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giovedì 28 aprile 2011

Teresa e certa letteratura.


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«Vieni! Di qua!» sento che mi chiama dal fondo del corridoio, dal piccolo salotto che guarda i tetti di Roma che oggi è grigia, che non vuole proprio saperne di parlare di resurrezione, di uova colorate e di fave e pecorino da mangiare all’aperto, magari sul lungolago all’ombra di qualcosa.
Lascia sempre la porta d’ingresso aperta la mia amica Teresa, come se le parole che più volte ho pronunciato, e lentamente, sui pericoli del mondo fossero volate via dalla finestra, uscite dalla porta come ospiti indesiderati, quasi che la purezza che abita il suo piccolo mondo rosa confetto non temesse nemici né sconfitte.
Arrampicata su un’instabile scaletta tiene fra le dita smaltate verde smeraldo grossi volumi che fa precipitare dal quinto scaffale, uno per volta, come poveri corpi senza vita: patapunf!...
«ma... Teresa...»
«Teresa è stanca!» urla senza guardarmi.
La guardo sorpresa: ha tirato fuori anche il vecchio “chiodo”, e l’ha indossato, come se quell’operazione richiedesse un particolare look, come se avesse necessità di recuperare una certa forza adolescenziale, l’incoscienza dei suoi diciotto anni a Londra forse, per mettere in atto quel suicidio collettivo, quella soppressione di massa che, al momento, ancora non capisco.
Guardo i volumi, alcuni sono già a pezzi altri mi guardano morenti, spalancati, come bocche che chiedono aiuto, è una donna senza pietà, sembrano dire, e un poco li capisco.
«Nemmeno sono rilegati come si deve!» mi fa per rafforzare l’idea che già mi sono fatta.
«Possiamo dire in questo caso che significato e significante coincidono?»
«Coincidono sì!» le urlo mentre ancora altri libri precipitano verso il basso.
Non ci vuole ripensare, non vuole mettere in atto nessuna pietà, nessuno fra quei volumi sarà risparmiato dalla carneficina, dal rogo che Teresa ha deciso di appiccare stamattina su in terrazza: nessuno di loro abiterà più il quinto scaffale della sua grande libreria, nessuno la guarderà urlando leggimi!
La porto in cucina e provo a parlarle ma non ne vuole sapere, non vuole nemmeno provarci, e non ci pensa proprio a regalarli alla parrocchia di fronte casa e nemmeno a buttarli nel cassonetto della carta -Oddio! Non sia mai qualcuno li trovasse!-.
Torno nel piccolo salotto arredato che pare una casa di bambola ottocento, pizzi e trine che sbordano ovunque, testimoni inorriditi di quel repulisti pasquale definitivo e crudele.
Mi dice che adesso i suoi autori avranno più spazio, che i suoi giganti devono respirare, avere aria pulita attorno, quasi fossero vivi e umani, come se la polvere prodotta da quei volumi già relegati in alto potesse in qualche modo danneggiarli, contagiare i personaggi che lei ama e l’hanno fatta piangere, come se certi luoghi comuni potessero in qualche modo cambiarne la storia, deviare il loro comune e spesso tragico destino, portare altrove certe decisioni necessarie, quasi che il desiderio di un lieto fine e l’appiattimento diffuso, potessero contagiare anche loro!
Pensa ai gerundi, alle subordinate, a certi giri di parole necessari, all’uso della lingua non contaminata di continuo dal dialetto, alla complessità dei periodi e al senso nascosto delle cose e allora mi guarda e dichiara, in un lungo sospiro, di non voler tornare indietro.
Guardo quella piccola collina di pagine scritte e un poco la capisco.
Terry è stanca dei “casi editoriali”, di certo autobiografismo sterile, della letteratura ridotta a cronaca di una realtà già abbastanza noiosa e misera.
Terry è stufa di frasi brevi e semplici, di un senso troppo comune, dell’abuso di storie a effetto, non ne può proprio più di certa scrittura che insegue la moda, che si piega a essere semplice a tutti i costi, che fa finta di avere un senso profondo, che come una donna liftata ci sorride poco autentica dalle vetrine delle librerie che hanno tanto l’aspetto di supermercati.
Da oggi Teresa non vuole sapere più della letteratura scontata in ambo i sensi, quella fine a se stessa, quella che non aiuta nessuno, di parole e storie quasi mai risultato di un’urgenza. Quella roba non può abitare più i suoi scaffali, nemmeno quelli lì in alto.
«E’ soffocante!»
«E’ inutile!» aggiungo io e l’aiuto, porto fra le braccia e fin su in terrazza quei pesi inutili, quella roba mai letta o letta per sbaglio, distrattamente, tanto per rendersi conto di dove stiamo andando!
«Sono contraria alla deforestazione» mi dice Terry mentre appicca il fuoco e si sfila il chiodo foderato rosso fuoco «ecco il solo calore che certi romanzi riescono a produrre!»
È spietata sì, ma non posso proprio darle torto.


sabato 23 aprile 2011

Teresa e il sacrificio dell'agnello.


La raggiungo al mercatino solito, quello che offre prima scelta a prezzi insolitamente bassi, quello che solo lei poteva scovare in una città come questa dove i monoreddito fanno la fame per poter pagare l’affitto, dove vivere è sempre più difficile per i single che magari sono felici da liberi ma che per campare si devono unire a qualcun altro, e per forza.
Provo a chiamarla al cellulare e non risponde.
Chissà dove si è cacciata Terry la dolce, mimetizzata da qualche parte fra carciofi, patate e pomodori, magari in conversazione con il salumaio, quello giovane e galante che per farle aprire il portafogli tira fuori il meglio del suo repertorio di complimenti, che sorride alla vista di quell’abbigliamento demodé dai colori sgargianti, a quel modo di fare così diverso dalle altre.
La vedo che arringa in piedi su un cartone traballante che muove le braccia e spalanca gli occhi, non sento le parole che pronuncia ma ho la  sensazione che ne vuole combinare una grossa.
Mi faccio largo fra la gente carica di buste, fra bambini urlanti, niente affatto soddisfatti dell’ovetto ricevuto, e piove pure, come se non bastasse l’ansia della Pasqua fuori porta, del solito chiacchiericcio dei parenti, delle domande di circostanza cui si deve per forza rispondere, come se andasse veramente tutto bene, come se lo tsunami e le guerre fossero già roba lontana, e mai ci toccheranno.
E lei è lì che arringa, parla del senso della Pasqua, di quanto sia assurdo consumare agnello.
Faccio a tempo a prenderle un braccio e la strattono con forza. Siamo dall'altra parte del mercato e vedo il Signor Macellaio brandire un coltello!
Ecco, si è dato per vinto.
«Ma Teresa, che fai ? Ma sei diventata matta?»
Lei mi guarda e insiste, vuole tornare indietro e dirgliene quattro, chiamare polizia e carabinieri a cavallo, andare lì e spiegare ancora le sue ragioni, spiegare perché uccidere un povero agnello, oggi, non ha più senso.
Ricorda la Pasqua della sua infanzia, la Pasqua legata a un preciso “credo”, quella imbevuta solo e soltanto di tradizione cristiana, preceduta dalla Quaresima, rispettosa del rigore della preghiera, dei silenzi nell’attesa del perdono.
Quasi piange Teresa per la perdita di senso, per lo svuotamento di contenuti che anche in questa festività lei coglie, lei che lavava i piedi ai frati al buio della cripta, che mangiava di magro e non consumava lieviti, che pregava per i peccati suoi e di sua sorella, sempre indegna al cospetto del grande sacrificio, di quella crocifissione scelta, di quella morte assurda.
E oggi inorridisce al pensiero dei poveri agnellini, nati predestinati alla morte, concepiti dall’allevatore già distesi sul piatto dell’italiano grasso, lo stesso che passa sul cadavere dell’altro per raggiungere il suo misero obiettivo, che non recita più il Padre Nostro -non se lo ricorda- o se lo fa prega distrattamente perché raramente si reca alla messa, perché rispetta la tradizione solo quando gli gusta.
Come certi capi di stato che inneggiano alla sacralità della famiglia mentre mettono le mani addosso a minorenni nella speranza che l’antico vigore rinasca per incanto.
Che c’entra ora l’agnello in una società dove ci si manda a fanculo l’un l’altro con tanta leggerezza, dove nessuno più domanda scusa, in una comunità che non risponde alle e mail e figuriamoci al saluto, dove la sola possibilità che hai per salvarti è di aderire alla volgarità dei tanti.
Perché mettere sul fuoco la sua carne magra, già piena di veleni per un allevamento forzato, perché mettere in casseruola per povero agnellino ucciso da un un colpo alla testa, gli occhi scuri spalancati, conscio di un sacrificio che non ha senso alcuno,  come quel poveretto che speriamo sia resuscitato veramente perché altrimenti, si chiederà in eterno chi glielo ha fatto fare!
Teresa ha amato e ama ancora Gesù Cristo, il rivoluzionario, quello che immagina bellissimo, che diceva cose che oggi uno innoridisce: amatevi l’un l’altro e porgi l’altra guancia. Mi viene da ridere se poi accendo la tv, uno addosso all’altro a fare a gara a chi la spara più grossa, uno contro l’altro perché vincano anche le ragioni più assurde.
Ha amato e ama ancora quell’uomo ancora più sottile appeso alla croce, e le ferite, e il sangue che di là dalle candele di qualunque chiesa brillano di un rosso intenso da far male al cuore.
E ogni volta le viene voglia di salire fin lassù e slegarlo, di sfilare quei chiodi che da sempre lo tengono fermo, in perpetuo ascolto delle preghiere di chi cerca conforto, di chi non sa come pagare il mutuo, curare un figlio.
Certo, mi dice la voce ancora velata di pianto, faremmo meglio a domandare tutti insieme a quell’uomo che dice di avere un padre così potete, che un fulmine possa incenerirli tutti quanti i malviventi, quelli che mettono via troppo denaro togliendone ad altri, quelli che il potere ha reso egoisti e anche quelli che, si dicono di fede e tirano via la mano di fronte al mendicante.
«Dimmi tu ora che c’entra l’agnello, che cosa può fare la povera bestiola in questa Babilonia, in questo mondo dove è morto e sepolto il rispetto per l’altro, in questa nazione senza dignità e senza vergogna!».

sabato 9 aprile 2011

Teresa e l'uomo in bianco


Non sa nemmeno come dirlo a me, a me che sono la sua sola amica, quella che le offre torte e che subisce il suo pianto, che fa salti mortali per scavalcare la città per tempo e scopre poi che le si è solo rotto il tacco, che la crisi di nervi è dovuta al fatto che l’abito rosso le sta troppo stretto.
Fa finta di niente la mia amica Teresa mentre ride leggermente, voltata di spalle, e si diverte nel ritardare la confessione, il segreto del sottile piacere provato nell’averne messo uno finalmente sotto i piedi, nell’aver goduto dell’imbarazzo della sconfitta, della delusione dipinta su quel viso, un tempo amato così tanto.
Ha anche il coraggio di gorgheggiare un sovracuto –torno subito- prima di dissolversi nel sole che luccica nella finestra alla fine del lungo corridoio, prima di scomparire del tutto dietro la porta del bagno.
I colori di Chagall alle pareti, e gli specchi, che qua e là offrono di me e della stanza diversi punti di vista, mi fanno ripensare alla girandola di buon umore che avvolgeva Teresa la prima volta che la vidi, mentre china su un baule di un negozio dell’usato cercavo una pochette per una festa a tema.
Mi accorsi di lei perché quasi cantava raccontando a una tizia la sua storia strana, confusa, così piena di digressioni e paradossi, da non poter credere che quel tipo che descriveva come un divo di Hollywood, l’avesse seguita veramente e poi fermata. E parlava di sguardi e cenni d’intesa, di particolari ammonimenti di sua nonna e dei possibili inganni per trattenere il maschio, e mi parve, e rimasi confusa, di essere d'improvviso in un mondo rosa confetto, nell’universo infantile, fragile e volubile, di chi di continuo da asilo all’amore.
Nel magico mondo di chi l’amore lo inventa in qualsiasi momento e così lo distrugge.
E al termine esatto di questo breve ricordo, riappare Teresa dai colori vivaci in un lungo chimono con samurai e pappagalli dipinti.
Ha un che di diverso dipinto sul viso perché mi guarda ma non sorride.
Puntando alla meglio bacchette e matite fra i ricci finalmente mi dice
«Ricordi Francesco?»
«nome troppo diffuso» le dico e timidamente domando un altro elemento, come in un gioco a quiz della buonanima di Mike Buongiorno.
«ricordi quello che mi ha tenuta sulla corda per tre mesi con quel generico -ti chiamo-?»
Porca miseria Terè e dammi qualche altro elemento! Mi viene da dire ma vario con un più gentile «proprio non ricordo».
Guarda in alto e cerca il terzo indizio, inspira profondamente e d’un fiato espira l’enigma
«Francesco, quello che quando ci uscii scoprii che vedeva solo action moovie, e che lavorava per una società creditizia, e che in piena notte gli prendeva il panico per la caduta o l’improvvisa ascesa dei titoli di borsa»
E  mi batto la mano alla fronte visto il risultato che quella relazione infausta aveva prodotto nella fragile Teresa che grazie a lui, prese sei chili e si riempì di brufoli dopo essersi saziata solo di caramelle Mou e cannoli per una settimana.
E inizia a ridere, e sembra non fermarsi più, come se tutta la gioia ricevuta da quei dolci in un tempo lontano e per fortuna già dimenticato, fosse rientrata in circolo all’improvviso, come l’effetto di uno stupefacente dopo una lunga corsa o dopo aver fatto sesso.
Ma solo alla fine del racconto riesco a capire fino in fondo.
«C’è soddisfazione» dice Teresa ancora accaldata da quell’improvviso furore, «quando hai sotto gli  occhi i suoi, ancora incoscienti, quando più lui insiste più lo guardi indifferente...»
e si passò la lingua sulle labbra, come quando in gelateria si fa riempire il cono di panna.
«non lo sapevo, ma si prova piacere nel vedere la speranza sbiadire sul viso e che lentamente diventa sconfitta...»
E versa limonata sul ghiaccio che per un solo istante fuma.
«Francesco chiedeva e io mi negavo, Francesco pregava e quasi ridevo, è anche inciampato correndomi dietro quell’uomo arrogante vestito alla moda»
«Si chiama vendetta!» le faccio notare.
«Lo so, e mi piace!» risponde felice.

giovedì 7 aprile 2011

Occhi nero carbone


Non sapevo bene chi rincorressi quella sera, cosa, e non sapevo nemmeno in quale direzione andare, dirigere i miei passi così incerti.
Generalmente, in quello stato,  prendevo una traversa qualsiasi di Via del Corso e andavo dove il vento mi spingeva, verso dove sentivo più silenzio, dove le ombre dei palazzi mangiano la strada lasciando al sole solo brevi spazi, strette corsie, lame di luce affilate sulle quali stare in equilibrio.
Non era una sera come un’altra, c’era qualcosa di diverso, forse l’aria che cominciava a cambiare, la luce che si tingeva di nuovi colori, lo sguardo di lui nella mente e la sua ostinatezza nel fingere di non sapere nulla.
Mi sentivo così invisibile agli occhi di quell’uomo da dovermi ritrovare in ogni vetrina della città, ossessionata dall’idea che se non fossi stata niente per lui non lo sarei stata neanche per me stessa.
E ogni passo mi raccontava la sua crudeltà e la sua profonda fragilità e quella presenza ancora più pesante nei suoi silenzi, nelle lunghe assenze, negli sguardi che mi rivolgeva, privi di espressione, indifferenti.
Camminavo solo per perdere tempo fino a domani.
Senza quel dolore giornaliero credevo di non poter più esistere, senza quella febbrile occupazione non avevo scopo, senza il suo sguardo che non mi vedeva, non avrei potuto più cercare me stessa con tanta tranquillità.
In un sottile armadio decò intravidi la mia figura perfettamente intonata allo stile, e sempre più rarefatta, saziata da quell’illusione sciocca anziché dal cibo.
Decisi quindi che sarebbe stato meglio tornare a casa, prendere un buon libro e nutrirmi della passione altrui, di parole dentro le quali avrei trovato conforto, forse anche un buon consiglio.
Ritornai sui miei passi e in un vicolo, vicino a una fontana, lo vidi. Lui si voltò appena, aveva lo sguardo rassegnato, quello di chi non crede all’amore a prima vista, all’empatia degli umani così presi dal loro tramestio giornaliero per la sopravvivenza.
Aspettai che avesse finito e mi chinai anch’io per bere, per condividere con lui almeno quel breve attimo di esistenza.
Quando alzai lo sguardo vidi che, rasente il muro, camminava nella mia stessa direzione annusando l’aria, colpito come me dalla nuova stagione che arriva, dai suoni che all’imbrunire sembrano diradarsi, per lasciare più spazio alla malinconia di certi ricordi.
Decisi di seguirlo, volevo vedere dove andava, e se anche lui era rimasto come me senza nessuno al fianco, una guida, senza nessuno che gli desse il giusto conforto.
Forse si era accorto della mia presenza perché, di tanto in tanto, si voltava per assicurarsi che ci fossi, che lo seguissi ancora o forse, si domandava come me se non dovessimo magari invertire i ruoli e diventare io preda come forse, in certi casi è più giusto.
Ora che dal divano mi lancia sguardi d’affetto, benedico quella sera di perfetta solitudine, quell’imbrunire così malinconico da far sì che rivolgessi lo sguardo altrove, in quel vicolo tortuoso e oscuro.
E così, guardandoci timidamente solo a tratti, arrivammo fin sotto casa. Camminava davanti a me e sembrava  conoscere la strada quasi l’avesse percorsa da sempre.
E vidi in lui la perfetta medicina per la mia mancanza di autostima, il giusto sostituto di un uomo egoista e incapace di amare.
Non dissi nulla, non ce n’era bisogno -ci sono relazioni che nascono d’incanto, dove basta un gesto appena accennato per capirsi -, e io e lui eravamo complementari e giusti, era evidente.
Aprii il portone e lo lasciai entrare.
Una volta in casa si guardò attorno con discrezione, come chi comunque diffida e aspetta una parola, un definitivo gesto d’amore.
Sedette lì dove con un cenno del capo gli avevo indicato, mi guardò in silenzio mentre preparavo la cena,  il suo angolo per la notte, il bagno.
Da allora sono passati quattro anni, e lui mi guarda ancora, e allo stesso modo, le mie carezze si sono fatte più certe: stavolta non verrò tradita, messa da parte come un bell’abito liso e troppo visto.
A lui non posso nascondere i miei sentimenti, nessuna menzogna alimenta dissapori e anche quando provo a nascondere il dolore che troppo spesso mi si dipinge in viso, lui mi segue con lo sguardo e non domanda niente.
Si chiama Dog, così mi pare di avere capito, quello comunque, mi è parso il nome più giusto per un bastardo qualunque dagli occhi nero carbone.

mercoledì 6 aprile 2011

L’Omeopatia e la sua potenza- una personale esperienza.

Sono settimane che voglio scrivere alla mia Dottoressa ma sempre sul treno o alle prese con altro, rimando.
Allora lo faccio pubblicamente, per diffondere un pezzettino di verità sull’omeopatia visto che, l’esperienza, è comunque una prova.
Non sono all’altezza di scrivere chissà quale introduzione su questo tipo di medicina, non sono un'addetta ai lavori e non è nemmeno questa la sede so solo che, quando i medici tradizionali andavano ancora a salassi, la medicina alternativa già guariva molte di persone. Comunque ci sono appositi trattati sul tema, il web poi trabocca di informazioni e consiglio, per chi volesse leggere anche qualcosa di molto ben scritto, lo splendido e doloroso -Un altro giro di giostra- di Tiziano Terzani.
La mia patologia, grazie al cielo, non era grave come la sua, e nemmeno tragica, ma era comunque da non sottovalutare visto che, a parte la noia di non lavorare, se trascurata può portare gravissime patologie ai reni.
Premetto che la tonsillite mi perseguita da sempre.
Bambina, a partire dai sette anni, mi ammalavo spessissimo di questa infiammazione che, unita alle crisi acetonimiche faceva di me una bimba dalla salute cagionevole e anche molto viziata.
Comunque, in un assolato pomeriggio dell’estate scorsa mi accorgo di avere la gola piena di pus!
Piango come una cretina e la febbre arriva a trentotto e mezzo.
Corro verso il comodino dei rimedi naturali, sono più di vent’anni che mi tengo alla larga da medici e ospedali –e sempre ringraziando il cielo-, e mi riempio di propoli e affini.
Pare che la situazione non migliori.
Mia madre per telefono interviene con i soliti: prendi l’antibiotico! L’antinfiammatorio! Un dottore presto!
La prima passa ma, esattamente ventuno giorni dopo – direi che siamo all’Horror- ecco che le placche ritornano.
Mi sveglio al mattino che ho la gola innevata, un dolore diffuso ed è come se tutte le ghiandole del mio corpo stessero per esplodere.
Subito, la Dottoressa omeopata, che vive nella mia città natale, la principale destinataria di questa testimonianza, mi consiglia un tampone faringeo.
Il risultato è negativo! Nessun batterio in circolazione nel mio esile corpicino, nessun temibile streptococco in vista.
Ottimo mi dico, è semplicemente un’infreddatura, una maledetta tonsillite virale.
Gli amici di FB intervengono numerosi a tirarmi su il morale e a darmi consigli.
Questa volta prendo rimedi Omeopatici, Phitolacca, Mercurius solubilis, Apis Melliflua, medicinali dal suono comunque dolce e morbido e del tutto privi di effetti collaterali.
Passa l’infiammazione e, tempo quattro giorni, sono di nuovo al lavoro.
Intanto comincio a percepire che qualcosa non và. Mi sento nervosa, intollerante a tutto, piena di malesseri diffusi e infatti, il ventiduesimo giorno sono di nuovo a letto.
In totale mi faccio cinque settimane di malattia, una al mese.
La Dottoressa mi prescrive un secondo tampone –sempre completo e con tanto ricerca dei più piccoli batteri- e una sfilza di analisi del sangue e affini che, pur affidandomi al servizio sanitario locale, mi costano un occhio della testa!
Ok, facciamolo. Verifichiamo cosa manca e cosa è in eccesso.
Ansia crescente e paura nell’attesa dei risultati e, finalmente, tirato un sospiro di sollievo per lo stato di salute che in generale è buono, smascheriamo il colpevole!
Non è un malefico streptococco per fortuna, ma un batterio pericoloso solo per le donne in gravidanza e generalmente innocuo per gli altri esseri viventi. Un infido batterio così insignificante da non essersi nemmeno manifestato al primo tampone.
A questo punto, stanca e sfatta, debilitata e piena di ansie mi faccio prescrivere, contravvenendo agli ordini dell’Omeopata, un antibiotico, quello giusto per combattere quel ceppo di batteri.
Trascorso il tempo solito dei ventuno giorni ecco che mi aggredisce e più forte che prima anche perché, stavolta, e grazie alla distruzione totale della flora batterica intestinale, la scrivente ha anche fastidiosissimi effetti collaterali che in molti conoscono e non sto qui a specificare.
L’antibiotico dunque non solo non ha debellato il batterio ma mi ha reso ancora più debole.
La bella Dottoressa Omeopata mi sgrida e mi ordina di andare subito da lei, di prendere il primo treno e andare a sud, nella mia terra di ulivi.
Parto.
Nella sua casa calda e accogliente –mi conosce da quando andavo al ginnasio e non mi riceve in studio- e davanti a una tazza di raffinato tè giapponese, parliamo.
Lei mi fa domande su tutto, sull’amore, sul lavoro, sulle mie frustrazioni –al momento non poche-, e mi guarda, mi lascia parlare e mi guarda.
E’ quasi ora di cena quando esco da casa sua felice per la lunga seduta di analisi, per averla incontrata e con un foglio di ricettario scritto con la solita grafia indecifrabile.
Il tempo di reperire i rimedi e sono al lavoro.
La dieta mi intima di eliminare le farine raffinate, lo zucchero tutto, la carne tutta -ma in particolar modo la rossa- ovviamente i formaggi vaccini, patate, uova e un bel po’ di altra roba.
Il nuovo regime alimentare (mai termine fu più giusto) prevede pane azimo, pasta al farro, pasta al mais, formaggi caprini, verdura, legumi, cereali e yogurt magro, un’altrettanto vasta e saporita gamma di prodotti.
Ma ovviamente ci sono anche i rimedi e nel mio caso, cicli di quaranta giorni di scadenze giornaliere e alcalinizzanti, di gocce da assumere con la massima puntualità e concentrazione.
Il ventunesimo giorno di tre mesi fa, avevo appena una piccola placca e la gola bruciava, il giorno dopo stavo di nuovo bene.
Due mesi fa, sempre allo scoccare dell’ora ics, avevo solo la gola arrossata e appena trentasette e otto di febbre, e il mese scorso, ho solo sognato di svegliarmi con le placche e quaranta di febbre, adesso, la tonsillite non è che uno spiacevole ricordo ma anche la prova che l’omeopatia un suo senso ce l’ha e, per evitare polemiche, aggiungo che un senso, l’ha avuto per me.
L’omeopatia però, così come la medicina tradizionale che in molti casi rimane indispensabile, va frequentata sotto la guida di un buon medico, non va presa alla leggera, facendo di testa propria o con l’ausilio del web inoltre, ci sono alimenti che mal si coniugano con il fabbisogno del nostro corpo e che, molto spesso, sono la causa principale di molti malesseri come l’emicrania o i disturbi del sonno.
Ringrazio la Dottoressa che mi ha curata, Samuel Hahnemann che primo l’ha teorizzata e la buona natura, e che non ci abbandoni, stanca magari delle nostre cattive abitudini.