa a presentarglielo.
A questo punto, Marta si è versata di nuovo qualcosa di forte.
Poi mi ha guardata a lungo.
Ti vidi assieme a lui una volta, assieme a tuo padre e a Vince, in un bar del centro. Ed è lui, Lola, che abita da sempre i tuoi incubi, lo so.
L’uomo dai calzini verde petrolio che fuma sigarette nel buio lo ricordo da sempre, è da quando sono bambina che nella notte spalanco gli occhi nel buio e sento puzza di fumo. Mi bracca da allora, da quando sono bambina. E forse erano suoi i passi che scandivano la mia veglia forzata sul cuscino, sue le dita macchiate di nicotina che mi sfioravano il viso quando mi pareva che il respiro mi mancasse all’improvviso.
Marta raccontò tutto a mio padre.
Ancora oggi non se lo sa spiegare quel gesto. In realtà ha balbettato qualcosa sulla gelosia, insana di per sé e irrazionale nel suo caso, sulla malattia che colpisce molte donne, soprattutto quelle seducenti, che impazziscono del tutto quando incontrano il tizio sfuggente, quello che non le vuole e che diventa oggetto di un desiderio ossessivo.
Era una storia così assurda da sopravvivere alla sua morte.
Era una storia così folle da finire in tragedia.
Mio padre affrontò Lalama lo minacciò dicendogli che tra lui e il gioielliere rispettato, il braccio della legge non avrebbe esitato un secondo a colpire uno con i suoi precedenti penali e che sarebbe stato logico anche credere nella buona fede del professionista piuttosto che dello strozzino.
Lalama lo colpì alle spalle e gli rubò l’incasso della giornata per far credere a una rapina. Ma quella notte stessa, Marta lo attendeva sotto casa e lo colpì con ventitré pugnalate al petto.
Le sue lacrime erano ghiacciate, come le mie che adesso non so veramente come farò a uscire da qui, da questo mondo senza cielo e senza luce, da questa società parallela regolata da leggi che non conosco.
Poi, Marta cercò di rifarsi una vita. Riprese a cantare e sposò un brav’uomo, un poliziotto, caso strano lo stesso che si era occupato dell’omicidio di Vince.
Quando una sera, suo marito tornò a casa felice di poter finalmente riaprire quel caso e con le nuove prove del dna prendere l’assassino, Marta decise di non aspettare.
Nel raccontarmi di questa beffa del destino, un livido le si andava tatuando tutto attorno al collo lungo e sottile, proprio lì, in quell’istante, davanti a me, come se l’evocazione di quella giornata infausta si manifestasse sotto il mio sguardo sorpreso.
In realtà non trovarono tracce del mio dna, ha detto infine intonando una risata da brivido, E mio marito non ha mai saputo il perché del mio suicidio.
Allora sono rimasta qui con loro, con lui e mio figlio che adesso, in coma da due anni per un incidente d’auto, è ostaggio di Lalama e della sua acrimonia verso l’umanità.
Ecco perché devo stare lontana da lui.
Io, secondo Marta, avrei più di una via d’uscita. Io, ha aggiunto toccandosi la gamba sottile da sotto in su, come per aggiustare un’invisibile calza un po’ scesa, devo soltanto ricordarmi di quel giorno e dell’incidente, cercarmi e ritrovarmi.
Di più non ha saputo dirmi.
In questo istante, Max ha aperto gli occhi e il giorno ha rischiarato le tenebre.
Corro a dargli il buongiorno. Magari può sentirmi.



lunedì 4 giugno 2012

Ballo da sola e vesto vintage.


Non è mio costume parlare di moda, però, quando faccio un giretto in centro e torno a casa con i piedi indolenziti, le mani vuote e una gran nausea, mi saltano i nervi, e quando mi saltano i nervi, metto il mio canale Youtube preferito e ballo da sola.
Ma a volte non basta.

Che brutta visione il prêt-à-porter dei giorni nostri!
Fantasia zero, modelli che puzzano di vecchio e tagli d’abito fatti a occhio. 
E poi basta, non se ne può più di spendere denaro per roba che dura sì e no una stagione. Inoltre, l’abito fa il monaco e vestire con gusto è un’arte complessa visto che, ciò che ci piace, non sempre si coniuga con quello che siamo e soprattutto con ciò che si trova in giro.
Gli abiti che indossiamo dovrebbero rappresentarci, e affinché nulla contrasti tra la nostra persona –colori, struttura fisica e carattere- e come si desidera apparire, è bene armarsi di pazienza e scarpe comode.
Avere un forte senso critico è il punto nodale per possedere un buon guardaroba, perché vestirsi con classe, significa prima di tutto conoscere i difetti da nascondere e i pregi da sottolineare. Avere personal shopper, invece, è una di quelle tendenze idiote inventate dai divi di Hollywood, e che mal si coniuga con l’italico e invidiato estro artistico e con la penuria di denaro in circolazione al momento.
Mi è capitato tante volte di incontrare donne di gran classe vestite con autentiche “pezze” e donne che avevano addosso milioni ma puzzavano di “cafoneria” lontano un chilometro. 
Perché l’eleganza non è che armonia tra ciò che si è e ciò che s’indossa.
La moda, si sa, se seguita pedissequamente porta a risultati che offendono spesso la vista e il paesaggio circostante. L’uso indistinto di jeans a vita bassa è finalmente tramontato, e per fortuna non è nemmeno più così necessario farsi condizionare dalla tendenza che il mercato impone. Il problema, però, è che si fa ogni giorno più difficile reperire abiti originali e di buona fattura. Perché semplicemente non se ne fanno più.
Personalmente trovo le offerte del mercato della moda prêt-à-porter poco soddisfacenti, naturalmente per il mio gusto, e per il mio carattere che sfugge volentieri a tutto quanto sa anche lontanamente di omologazione: scarsa scelta di colori, pessima fattura, a volte modelli perfetti ma solo su donne magrissime e alte. Ci sono sempre meno marchi Made in Italy e, a meno di spendere cifre assurde, vedo proposti in vetrina, e a prezzo maggiorato, gli stessi capi che trovo sulle bancarelle di via Appia, nello storico mercato di via Sannio, sempre nella capitale, o in tutti i mercatini rionali delle nostre città.
Va da sé che io ho risolto il problema alla radice scegliendo il Vintage, e ora che la tendenza di parlare dei mercatini delle pulci da parte delle Vip di turno si è assopita, eccomi qui a tesserne le lodi.
Innanzitutto è necessario fare una distinzione tra “usato” e “Mode Vintage” o “Vintage Fashion”.
Per “usato” s’intende qualsiasi capo sia appartenuto ad altri, e anche lì si trovano ottime soluzioni, il Vintage, invece, si riferisce a oggetti o capi d’abbigliamento che acquistino valore nel tempo, sia per il marchio (introvabile o d’alta moda) sia per la fattura e i materiali usati.
Nel Vintage ci sono pezzi battuti all’asta a cifre da capogiro e Musei che si contendono rarità indossate da attori o personaggi della politica e che, assieme a loro, fanno parte della storia stessa.
Vintage, termine che e deriva dal francese “vendenge” e dal latino “vindēmia”, ha quindi a che vedere con le buone annate dei vini -ecco perché per certi affari ci vuole “naso”- e si tratta di ogni capo che abbia una distanza di almeno vent’anni da noi. Un bel giubbottino con spalline e strass anni ottanta è oggi, a tutti gli effetti, considerato “vintage” da collezione, soprattutto se firmato. 
Ho iniziato ad avere il gusto per il Vintage da adolescente, forse perché amo gli oggetti che mi parlano e su cui le impronte altrui siano ben visibili, perché vengo da una famiglia di collezionisti o perché semplicemente mi piace distinguermi. Ed è da quando sceglievo dal guardaroba di mia madre abiti per carnevale che so quanto sia immenso il pianeta Vintage. Comunque, mi sono specializzata nel genere lavorando in teatro dove spesso, dovevo cercare da me l’abito di scena più giusto.
In quel periodo si andava a Prato dove, in uno dei più grandi mercati di stoffe e abiti usati, amiche costumiste con budget da finanziamento pubblico, e sarte teatrali in cerca di occasioni, trovavano grandi abiti a un costo minimo.
Naturalmente, in questo caso è tutta una questione di occhio.
Trovarsi di fronte a decine di bancarelle sulle quali, ammassati alla rinfusa, migliaia di capi urlano “prendi me”, può anche dare alla testa.
Ma basta non cadere nel panico che dal caos viene fuori il capolavoro.
Camicine di seta, gonne plissettate con cintina coordinata, pantaloni di tweed, giubbotti di pelle, di camoscio, paltò militari, cappelli, abitini “prendisole” anni settanta, copricostume e minigonne, occhieggiano dai capannoni e escono dalle buste in cerca di acquistare nuova dignità e una nuova famiglia.
E oggi più che mai, vittime del mondo globalizzato, sarebbe ora di dire di no al gusto degli altri.
Ovunque si vedono gli stessi abiti, stoffe di dubbio valore, bottoni di plastica, che nel bel mezzo della festa e al centro della pista mentre ci scateniamo in un twist, saltano via perché cuciti male.
E se siamo d'accordo su tutto, è comunque sempre essenziale domandarsi, parafrasando Serge Latouche e prima che la commessa infili il nuovo acquisto nella busta, se ciò che abbiamo scelto ci serve veramente e se sì, quanto durerà.
Ci sono abiti che possono restarmi addosso un’eternità, come una seconda pelle.
Una giacca dell’esercito della salvezza, comprata ad Amsterdam al mercato delle pulci, sul porto, l’ho dovuta gettare via due anni fa perché deceduta per consunzione. Un pantalone nero a “zampa” di crepe de chine e un abito nero a balze di cotone grezzo a firma “Mariselaine”, storico marchio di Via Condotti e sconosciuto a molti, sono stati usati da mia madre per vent’anni (1965-1985) e da me ancor oggi.
Parlo di roba indistruttibile, di classe e tagliata come dio comanda, mai fuori moda e sempre di tendenza. Ma oggi, siamo in grado di trovare capi di questa fattura e a prezzi umani?
Io dico di no, ed è per questo che scelgo le bancarelle.
Inoltre, sappiamo  che anche le grandi firme si servono di manodopera a basso costo e di chissà quali stoffe, per cui credo che la questione “alta qualità” sia un male diffuso anche ai piani alti.
E se in un negozio trovo un pullover al 70% di materiale acrilico a quaranta euro, e in un negozio dell’usato ne posso trovare uno di puro cachemire, e allo stesso prezzo, mi domando perché esitare.
Se in una boutique di medio livello provo un abitino ultima tendenza tagliato standard, zeppo di fili che escono dalle cuciture a cinquanta/sessanta euro, e in un negozietto dell’usato trovo un modello Cloè, tagliato e rifinito come si deve, io non ho dubbi.
Basta tastare le stoffe e scegliere modelli classici e di sartoria e anche se in quel momento ci pare possano non servire, sono sicura che troveranno presto il giusto abbinamento con ciò che già abbiamo.
Consiglio di cuore di usare il denaro con criterio e di fare un giretto al mercato dell’usato prima che in un grande magazzino che puzza lontano un miglio di bassa qualità e di sfruttamento della manodopera.

venerdì 1 giugno 2012

Teresa, il ravvedimento operoso e la plenaria indulgenza


Trecentottantamila treman sì forte per il fisco
e per la letterina che, avverte del gran rischio.
Nonna Esmeralda è corsa subito ai ripari
chiude il conto in banca e parla di rincari.
Lunetta la vicina si giustifica sbraitando:
sol con la preghiera si ha il ravvedimento.

Ma è inutile appellarsi alla carità divina
quella delle tasse è un’onerosa spina.
Siam come le galline, diceva la zia Pina
dobbiam covar uova per la fattorina,
alla testa lor ci puntano una carabina
poco poi importa se ci mangia la faina.

Siamo utili a servirli i laidi padroni
restano impuniti i nostrani ladroni.
Ma io vorrei sapere dov’è che sono i soldi
di tutti i politici, dei gran laidi e manigoldi.
Da quando son piccina io sento parlare
di mani pulite e della santa inquisizione.

Lingotti, e diamanti e miliardi di euro
ladroni e inquisiti dalle pensioni d’oro.
Sono tanti lo so anch’io, ma tanti veramente
Che io proprio non riesco a tenerli a mente
Mi domando soltanto dov’è la refurtiva
che andrebbe a sanare tutta l’evasa iva.















Perché sarò imbecille ma è solo per sapere
se stan facendo indagini sul grosso capitale:
su quel che la Fornero diceva, razionale,
che è sì proprio difficile da recuperare.
I ricchi la lor spesa la fanno oltrefrontiera
e siamo sempre noi a rischiare la galera.

Tutti a guardar parate e tricolori in aria,
e con la fiducia passa pur la finanziaria.
Quando non staremo più col naso in aria
potremo esser anche un can che non abbaia,
a men che non si pensi che partecipazione
sia questa collettiva e virtual condivisione.

Qui ci fotton tutti e non cresceremo mai
non è con le minacce che uscirem dai guai.
Intanto arriva Silvio che con il cor contento
Evita l’udienza con il legittimo impedimento.
Ed i parlamentari, stan tutti in Piazza Duomo
per beccarsi in piena faccia l’illegittimo perdono

Io intanto mi rassegno a pagar conti salati
per tutti i miei errori che credevo già saldati.
Ma sai come si dice: che sol chi ha spalle forti
dovrà pagarli tutti e sino in fondo i suoi torti.
Il fatto è che qui pare che ci sia gran disparità
e che la legge equa non è che sciocca amenità.