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sabato 26 aprile 2014

Deriva #52 #derivaditwitter: Quando l’offerta supera la domanda

Scrivere sulla bio se, quando, dove e a che ora la “daremo”, ci renderà sicuramente divertenti, spigliate, sicure di noi stesse, in poche parole desiderabili ma #Twitter è diventato un “non luogo” affollato e l’originalità, una chimera. In meno di un mese, il nostro profilo di donne super autonome, coltissime e consapevoli del tesoro che abbiamo tra le gambe, lo avranno già copiato in duecento.
Come gli account delle “Miss”, ormai replicati a iosa: Misscortico, Misstupisco, Missdereno, Missplendida, Misstronza, Misschermisco… Misscontro.
Capisco che il nuovo mezzo di seduzione affascini, che se entri nelle grazie della twitstar e del follouer giusto potrai ottenere rituit golosi e chissà quanti follouer, ma so anche per esperienza, mia e delle altre, quelle che si lamentano il TL lanciando anatemi al Mr Sòla di turno, che l’oggetto del mio desiderio, del tuo, del loro e di tante altre, è sempre uguale a stesso. Che si chiami Valmont, Casanova o Don Giovanni, ti pubblicizzerà come la più intelligente tra le donne ma soltanto finché capirà che, di fatto, così com’è scritto sulla biografia, non gliela darai mai.
Certo ci impiegherà anche sei mesi a farsene una ragione, e non so se lo capirà per caso, per un’illuminazione improvvisa o dopo lunga meditazione, ma un giorno lo leggeremo in TL fare sperticati complimenti a un’altra Miss, gli stessi di cui era prodigo con noi, e rituittare con gioia, le sue perfette banalità messe in bella copia.

In effetti il termine “darla” mi ha sempre dato allergia. Direi che mi fa orrore, anzi, è primo in classifica nel mio elenco del lessico digitale più obbrobrioso, assieme a scopamico, sticazzi, e nano, termine affettuoso riferito ai propri figli. Ma credo che in questo caso, almeno stando alle testimonianze, trattandosi di vero e proprio commercio il verbo calzi a pennello.
Potrei fare un elenco piuttosto lungo di quanti mi hanno promesso contatti per una pubblicazione. Ma seri eh!
Devo farlo?
Posso?


Dai, dai, no, scherzo, calmati… (l’idiota si è sicuramente messo in allarme)… ora respira profondamente, e regolarizza il battito cardiaco: sto scherzando, suvvia, non farò mai il tuo nome. Almeno non adesso.
E non ti offendere, perché sei sicuramente un idiota se fai promesse per iscritto, e lo sei ancor di più se le fai soltanto perché la sconosciuta ha una foto che ti attizza. Però sei fortunato, perché almeno in questo caso hai inviato le tue mendaci parole a una donna adulta che non si è servita della propria capacità seduttiva nemmeno quando faceva teatro, figurarsi farlo oggi, in un ambito, quello dell’editoria, dove per distinguersi dalla massa non basta più nemmeno pubblicare per Einaudi.

Insomma, pare che l’acchiappo 2.0 sia ormai una lotta senza quartiere e che, sempre stando alle testimonianze, non frutta nemmeno granché.
Succede sempre così quando l’offerta supera la domanda.
E mettendo in conto che il 60% dei superuomini presenti su #twitter sono impegnati, e che se anche affermano di tenere in pugno la situazione mettono la coda tra le gambe al primo sospetto della coniuge, che il 10% dei nomi altisonanti non sono imbecilli, e che il restante 30% avrà un bug di sistema da qualche parte, da conquistare rimane ben poco.

Per cui “Keep Calm” e sii te stessa, e quando ti arriva un DM invitante e un retweet autorevole, non contarci troppo, immaginalo come un grosso amo da pesca lanciato nel mare dei pixel, un invito più che generalizzato, lanciato in contemporanea a più profili: culi, tette, selfie provocanti ce ne sono in quantità industriali, personalità degne di nota, sicuramente molte di meno.




venerdì 25 aprile 2014

Vittorio, io me lo ricordo bene

Il piacere di rivederlo fu pari alla delusione di capire che di me e di quei giorni assieme, lui non ricordava niente. È strano come tra tanti ricordi riusciamo a tenerne vivi alcuni e a ucciderne altri. Mi domando anche quale sia il criterio di scelta, se il senso di colpa, l’incuria o la più semplice indifferenza. Quante “me” esistono nel ricordo di qualcuno, e quante invece sono scomparse dalla memoria di un altro? Perché una dimenticanza equivale a un omicidio, e che Vittorio mi avesse uccisa lo capii in quell’istante, alla cassa della libreria affollata di una strada del centro, quando nel cedermi il passo, non mi rivolse che un breve sguardo e un sorriso di circostanza, quello di uno sconosciuto qualunque.

Quando Alex mi propose di andare a Mercadante per il ponte del 25 aprile gli dissi subito di sì. Non mi domandai come ci saremmo arrivati, da liceali e senza patente. Non mi chiesi nemmeno se i miei mi avrebbero dato il permesso. Ma a sedici anni si può tutto. E così mi lanciai verso l’ignoto, un viaggio che sarebbe iniziato il venerdì successivo alle otto e trenta davanti al solito bar, vestita con roba pesante e munita di sacco a pelo.

Vittorio, il fratello grande di Alex, era alla guida della sua cinquecento rossa.
Avevo sognato di pomiciare in quell’auto con lui alcune migliaia di volte, sempre durante le lezioni di Greco, mentre il professor Marvulli, dopo averci garantito un nostalgico sei politico, procedeva nel suo monologo poetico e sicuramente interessante.
Vittorio era bellissimo. Un Mastroianni intinto in Bardem e rifinito con un po’ di Bruce Willis.
Maschio, terribilmente virile e torbido. Scuro, villoso e lievemente profumato di patchouli. Litigioso, sempre in testa al corteo o nel servizio d’ordine, la bandana rossa e le clarks consumate, la borsa di cuoio piena di cicche, filtri, tabacco e fumo. Sempre pronto al confronto dialettico in assemblea, sempre in prima linea nella lotta per i diritti.
Stando agli sguardi delle sue donne, diverse e tutte belle, potei supporre fosse anche un maschio esperto.
In realtà aveva soltanto ventitré anni, ed era un maschio e basta. Di quelli che se ti prendono per mano sai già che non sarà per sempre, ma che ti fanno cedere comunque in un istante, cedere all’illusione, a quella propensione istantanea all’innamoramento, che dura un solo attimo, ma è sempre intensissimo, che bisogna godersi fino in fondo perché diventerà via via sempre più raro fino a essere dimenticato nel nulla. Ucciso, come Vittorio aveva fatto con il mio ricordo.

Anche quel mattino rise, sfiorandomi le labbra come si faceva tra compagni. Come sempre mi spettinò i ricci, e come ogni volta mi domandò di accendergli una sigaretta.
Alex, sul sedile posteriore con me, si divertiva a rollare canne, la tizia che stava con Vittorio cantava lievemente, io guardavo Vittorio, che guardava la strada piena di curve tra la campagna. Una nebbia leggera rendeva tutto surreale, anche il sorriso che Vittorio mi restituì dopo aver intercettato il mio sguardo nello specchietto, e l’espressione severa che fece poi, quando si domandò perché lo stessi fissando.
Ci conoscevamo da anni. Ci vedevamo quasi ogni giorno. A casa sua, in cucina, quando Alex ed io ci prendevamo una pausa dai libri e lui anche. Conoscevo i suoi piedi lunghi e magri, la risata che riempiva di sole anche le giornate più buie. Le sue battute sui professori. Gli slogan che la notte avrebbe scritto sui muri di una città di provincia che gli stava già stretta.
Io e il mio sguardo in estasi ai suoi racconti di guerriglia urbana… roba che a vederlo lì in libreria, più di vent’anni dopo, con ai piedi nuovissime Endless Ceremony non l’avrei nemmeno immaginato.

Comunque, già quel mattino, mi seguì con lo sguardo, in autogrill, mentre sculettavo vistosamente verso i bagni. Lo vidi chiaramente quando mi voltai verso Alex urlandogli di comprarmi birra e sigarette. Perché a sedici anni si può tutto. Anche bere una doppio malto di prima mattina.

Arrivati alla masseria, furono distribuite stanze e mozziconi di candela per la notte. Ci lanciammo sul letto. Io e suo fratello, naturalmente.
Credo di aver finto il miglior finto orgasmo della mia vita. Le camere erano adiacenti, Vittorio avrebbe potuto sentirmi e Alex, credermi. 
Poi corremmo tra i boschi. La primavera prepotente nelle narici e nella testa.
Mi finsi esperta di brace e di arrosto, così da metter Alex e la tizia in cucina, a tagliare insalata e pomodori.
Io e Vittorio restammo per un po’ in silenzio. Un silenzio pastoso e morbido che prelude sempre a qualcosa.
Di tanto in tanto mi passava da fumare. Ci guardavamo e scoppiavamo a ridere. Impacciati, come si può essere da ragazzi.
Il fuoco, il vino e la mia naturale attitudine al rischio, fecero sì che gli passassi la mano sulla nuca, che lo guardassi solo un attimo, e che quell’attimo bastasse a dirgli tutto.
Forse dissi anche un po’ troppo visto che Alex, entrando, fu costretto a interromperci tossendo, nascondendo subito in quella comicità da pagliaccio, più di una punta di dolore.

Cantammo fino all’alba. A quell’epoca una chitarra c’era sempre, e anche una voce lieve come quella della ragazza, che per tutta la sera non aveva fatto che intonarne di nuove senza badare a me a Vittorio che ci sfioravamo con ogni scusa.
Dormimmo come si può non dormire a quell’età, un’insonnia piena di sogni e non di affanni, quella che raggiungono anche i saggi, o chi non ha più niente da perdere.
Il bosco ci accolse ancora a mezzogiorno e risuonò delle nostre risate. Il pomeriggio passò pigro e lento. Alex leggeva fumetti, la ragazza disegnava, io guardavo Vittorio che fingeva di fare un solitario, e che aspettava non lo guardassi più per potermi a sua volta guardare.
A tavola mi passò un biglietto. Le strategie sono sempre le stesse, che sia Valmont o Vittorio G., che si viva settecento, nel post sessantotto o nel 2014.

Quando alle cinque del mattino mi trovai davanti alla stalla mi tremavano le gambe. Non era il freddo ma la consapevolezza di andare incontro a qualcosa di grosso.
Vittorio mi prese alle spalle e posò le sue labbra forti su ogni benedetto centimetro della mia nuca. Il freddo di un aprile battuto da una tramontana del tutto fuori luogo era un lontano ricordo. La sua sapienza di studente in medicina, no.
Fu tutto come doveva essere. Anche la luna piena che ci guardava dalle travi sconnesse della stalla.
Per una sedicenne qualcosa da ricordare a vita, per lui, evidentemente no.


venerdì 11 aprile 2014

Deriva #51 #derivaditwitter: Supplica di una Follower



Oh tu che sei già in vista e sei protagonista,
tu che farai la storia resterai nella memoria,
tu che vai in televisione a dar la tua opinione,
che stampi un libro al mese in politichese,
ascolta la preghiera di chi non ha pretese.

Io ti rituitterò, mai ti contesterò e ti difenderò.
I tuoi nemici stessi io sempre bannerò.
Io non darò un giudizio su quel tuo brutto vizio,
né farò la spia sulla tua lurida mania.
E se non ti ho mai letto, dirò che sei perfetto,
il tuo libro posterò e bene ne dirò.

Per esser rituittata dirò che è una figata,
qualunque cosa sia la storia pubblicata.
Io scrittrice in erba sono ancora molto acerba,
cerco solo un pigmalione per fare un successone.
Una pubblicazione che dia quello scossone,
a questa editoria che non so bene cosa sia.

Aiutami, rituittami, dammi un nome buono.
Un editor sicuro che aggiusti il mio futuro.
Che mi dia la spinta, la sola e necessaria,
perché io non finisca a batter la Salaria.
Ti manderò mie foto, filmati e cose zozze,
e tu darai un’occhiata a ‘sto paio di bozze.

I social sono invero un’opportunità.
Ti danno l’illusione della vera parità.
Tu che mi contatti e io che te la offro,
perché tu non sai quanto io ne soffro.
A essere nessuno in questa società,
dove conta solamente la visibilità.


lunedì 7 aprile 2014

Paradossi


«Mi dica del sogno».
«Quale sogno?»
«Quel sogno».
«Eravamo per strada, una strada di terra e sabbia, argillosa, un dedalo di vicoli attraversato dal vento di scirocco».
«L’uomo, lo aveva già visto?».
«Sì. Talvolta lo incontravo per strada, seduto sui gradini di una bottega, altre volte sulla Piazza, una Piazza assolata che finiva nel mare, con la centro un enorme drago. Una volta mi prese per mano conducendomi al Porto. Proprio sul molo, e mentre io guardavo il sole scomparire all’orizzonte, anche lui scomparve».
«Nel sogno o nella realtà».
«Nel sogno, sempre nel sogno... mi pare».
«Parli, mi dica ancora».
L’uomo le passò un laccio sottile attorno ai polsi.
«La prego, continui».
«Stavolta aveva preso a seguirmi. Lo sentivo dietro di me mentre camminavo a passo svelto per le strade strette e le bancarelle di un mercato rionale».
«Mi racconti cosa vedeva».
«Spezie, cumino, pepe, cannella... odori forti, un caldo aberrante, voci acute... ».
«Era giorno o notte?».
«Il cielo era seppiato, come di sabbia, il sole era un minuscolo disco luminoso e ben visibile, come durante un’eclisse».
L’uomo le passò un’altra corda attorno al collo. Le stava alle spalle.

La penombra da tardo pomeriggio primaverile aveva invaso la stanza. Le piccole foglie di un ficus Benjamin si muovevano alla brezza sfuggita alle persiane cautamente accostate.
L’abito rosso della donna era stato slacciato. Mostrava fianchi stretti e piccoli seni. I piedi, chiusi in alti sandali di cuoio, erano già ambrati dal sole. Il pube folto s’intravedeva, rigonfio, sotto un paio di semplici mutandine bianche e infantili.
«Continui».
«Ci trovavamo in un negozio. Nel camerino di prova di un negozio di abbigliamento. No... sembrava più che altro una sartoria. Dai rumori che sentivo, mi pareva fossimo al centro di una grande metropoli».
«E l’uomo?».
«Lui mi guardava».
«Com’era?».
«Era lui, quello di sempre, l’uomo che sogno ogni notte. Era imbronciato, triste».
«Cosa faceva?»
«Mi guardava».
«Era nuda?».
«Sì».
«Provava vergogna?».
«No».
«In ginocchio».
«Come?».
«Si metta in ginocchio».
La donna rimase immobile.
«Adesso», le ingiunse l’uomo con voce calmissima.
La donna si abbassò lentamente, facendo forza, per non cadere, sulle caviglie legate tra loro dalla corda sottile, e sui polpacci. Si rilassò quando finalmente sentì il tappeto sotto le ginocchia.
«Le ho domandato di guardarmi?».
«No».
La donna rimise gli occhi sul tappeto e prese involontariamente a seguirne le trame.
«Le ho per caso ordinato di distrarsi?».
«No».
La donna fissò un punto preciso del disegno e lì lasciò lo sguardo.
«Mi racconti del camerino della sartoria».
«Era grande, luminoso. La cornice dello specchio verde acqua. Gli abiti, due, erano appesi alle stampelle».
«Di che colore erano gli abiti?».
«Uno rosso e uno bianco. L’uomo mi aiutava a indossare il primo, quello bianco».
«Le stava alla perfezione?».
«Mi stava alla perfezione».
«E poi?».
«Poi cosa?»
«Mi racconti cosa faceva l’uomo. Mi racconti, la prego: la prese per i fianchi e le infilò la lingua tra i denti... tirò fuori una lama sottile e iniziò a passargliela sul collo e poi tra i seni... la voltò con forza per sodomizzarla... le allargò le gambe per penetrarla con forza... la fece inginocchiare e glielo infilò in bocca... tirò fuori dal paltò uno scudiscio e prese a batterla... si abbassò con sguardo supplichevole e iniziò a infilarle la lingua da qualche parte? La prese a schiaffi? Le intimò di leccargli le suole delle scarpe?».
«No», disse la donna continuando a fissare un minuscolo disegno giallo tra il rosso rubino del tappeto.
«Confessi».
«No, la prego... ».
«La prego io. Lei è qui per farsi curare... ».
La donna iniziò a piangere. L’uomo, senza tradire impazienza, si avvicinò alla telecamera che lampeggiava sulla grande scrivania di legno chiaro, e la spense.
«La sua patologia è probabilmente molto grave, farò in modo che la sua confessione rimanga tra noi... ».
La donna rimase in silenzio. Una grossa lacrima si era fermata sul labbro superiore. La bevve.
«L’uomo... » riprese lei con voce flebile.
«Avanti, avanti, non abbia paura... ».
«L’uomo sedette sulla sedia di legno accanto allo specchio e tirò fuori da una sacca alcuni libri».
La donna scoppiò in un pianto a dirotto, potente e liberatorio.
«E poi?», domandò stavolta seriamente allarmato.
«E poi iniziò a leggere... ».
Nella stanza si fece silenzio. Un silenzio teso, presto rotto dalla voce severa dell'uomo.
«E lei?, lei cosa provava?, rabbia?, indifferenza?, felicità? Mi dica, la prego».
«Ero felice».

L’uomo prese a misurare lo studio a passi larghi, fregandosi le mani. La donna rimase immobile in attesa della diagnosi.
L’uomo scosse la testa e la guardò negli occhi.
«Lei è incurabile. L’hanno sorpresa già due volte immersa nella lettura di un... di un... romanzo. Un romantico francese, per giunta. Vada via. Non posso più farmi carico delle sue cure. Questa patologia è in fase terminale. Non è servito a niente farla partecipare a un talent show, e farla vincere, neanche farle fare il pubblico televisivo per un anno di fila».
Chiamò qualcuno attraverso l’interfono.

Alcuni uomini la circondarono. La portarono via mentre lei, dibattendosi, citava a memoria gli incipit più belli dei grandi classici.