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mercoledì 15 ottobre 2014

Siamo seduti dalla parte sbagliata, non dalla parte del torto.

Mi accusano di essere egocentrica ed esibizionista. E non è vero: sono timida. Patologicamente insicura.
E poi sono stanca di certe battute da social network. 
Le parole hanno un peso.
Fossi stata brava a far di conto ora sarei contabile e avrei uno stipendio. Non mi troverei nel mezzo di una vita che si tiene in equilibrio sul nulla.
Finiamola di puntare il dito su chi si fa sentire. L'ego ipertrofico sta male addosso a chi non ce l’ha, non lo sa portare né ha qualcosa da dire.
C'è chi può stare sul palco e chi farebbe meglio a guardare e applaudire. C'è chi può scrivere e chi no. Io non so ancora dove sono, sicuramente son rimasta nel mio ambito, almeno. Non ho fatto grandi percorsi per arrivarci. Ho assecondato il caso, è stato lui che poi mi ha condotto fin qui.
Purtroppo.

Ecco. Un posto dove stare.
La verità è che nessuno sa più quale sia il posto più giusto da occupare. Forse perché posti, giusti o sbagliati, non ce ne sono più.
O forse, perché a furia di citare Brecht (senza nemmeno sapere che è Brecht), ci siamo seduti tutti dalla parte sbagliata, non dalla parte del torto, e alcuni son rimasti senza posto, senza il loro, quello giusto.

Tutta questa impazienza di fare arte. E l’arte è morta.
Tutto questo impegno per “fare il botto”, creare mercati e crescere, e invece occupate gli scaffali delle librerie di roba inutile. Di ideuzze belline, di storie possibili e plausibili, di esordienti che esordiscono e basta, di personaggi che stanno soltanto in copertina, di trame che non tengono mai conto di quanto le vite di noialtri, quaggiù all'inferno, siano piene di contraddizioni svolte impensabili, di colpi di scena e di drammi non annunciati.
Siete seduti dalla parte sbagliata. Anche voi. Anche voi che decidete chi sì e chi no.
Anche chi ha spazio sui giornali e lo impiega inutilmente.
Chi si fregia di titoli che non sa usare. 

Mi accusano di avere una personalità schiacciante. Fossi stata brava in greco, avrei preso lettere classiche e mi sarei impegnata  a vincere concorsi. Avrei fatto dei figli e domani avrei una pensione, o la speranza di una vecchiaia dignitosa. Non starei qui a rincorrere e a fuggire il giudizio di chi mi legge, in cerca di approvazione, in cerca di visibilità, in cerca di personaggi e di Editori del cazzo. 
Se non avessi iniziato a recitare a cinque anni, imparando a memoria le fiabe sonore per metterle in scena a Natale, se non avessi falsificato la firma di mia madre, per entrare a lavorare in teatro ancora minorenne, se non avessi lasciato la scuola, per diplomarmi a fatica e tentare una strada accademica, se non fossi scappata da casa, per vivere esperienze indimenticabili, ora avrei un'esistenza tutta casa, lavoro e tranquillità economica. 
Avrei una prospettiva più rosea. Questo è certo.  

È successo tutto in fretta. Non l’ho deciso io. L’esistenza mi ha scelto mentre ero distratta, ha deciso per me mentre cercavo di capire come battermi contro di essa, se con il corpo o con l’astuzia, mentre provavo a capire se convenisse abbandonarsi al caso o segnare i confini entro cui muovermi. L’esistenza mi ha dato una voce intonata e un corpo agile. Qualcuno mi ha insegnato a parlare e a muovermi.
Poi è arrivato il panico, poi sono arrivati copioni sempre più importanti, parti sempre più difficili, registi più esigenti. Poi le segnalazioni ai premi, i festival, la stima che non puoi deludere, tradire. L’ansia da rendimento, il panico, le critiche, le lodi, il camerino che diventava ostile, la mancanza di salivazione, il cuore che pareva scoppiare.
E non dovrei essere egocentrica.
E dovrei sentirmi in colpa perché occupo più spazio di altri?

Sono anche fuggita alla mia indole. Ci ho provato, lo giuro. Mi sono rifugiata per anni dietro le spalle forti di un uomo. Ai suoi piedi. In silenzio.
Mi sono diminuita, mi sono spogliata dei ricordi e mi sono fatta inutile.
Ma non è servito.
L’indole è come l’araba fenice. La mia è rinata dalle ceneri del fallimento e di un matrimonio dimenticabile.

La vita di alcuni è disperata. La mia è un tentativo. La pubblicazione è solo un mezzo. E ad alcuni basta.
Per una vita così, per un’esistenza fatta di risposte mai ricevute e di un futuro oscuro, un po’ di egocentrismo si può pure perdonare.
Volendo si può fare a cambio: offro la mia vita sensazionale e piena di errori in cambio di una famiglia serena e di un mutuo. Cedo creatività e ambizione in cambio di razionalità e una pensione.
Fossi nata brava a far di conto, oggi sarei felice.





domenica 12 ottobre 2014

La ragazzina dei muffin alla metro Cornelia

Sono in tre, un vano tentativo di barba spunta sul mento e sulle guance di quello più alto, che parla a voce alta e ride nervosamente. Sono ragazzi, vestiti alla stessa maniera, jeans scoloriti a vita bassa e maglietta nera. Chiacchierano del gruppo, della loro cover band, del garage dove suonano che è umido, dei soldi da trovare per pagare l’affitto, dei brani da suonare. Parlano dei cachet troppo bassi, del fatto che spendono più di quanto ricavino ma che alla fine è bello stare assieme, provarci comunque a fare qualcosa di diverso che non sia lavorare in cantiere.
E al lavoro ci vanno tutti e tre. Partono dal paese alle cinque e mezzo del mattino, i soldi sì, poi li lasciano a casa, quello che avanza serve per la sala, per le corde della chitarra, per il microfono.
Parlano in romanesco con un vago accento dell’est, quello ereditato da madre e padre.
Stanno preparando un repertorio anni ottanta, sicuramente i Police e Cure. Il più piccolo, biondo con gli occhi verdi, fa un nutrito elenco di pezzi dei Dire Straits. Avrei voglia di applaudire alla gioia che gli vedo in faccia. Lui è il cantante, mi ci gioco tutto. Quello che non parla mai, invece, è il tastierista alle prime armi.  
Vanno a lezione di musica. Vogliono imparare a leggerla. È un’amica della madre che glielo insegna, una violinista che ora sta a servizio.

Poi arrivi tu e tutto cambia. Cambia la luce, il tempo si ferma e siamo in paradiso. Appena svoltato l’angolo di via Boccea la strada s’illumina, la piazzetta sporca diventa Nirvana. Indossi una minigonna fucsia, anfibi ai piedi, chiodo e bandana. Sei così magra che sembri un maschietto. Con quel caschetto biondo sembri un angelo in missione speciale.
“Ecco la tua bella”, dice il ragazzo taciturno al biondino. E si fa silenzio: l’arrivo di una femmina cambia tutto, la femmina è altro da loro.
Il bacio tra voi è tiepido, la vergogna lo assale, un lieve rossore lo fa voltare, fa mille movimenti strani per non farsi vedere: mi è entrato qualcosa nell’occhio dice. Rifiuta il tuo aiuto, ti sei subito data da fare soccorrendolo con un fazzolettino e lui ti scosta la mano con un “faccio io”, che sa soltanto di fastidio. Vorrei dirti che è tutta una manfrina, di non credere a quella freddezza, ma continuo a mangiare il mio panino tra cartacce e orridi piccioni. Una donna africana si è seduta sulla panchina accanto alla mia, parla da sola.

Poi da una busta tiri fuori qualcosa. Sorridi felice, quei dolci li hai fatti per loro. Sono muffin al cioccolato, dici, porgendone uno a ogni membro della Band.
Non so come sono venuti… e ridi, forse ci ho messo troppo burro… e ridi di nuovo, è la prima volta che li faccio… e ridi ancora armeggiando con la busta evidentemente strapiena di muffin.
I ragazzi sono così, bella mia. Adesso mangiano tutto e poi tireranno fuori qualche battutaccia. Lo fanno per non darti importanza, lo fanno perché sei straordinariamente bella, lo fanno perché sono innamorati di te, della tua gentilezza e della tua grazia, di questo gesto infantile che ripeti di continuo infilandoti il pollice in bocca e reclinando appena la testa. Già non possono fare a meno di te, ti guardano ogni volta che ti volti altrove, imbarazzata dal loro silenzio: nemmeno una lode, nemmeno un grazie.

Sì…, fa il fidanzatino biondo, in effetti “allappano”.
Ridi ancora e scuoti la testa. Forse non avrebbero detto nulla se tu non avessi parlato. Se non ti fossi diminuita da sola, discolpata: per la tua bellezza, per la tua grazia e gentilezza. Che ne sanno loro di dolci, che ne sanno di muffin al cioccolato. Sei tu che pretendi troppo da te stessa non loro, loro ti credono umana e finita, non infinita e dea, sei stata contagiata anche tu l’ansia da prestazione che ci porta a darci senza riserve, quando a quattordici anni ci sembra di averne così tanto di amore di dovercene liberare a tutti i costi, quando crediamo a tutto ciò che ci si dice, perché noi per prime siamo sincere.
Va beh, dice quello alto strappandoti la busta di mano: però questi ce li portiamo in sala!
Non sono poi così male i tuoi muffin. Ma nessun grazie esce dalle loro bocche adolescenti. Lo fanno apposta a fare i duri e si vede. Lo so io che alla tua età soffrivo delle tue stesse incertezze. Ma non posso dirti niente, devi cavartela da sola.

Ti schioccano un bacio sulla guancia e se ne vanno, scendono con passo sicuro le scale della Metro. Tu li guardi sparire nel nulla. Tu li guardi andare via senza perdere il sorriso.