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sabato 26 marzo 2011

PENNA ROSSA - 16° e ultimo episodio


Il ragazzo insisté e le bastò dare un’occhiata al biglietto per capire che aveva bussato alla porta giusta.
Le gambe, però, non poterono non tremare davanti all’iniziale maiuscola del suo cognome: una “d”, così grande e rotonda da far girare la testa.
E la vista non volle evitare di dileguarsi in quel modo, a tratti, tanto che le sembrava di essere in un action movie fra i più psichedelici e rumorosi girati negli ultimi anni.
Non poté non inumidirsi più e più volte le labbra, piccole ma non troppo sottili, a causa della salivazione che si era fatta all’improvviso latitante.
Ma, subito, quel profumo le suggerì di aprire di nuovo gli occhi e di guardare: era lo stesso, era l’identico profumo che aveva sentito quel giorno nel Kent, lo stesso di cui, inutilmente, gli aveva scritto appena un mese prima sul solito file che, quella volta, non finì nel cestino ma fu cancellato partendo dal basso, iniziando dall’ultimo punto per arrivare sino in cima.

Sei come quel papavero bianco, sì, Marina, proprio quello che stai guardando in questo istante...
Il resto, lo sai.

E non poté proprio evitare di ridere e piangere, come se tutto l’universo mondo si fosse manifestato in quell’attimo, lì dentro, in quei sessanta metri quadri e un piccolo soppalco nel centro storico di Roma, proprio davanti a lei e alla sua gatta.
E non le parve possibile, e pensò anche a uno stupido scherzo ma la grafia, quel biglietto azzurro pallido e la firma non lasciavano spazio a equivoci o dubbi.
Sedette sulla poltrona rossa che Pepe le aveva ceduto, distratta dall’inconsueto e anche per lei sorprendente omaggio floreale, e cominciò a svolgere la carta, rossa, che lasciò cadere sul pavimento, e rimase in silenzio il tempo che quell’emozione prendesse la forma di un pensiero qualunque.
Le sue domande, tutte, avevano trovato risposta, perché, pensava, l’amore si sente.
Ora ne aveva la prova.
Marina non l’aveva visto prendere quel pesante volume dalla libreria, stirare la schiena al massimo e sedersi alla scrivania. E Davide, lui non sapeva che lei, in quel preciso istante, gli stava scrivendo, e proprio del Kent di cui lui guardava la guida, di quella magnifica giornata spesa a contemplare il cielo, a parlare per delle ore e senza essere interrotti.
Così come, in realtà, la sentì arrivare quella sera in cui Marina attraversò, rasente il muro, il vicolo freddo, negando a se stessa le promesse fatte, le denunce, l’odio della moglie, e volle spiarlo e stare in ascolto, e lui la cercò nel buio, e Freud, che aveva alzato appena il sopracciglio, era rimasto in attesa di una risposta, di un urlo o di parole spietate e invece la sentì prendere fiato e correre via, come una ladra.
E così sempre, per anni, il loro era stato un sublime parlare fatto di segni, di frasi mai pronunciate, di nostalgie improvvise e di fughe.
Due monologhi non scritti, recitati in due diverse città e teatri e che dicono le stesse parole e hanno gli stessi movimenti.
E quel segno, effetto manifesto di una causa latente, effetto naturale di mille notti di insonnie e pensieri, si era fatto fiore per mostrarsi a lei, in quel pomeriggio di vento di scirocco, umido e piovoso.

La verità, però, era un’altra e non poté fare a meno di guardare il foglio lì disteso sul suo affezionato scrittoio; la verità era che il suo sottotesto era ben diverso da quello romantico del Professore, e raccontava un’altra storia, quella di una scaltra studentessa, di un’arrivista di provincia che lo aveva pedinato una notte di pioggia per farsi assumere come assistente e che gli era rimasta accanto, fedele, solo per ottenere la sua completa fiducia e stima profonda. E quella verità, adesso, non aveva più bisogno di palesarsi e doveva restare per sempre rinchiusa fra quelle mura.
Marina non aveva più bisogno di sbatterglielo in faccia il suo punto di vista, di tranquillizzare il vecchio Freud con il suo disincanto, la freddezza che aveva rinchiuso da qualche parte pietà e compassione per fare posto a un obbiettivo solo: una buona posizione, il posto di assistente, magari il matrimonio.
Le vennero i brividi al pensiero di come, questa volta, il caso l'avesse aiutata: se solo avesse spedito quella lettera poche ore prima, avrebbe buttato via cinque anni della sua esistenza, cinque anni di vita monacale in attesa di un suo cenno, di pensieri intensi, di parole che rimanevano, poi, nel chiuso di quel buco di casa.
Chiunque avrebbe lasciato perdere, nessuno al mondo avrebbe resistito in quel letargo monomaniacale su cui si reggeva quella finzione assurda!
Il Professore, dal canto suo, era stato per anni a guardare, impaurito e incerto.
Sapeva che il suo fascino ora risiedeva solo lì dove concepiva studi e ricerche, il suo appeal era ormai nella sua fama, e voleva essere certo di trovare una compagna sincera per la quale valesse la pena dare il ben servito alla sua seconda moglie. Cercava una donna parsimoniosa il Professore, attenta e così forte da sopportare il suo carattere che, con la vecchiaia, sarebbe andato di sicuro peggiorando.

Affatto pentito di quella scelta, impaziente di leggere la risposta di Marina e di godere di quella felicità che credeva ormai dimenticata, Davide accarezzò Freud e rivolse lo sguardo fuori, verso un cielo che doveva essere chiaro: le foglie del rampicante iniziavano a gonfiarsi di linfa. Bastava aspettare.

CONCLUSIONI

Da qui in poi non credo che valga più la pena di sapere, raccontare e soffrire assieme al Professore. Perché è chiaro che pagherà i suoi silenzi, tutti, e anche le continue provocazioni.
Avrei potuto ipotizzare una Marina non così cinica da slacciare la cintura dei suoi pantaloni solo per farlo con il cordone della borsa.
Bastava che si accontentasse di quella vittoria, si saziasse dell’inaspettata confessione.
E il dubbio mi ha tormentata a lungo e, indecisa, avrei optato anche per un doppio finale.
Ma questo è un Blog, e questo racconto è nato per gioco, pieno di contraddizioni, periodi da rivedere, caratteri da approfondire. Sono appunti, idee che sviluppo altrove, immagini.
Marina conclude la sua esistenza nella mia vita, mettendo via la maschera e lasciandomi dell’amaro in bocca.
Desideravo che facessero l’amore almeno una volta e, chissà, Marina avrebbe anche potuto cambiare idea: sicuramente l’aveva amato, se così non fosse, lui non avrebbe mai ceduto.
Ma mi ribello all’amore tradito, alla dedizione punita e all’affetto ignorato.
Non posso più cedere a certi comportamenti maschili provocatori, al sadismo che prende d’un tratto l’uomo quando si sente necessario e troppo amato.
Qui, e per una volta nella mia vita, la vittima mette sotto scacco il carnefice. Davide l’ha usata per anni e su di lei ci sì è quasi pulito le scarpe e voglio –perché posso- che la situazione si ribalti.
Nella realtà, purtroppo, non mi è possibile fare altrettanto, non sono mai stata in grado di agire per opportunismo o di mettere fine all’amore, quello ambiguo e mentale, l’unico che veramente mi attragga, perché sembra il solo di cui riesca a nutrirmi, anche se mi squarcia il petto.

domenica 20 marzo 2011

Teresa e l'ex marito



Anche Teresa è andata sposa.
Molti, dopo avere ascoltato la sua storia, le domandano come mai riesca ancora a dar credito all’amore e a certi uomini e lei, alzando gli occhi al cielo, lascia intendere che sì, forse sarebbe meglio lasciar stare!

Mi basta sentire la sua voce, all’improvviso più dimessa e opaca, per sapere se l’ha incontrato, sentito o solo letto, magari in una delle e mail di circostanza per le feste comandate o i lutti di famiglia.
A lui, grasso e borioso avvocato civilista, non parve vero di poter sposare la bella ragazza bianca e soda, e le cinse la vita con ancora più trasporto dopo aver dato più di un’attenta occhiata ai suoi terreni e ai beni di famiglia.
Dopo il fidanzamento frettoloso, durato giusto il tempo di lasciar che si sentisse la più amata, con un paio di “ti amo” sussurrati al chiar di luna, Ernesto – prendo questo nome solo in prestito-, decise di cambiare quella donna e a cominciare proprio dall’abbigliamento. Non si svelò prima delle nozze ma solo dopo, quando, in luna di miele, la portò in un centro commerciale dove -e senza darle modo di reagire- volle infilarla in anonimi tailleur neri e grigio topo.
Messi via gli anfibi, i diari e tutti i colori in un baule, la povera Teresa si adattò comunque di buon grado a quello che immaginava un solido legame.
Si sentiva già al sicuro stretta in seno alla famiglia, la fede platino che, nuova, brillava ancora abbracciata all’anulare, ancora entusiasta dei regali costosi da scartare, la famiglia inneggiante gli sposi tutta attorno.
Ma non passarono nemmeno due anni che la casa sapeva già di prigione.
Occupata a preparare cene per amici di lui già annoiati e stanchi, indaffarati a tener fermi figli senza freno e mogli, Teresa lasciava che la vita, la sua e la sola che Dio aveva deciso di darle, le scivolasse in fretta fra le dita.

E il tempo passò, ma lo seppe solo un giorno quando, la scopa fra le mani, si ritrovò per caso in uno specchio e quasi non si riconobbe nel vedersi così rotonda e affranta. In un abitino un po’ sformato e liso, le ciabatte vecchie ai piedi, i capelli che sembravano rafia, Teresa preparava la cena per riporre quella di lui in frigo: c’è sempre del lavoro in più allo studio, la partita di calcetto o l’amico in crisi...
Lui, l’odioso Ernesto grasso e sempre più arrogante è appagato e stanco, le parla di se stesso e di se stesso ancora e sempre più spesso, la ferisce e senza più contegno.

Quando me ne parla, Teresa piange ancora.
E come sempre guarda altrove, dissimula e finge, talvolta è così brava che confonde il riso con il pianto. In tanti anni la mia amica me ne ha dette molte, così tante che messe tutte assieme una in fila dietro l’altra, quelle parole cattive cingerebbero due volte il mondo.
«sei troppo grassa!, ma guardati un po’!, che figa che è quella!, cazzo ma stai dritta!, ma come ti vesti!, ma come ragioni!, ho detto di no!, sei proprio una stronza!, e allora realizzati!, ti ho detto aspetta!, non dico cazzate...!» e così via dicendo, e così via umiliando!

Ma Teresa è resistente, ha combattuto fino in fondo e ha sgranato gli occhi quando si è resa conto che sarebbe stato giusto farlo anziché attaccarsi alla bottiglia, urlare, e non far finta di niente, di essere distratta, occupata magari a rimuovere il presente, nella speranza di un domani – anche solo- più giusto.
Ma arriva sempre il giorno in cui il domani è solo buio tanto si è fatta flebile la speranza di vederlo diverso, quando ormai è troppo vicina l’dea che l’uomo con cui condividiamo vita e letto, non è ciò che pensiamo ma ciò che in realtà sappiamo da tempo.
E anche per Terry giunse quel giorno, un mattino di primavera in cui volle riaprire il suo baule, quello che, ai piedi di quel letto -che di matrimoniale aveva solo il nome- conteneva tutto ciò che nemmeno Ernesto le avrebbe potuto mai strappare: la Barbie sposa, il gioco del Monopoli e il “Dolceforno”.
Abbracciata a un’idea precisa e al suo storico “Cicciobello”, in un’ora aveva già il bagaglio pronto.
Il mattino del giorno dopo mangiava un gelato doppia panna e sorrideva al Pantheon!

venerdì 18 marzo 2011

Il terremoto in Giappone: un dolore che mi sovrasta.


La settimana passata, era giovedì, ho sognato che il mio Juzu, il rosario che uso durante la meditazione,  mi si sgretolava fra le dita.
Svegliandomi di soprassalto da quello che per qualunque Buddhista è un sogno premonitore, qualcosa che ha a che fare con la fede e con la  vita stessa, mi sono detta che forse, negli ultimi tempi, stavo indulgendo troppo con me stessa e che dovevo riprendere a pregare con maggior forza e convinzione. Talvolta, quando i pensieri, le parole e le azioni positive non trovano effetti, capita di cedere e di lasciarsi andare.
Non ho mai pubblicizzato la mia fede anche perché, purtroppo, se in Italia dico Buddhismo tutti pensano a certe scuole di pensiero new age, quelle di ultima generazione che non tengono conto del rigore con cui nascono e che s’impadroniscono di una o due frasi d’effetto da usare come esca, quelle dove pare sia sufficiente recitare un mantra per trovare un parcheggio, un lavoro o l’amore.
Fino a oggi quindi, sul posto di lavoro così come nel quotidiano, faccio menzione di rado alla pratica rigorosissima su cui si fonda la mia vita. So che il rigore non appartiene alla mia nazione più dedita a cercare scorciatoie che illuminazioni faticose da raggiungere.
La fede mi è stata data in dono alla nascita, ed è stato il dono più bello che potessi ricevere, per anni sono stata una cattolica praticante poi, all’improvviso e forse senza un vero perché, mi sono incamminata altrove. Passando per la filosofia occidentale -percorso troppo complicato da riassumere brevemente- sono arrivata al Buddha, allo zen e finalmente, in un mantra, ho sentito sciogliersi lacrime, dubbi e resistenze, ho sentito che quel suono e quel rito erano fatti per me e che, la mia razionalità poco incline al dogma, avrebbe trovato lì la risposta giusta a ogni domanda.
Così è stato. Così è da più di vent’anni.
Appartenere a una scuola di pensiero Giapponese mi ha portata ad avere un forte controllo sulla mia vita e sulle emozioni che ogni giorno obnubilavano la mia mente e non mi consentivano di vedere i problemi dalla giusta prospettiva.
Attraverso una pratica giornaliera rigorosa e talvolta assai faticosa ho esercitato la mia mente a considerare solo l’attimo e a vedere il futuro come semplice conseguenza dell’azione presente.
Sono sparite dalla mia vita le scuse che attribuivano agli altri e al mondo "osceno" i miei eventuali fallimenti e mi sono presa la totale responsabilità di ogni risultato.
Non rimando mai a domani ciò che posso fare oggi.
Quando sono da sola mi comporto come se avessi un ospite in casa e viceversa.
Sono e a volte fin troppo esigente con me stessa ma non con gli altri anche se, sempre più spesso, mal sopporto il lamento sterile di chi continua a guardare le proprie colpe fuori anziché dentro di sé.
La pratica quotidiana mi ha insegnato che le peggiori casualità, quelle che veramente arrivano inaspettate e dolorose, possono trasformarsi in preziose eventualità. E la vita, che ora riesco a vedere come una trama di fili logici, mi ha sempre dato ragione.
Quando nel 2007 sono finalmente partita per il Tempio ai piedi del monte Fuji, mi è parso di essere tornata finalmente a casa dopo un cammino durato secoli, e l’ho capito dal primo momento mentre, sorseggiando del tè verde, osservavo la proprietaria del piccolo albergo dove alloggiavo rimettere in fila decine di scarpe con l'attenzione rivolta solo all’azione presente: forma e contenuto due facce della stessa medaglia.
Un sorriso è un sorriso, un sì è un sì e il “no”,  non trova posto nel loro vocabolario.
Il Giapponese è gentile e non per forma: sa che le sue azioni non sono ritrattabili, che le parole e soprattutto i pensieri non si possono cancellare con un “amen” distratto ma vengono incise in profondità nel Karma e chissà quando capiterà di dover pagare il conto.
Due giorni dopo dall'arrivo, i miei compagni di viaggio e di preghiera mi guardavano allibiti mangiare pesce alle sette del mattino e chinare appena la testa di fronte a chiunque incontrassi per strada, parlavo sottovoce e sentivo l’acqua scorrere anche nei sogni, fluire nelle preghiere e nei pensieri.
Forse ho conosciuto la parte migliore del Giappone, non posso saperlo, ma avrei dato qualsiasi cosa per rimanere lì a vita. Amo la loro natura, l’arte, il suono della loro lingua, gli abiti e le tradizioni e il rigore geometrico che si esprime anche apparecchiando la tavola, disponendo i fiori o pregando.
Nulla avviene per caso. I gesti sono misurati e hanno sempre un fine, gli spazi sono essenziali, le parole poche.
Venerdì scorso i Reverendi erano qui in Italia, mentre la loro nazione tremava officiavano un rito per noi come se lì nulla stesse accadendo, ci hanno incoraggiato e hanno pregato per noi.
Il dolore che provo mi sovrasta, ma so che troveranno la forza per superare anche questo dramma, che riusciranno a trovare una ragione a un’apocalisse che sembra non averne.
Prego per loro, la sola azione che da qui mi è consentita.

giovedì 17 marzo 2011

IO E IL TRICOLORE


(il nostro è) un popolo di santi, poeti, navigatori, nipoti e cognati. (Ennio Flaiano)

A parte una maestra che tutte le mattine ci faceva cantare l’inno di Mameli e che poi ci bacchettava sulle mani come si usava durante il ventennio, non sono stata allevata con il culto della nazione e nemmeno allo spirito nazional popolare.
I miei genitori, disprezzando i programmi TV domenicali del "Pippo nazionale" mi mettevano in mano un buon libro. Mio padre non si è mai sognato di portarmi sulle spalle alla parata del 2 Giugno, in visita al monumento del Milite ignoto o al cambio della guardia al Quirinale in compenso, mi educava alla cultura recitando Pascoli, Manzoni, Ungaretti e Montale, mi prendeva per mano e mi mostrava dipinti di Donatello, Michelangelo e Caravaggio, mi obbligava ad ascoltare Verdi, Puccini e Monteverdi.
La domenica, attraversando le strade interne della Puglia ancora polverose e semi deserte, raccontava a me e mia sorella dei moti contadini di Andria, dei briganti e dei preti che vendevano indulgenze in cambio di favori e denaro, e di quelli che s’infilavano nei letti delle spose i cui mariti erano dispersi in guerra o curvi sulla terra rossa.
Mio padre mi ha anche insegnato a valutare i fatti e mai le parole, i programmi elettorali e le persone e non le ideologie o le bandiere.
Da quando io ero bambina le cose sono andate peggiorando e quel poco di "rettitudine" e buona educazione civica è scomparsa del tutto.
Il sentimento nazionale non risiede qui, ne sono più che certa, e tutto questo sbandierare il tricolore mi da una certa nausea.
Il sentimento nazionale l’ho visto - ed è oggi sotto gli occhi di tutti - in un paese come il Giappone, l’Inghilterra, la Francia e non qui, nel bel paese creativo e individualista, in questa lingua di terra dove tutti si pensa al proprio tornaconto, a portare l’acqua al proprio mulino e dove, se l’erba del vicino è più verde, invece di ammirarla preghiamo che l’attacchi presto la gramigna.
L’Italia è bellissima e me ne accorgo ogni giorno e ringrazio Dio o chi per lui per essere nata qui, ma per favore, evitiamo la retorica di cui per altro siamo maestri.
Il sentimento nazionale è nella solidarietà verso gli altri cittadini e nel rispetto per la res publica e le sue regole. L’amore per la bandiera è nella cura per il territorio che si esprime attraverso la raccolta differenziata, l'amore per i parchi e le riserve naturali, la parsimonia nell’uso di acqua e petrolio – se non si usasse così tanto l’auto non ci sarebbero tanti obesi e morti per ictus e infarto- è nella solidarietà civile e disinteressata.
Il sentimento nazionale è quello che ci insegna a rinunciare al nostro personale tornaconto per il bene dell’altro, quello che fa sì che Ministri e amministratori delegati ladri o superficiali si prendano pubblicamente le proprie responsabilità senza scaricare i soliti barili sul capro espiatorio di turno.
Il sentimento di amore verso la propria nazione si esprime pagando le tasse.
L’Italia non è unita, la mia nazione è ancora divisa in feudi, è fatta di alleanze – sante e maledette - di “amici meritevoli” e sconosciuti di scarso talento, di impicci e imbrogli, e lo sappiamo tutti e alla fine, purtroppo, siamo abituati così. Questa la sola via praticabile.
Siamo quelli che al supermercato fregano e vengono fregati sul peso di frutta e ortaggi, i soliti che cercano di entrare a sbafo in qualunque posto, non importa quale ma è bello farlo, gli stessi che sfregiano opere d’arte nei musei e insozzano i muri delle città di scritte incomprensibili, siamo quelli che votano l’amico dell’amico perché non si sa mai, perché si spera in un favore, e pazienza se a discapito di un’altro, non importa se non saremo all’altezza del compito: l’importante è tirare a campare e far fesso il nostro prossimo.
L’Italia è il paese degli affitti in nero, del magna magna sulle disgrazie altrui.
Siamo quelli che si lavano la coscienza facendosi un breve segno della croce, poco importa se non abbiamo domandato scusa, se non ripareremo mai a quell’errore.
I Giapponesi, di cui ho abbracciato più di vent’anni fa culto e cultura, usano le mascherine non per difendersi dai microbi, ma per non contaminare gli altri: è una regola civile, un atto di coscienza. A Oriente non esiste il perdono, ogni azione avrà un effetto, il pentimento è consigliato ma difficilmente saremo esentati dal pagare il conto.
Quando vedrò i miei concittadini rispettare la fila agli sportelli e ai bar, quando non saranno più impegnati nel cercare disperatamente scorciatoie per i concorsi, quando negli uffici pubblici saranno assunti impiegati meritevoli e non parenti e non si camperà più grazie all’inciucio, solo allora si potrà parlare di unità nazionale, solo quel giorno esporrò alla mia finestra il tricolore al momento ben ripiegato in un cassetto.

sabato 12 marzo 2011

PENNA ROSSA 15° episodio

A gambe incrociate sulla sedia della nonna, quella ottocento azzurra e oro, quella che ormai non si sarebbe più potuta restaurare, così come la sua illusione, Marina scioglieva i nodi di quella storia, i pochi rimasti, visto che di storia vera e propria non si poteva parlare.
Passati nove mesi e chissà quanti giorni e quante ore, stava ancora immobile davanti a quel pensiero, a quel punto di domanda, a quelle quattro righe solite, per lei mai scontate.
Era solo un modo come un altro per stargli intorno, per avvolgersi in qualcosa di più caldo.
Ma, questa volta, l’incipit e il tono vollero essere quelli di una lettera normale, una comunicazione piatta, di servizio, senza tanti singulti sentimentali e ghirigori.
Non era successo nulla di strano, niente di così eclatante. Forse, quel filo che li univa si era spezzato inavvertitamente.

Caro Davide,
Sono cinque anni, nove mesi - e non mi va più di sapere quanti giorni - che ti spio da vicino, ti osservo da lontano, ti cerco ogni giorno, e voglio e spero per te tutto il bene possibile. Ma tu guardi da un’altra parte e, se fai finta, non lo saprò comunque.
Ho cercato di rendermi indispensabile e forse per questo mi hai chiesto di andare via.
Sai benissimo che non sono la donna fragile che ti ho voluto mostrare, non sono quella che hai visto entrare quel giorno investita da una luce abbagliante, quella che è caduta ai tuoi piedi, e non per colpa degli stivali troppo nuovi e troppo alti.
Mi sono avvolta per anni nell’illusione di amarti solo per avere qualcuno da cercare, per sentirmi meno sola, per farti dire tutto quello che nessun uomo mi ha mai detto –o forse sì ma io non ho sentito-.
Ricordi quando è cominciato tutto? Ricordi come?
Era notte fonda e stavo davanti al tuo albergo. Indossavo un cappotto rosso, la mia ultima folle spesa londinese, e tu mi domandasti se avessi bisogno di aiuto.
Fai uno sforzo Davide, so bene che ricordi.
Risposi che cercavo un taxi e che avevo freddo e allora tu decidesti per qualcosa di forte e, da lì a chiedermi di lavorare per te, passarono pochi minuti, forse il tempo di guardarci ancora negli occhi.
Quel giorno avevo fatto un bellissimo intervento e avevo messo in difficoltà il relatore e tu, dalla seconda fila a destra, mi guardavi di continuo.
Forse trovavi interessante ciò che dicevo, non lo metto in dubbio.
E, comunque, non potrò mai saperlo.

Ma, questa volta, Marina non scriveva al computer.
Quelle righe erano state precedute da un rito, da una decisione forte: spedire finalmente quella lettera.
Aveva pulito e poi riempito di inchiostro rosso brillante una penna stilografica infantile, una di quelle che usava adolescente per scrivere il diario, uno dei tanti.
In piedi sul comodino, instabile, aveva preso una scatola che giaceva lì sull’armadio da chissà quanto tempo, poi, dopo un viaggio nel passato durato giusto il tempo di un paio di respiri, ne aveva tirato fuori della carta da lettere con le iniziali colore su colore, piccole, in basso a destra.
Rosa pallido o grigio chiaro?
Risolto il dubbio e bevuto del tè al limone, Marina aveva raccolto i suoi pensieri per distenderli sul foglio.
Ora che lo sguardo si era allontanato da Davide, a causa di un luccichio colorato che un piccolo specchio veneziano proiettava sulla parete, si era alzata in cerca degli occhiali.
A quell’ora e d’inverno, il buio già monopolizzava quei pochi metri quadri in discesa e, nel cuore della città vecchia, a parte il basso continuo dei motori in fuga, non si sentivano che rare voci di passanti.
E quell’altra volta, a Milano, quando stanco di camminare, la portò a mangiare un panino al lazzaretto, sotto il porticato che a pensare a quanta sofferenza ci aveva sostato, magari distesa proprio lì dove stavano seduti, Marina si sentiva morire. C’era la stessa luce quel pomeriggio di fine estate anche nella sua stanza: la sagoma buia che s’impossessa dell’espressione, non distingueva di sé altro che una debole ombra che a un certo punto svanisce, come ingoiata dal blu cobalto del cielo.


Mi ero appena laureata e, negli ultimi mesi, avevo convissuto con le tue parole, dormito con i tuoi saggi, ascoltato tutte le conferenze che ero riuscita a trovare.
Quella sera in hotel, osservai di nuovo il tuo sorriso, a stretta distanza stavolta. Il sorriso che tiravi fuori se incontravi un tuo pari, assai raro dunque. E finalmente guardai le tue mani ancora giovani: le avrei viste ancora muoversi attorno al microfono anziché a un bicchiere e le avrei anche sfiorate e magari strette.
Che cretina!


Quando eri più giovane, ti animavi di più e le domande, quelle provocatorie ti mettevano a tuo agio e quelle sorprendenti ti rendevano addirittura felice.
Ti avevo visto più volte arringare, firmare le copie dei tuoi saggi, spiegare i tuoi percorsi mentali, le ragioni di quell’ideologia, di quel momento storico. Ti ho con lo sguardo fin dove ho potuto, fin dove non era troppo rischioso incontrarti: mi facevi paura.
E mi fai sempre lo stesso effetto, nonostante tutto.Nonostante io non ti abbia mai amato veramente.

Il suono del citofono, un solo trillo e acuto e troppo rumoroso per quel piccolo appartamento e per il suo stato d’animo, la tolse da un impaccio: scegliere se piangere o fare a pezzi quella lettera e scendere a fare la spesa.
Ma il mondo esterno, che di continuo scorreva lì fuori, indifferente a quella specie di amore, aveva bussato alla sua porta.

lunedì 7 marzo 2011

8 MARZO


Italia, Marzo, anno 2011. Una donna Manager licenziata rapina sette banche al Nord: ha perso il lavoro e ha due figli da mantenere.
Roma, arrestata per aver rubato due magliette in un grande magazzino viene, secondo la sua testimonianza che non stento a considerare vera, stuprata da alcuni carabinieri e da un vigile del fuoco, e in una caserma. In un luogo considerato sicuro.

-Non so nemmeno perché io l'abbia fatto!- questo ha detto la donna a proposito del furto!
E cosa può dire a questa donna lo stato –che perdonatemi ma devo scrivere con la "s" minuscola-, cosa le può raccontare una giustizia che chissà quando si degnerà di celebrare il suo processo? E soprattutto, cosa pretende di insegnare?
Che in Italia esiste una legge che proibisce alle persone di rubare? E a chi lo proibisce?
Siamo come in guerra, costrette a venderci al nemico per un tozzo di pane, per del formaggio, per un pugno di riso.
Per secoli condannate alla sola attività di partorienti, tradite e costrette a ingoiare bocconi sempre amari, considerate sciocche o isteriche, rinchiuse in manicomio per aver detto una parola di troppo o magari per aver preteso di scegliere.
Poi,  conquistato il diritto al voto e al lavoro siamo state condannate di nuovo e a fare questo e quello, a badare al lavoro e alla famiglia e senza poter produrre fiato, magari piegate dalle botte di un marito alcolizzato, fallito e invidioso del nostro successo. E ce la siamo voluta! Così direbbe qualcuno.
Il lavoro!
Basta dare un’occhiata agli annunci per pentirsi di essere nata femmina e per trarre l'amara conclusione che niente è stato fatto. Perché tranne che per i divertentissimi annunci di procacciatori di  squillo - cui vanno bene anche  quarantenni, meglio se navigate-, per una donna che abbia superato una certa soglia di età non esistono più opportunità di lavoro. Come se l’esperienza non avesse peso, la maturità alcun senso.
E ragazze madri e donne divorziate o felicemente single, sono alle prese con affitti arrivati alle stelle -e nessuna norma che metta in galera proprietari che evadono il fisco o chi organizza aste di vendita "inter nos"!-.
Donne in lotta per un posto in asili nido stracolmi, servizi al cittadino latitanti, analisi del sangue che anche nelle ASL paghi una tombola e che, se guadagni la miseria di novemila euro l’anno, nemmeno ti rimborsano.
E case popolari nella morsa della malavita!
Vediamo la televisione e i media interessarsi ogni giorno alle adolescenti addobbate come prostitute, a ragazzotte che si lasciano comprare per cifre da capogiro da settantenni impotenti; donne che si accalcano per partecipare a film hard core e alla selezione del grande fratello –la prestazione non cambia di molto- e poi le dimenticate -perché non fanno notizia-, una schiera, un esercito di donne madri, donne single o donne nonne che in questa inaccettabile realtà si guardano attorno chiedendosi dove si trovino.
Ovviamente è sempre tutto controllo. Siamo informati su tutto e in tempo reale. Appena una notizia fa clamore si accendono i numeri verdi, e i riflettori dell’indignazione e del buon senso comune ma in questo caso non su di lei, la ladra di magliette che invece di un domiciliare è dovuta andare in galera per davvero lasciando soli i suoi bambini.
Ma alla fine tutto si dimentica e tutto passa in secondo piano, e neanche dopo un pugno di ore.  Magari dopo che, per buona coscienza, ci saremo indignati per bene postando la notizia sul web o scrivendo articoli per il nostro blog.
Noi con la nostra realtà che ci soffoca da una parte, e lei con la sua dall'altra.
Ci sarà l’otto Marzo e un altro giorno di orgoglio femminile, vedremo deputati, onorevoli e giornalisti anche sorprenderci con parole di sdegno, ma di lei, della donna arrestata per un furto da niente e violentata da quattro bastardi non resterà che in qualcuno, forse, un vago ricordo.
Come le decine di imprenditori che si sono tolti la vita, o quelli che, sempre più spesso, si lanciano sotto un treno e magari, sopravvivono.
Così come scoppiano i casi si sgonfiano.
Forse non ne abbiamo mai abbastanza.
E la coscienza, una volta al sicuro nella nostra proprietà comprata a rate, tace. 

venerdì 4 marzo 2011

PENNA ROSSA - 14° episodio


Sono tre giorni che il cielo grigio non mi dà tregua e così, come si addice alla mia indole, ho sfidato la pioggia fitta e sono andata a comprare delle rose: quelle bianche, quelle che piacciono anche a te, quelle piccole che durano tanto.
Clara, la fiorista di Piazza del Fico, mi ha detto che solo ieri sei passato a comprarne due mazzi. Mi ero raccomandata con Laura che le comprasse tutti i venerdì mattina, le avevo detto anche dove.
Se ne dimentica sempre, lo so.
O forse non erano per te? Forse le hai comprate per tua moglie o per la tua nuova amante. Beh, non ci sarebbe nulla di strano.
Non mi hai mai detto grazie abbastanza, lo sai.
Ricordi nel Kent, quando mi portasti a visitare il castello di Vita Sackville-West? Ricordi che ogni giardino era composto da diverse specie ma dello stesso colore? Vorrei sentire ancora quel profumo.
Quel giorno ci illuminava un sole estivo e il vento, che soffiava forte ad alta quota, faceva correre a perdifiato le nuvole, cambiandone di continuo le forme e noi, incapaci di immaginare ancora personaggi fantastici, non potemmo fare a meno che tacere ancora e camminare, senza meta, senza una guida.
E passeggiando e immaginando le feste di quei magnifici intellettuali, le parole che Vita e Virginia si scambiavano sotto quello stesso cielo, perdemmo la cognizione del tempo e ci trovammo seduti ancora accanto, che ci guardavamo entrambi dentro. Allora io scoppiai a ridere, ancora non so perché, credo per la troppa felicità e tu mi seguisti, senza pensarci neanche, in un guizzo inaspettato di gioia e stupore. Mai più rivisto.
Dove l’hai lasciato, Davide? A chi?
Poi, riprendemmo il cammino.
Giunti al giardino bianco, per me in assoluto il più bello, mi sfiorasti appena la mano, come sempre con aria distratta. Tu somigli a quel papavero, dicesti, ma subito cercasti di fermare le parole, di far sì che non mi raggiungessero, e cambiasti discorso. Ma non importa, è stato da allora che ho cominciato ad appoggiare fiori sulla tua scrivania.
La prima volta sorridesti oppure no? Comunque hai sempre avuto l’aria di non farci caso.
Sei sempre così preso da te stesso.
Ma almeno Laura compra l’inchiostro giusto? Sa che alla tua destra vuoi l’azzurro e il nero e a sinistra il rosso scuro e il viola?
Ha imparato che nel cassetto centrale deve disporre la carta su tre file e sempre dieci fogli alla volta e non di più?
Prima di andare via provvede a svuotare il tuo cestino della carta?
Ora posso dirtelo, Davide: ho sempre guardato quelle copie, una ad una. Svolgevo quei cartocci stretti e subito cercavo il tuo odore, un’impronta.
Te l’ho già detto che amo la tua grafia.
Somiglia a quella di mio padre –sì, lo so, gira che ti rigira arriviamo sempre all’Edipo- .
Mi ci avvolgevo dentro e seguendola, tratto dopo tratto, mi sembrava di stare su una giostra.
Mi girava la testa.
Ti amo.

Marina non piangeva. Ascoltava il basso continuo del traffico in corsa, la solita fiumana di anime certe, di personalità diverse, cuori e pensieri, paure.
Era stanca di rincorrere un’idea, di mettere assieme brevi ricordi, di guardare e riguardare quelle poche immagini e sempre le stesse. Ma sapeva – e lo sapeva con certezza – che tolto di mezzo quell’amore a senso unico, cancellata quell’immagine avvolgente, quell’uomo dalla personalità ai suoi occhi incomprensibile e che lei sola aveva creato, ogni cosa sarebbe sfiorita per sempre.
Sentiva che, in quel mondo globale di sconosciuti e di viandanti frettolosi, niente più sarebbe stato lo stesso. Il cielo, il fiume lì davanti, Piazza Navona e l’intero creato avrebbero perduto ogni senso.
Il giorno nasceva per lui e così la notte.
C’era troppa brutalità in giro per poterla guardare di nuovo.
E Marina mise l’acqua sul fuoco e arrotolò i capelli sulla nuca, in un nodo, guardò Pepe che faceva le fusa.
Tutto continuava a vivere nonostante lei.
Tornò al computer e non rilesse nemmeno quelle poche righe. Non salvò l’e mail e accese la luce. Le ombre si spandevano sulla città e sul suo piccolo mondo troppo romantico.
Davide, a pochi passi da lì, stava davanti al camino, ascoltava la pioggia e il respiro di Freud.
Le mani forti sui braccioli di pelle scura, lasciò la poltrona e fece appena tre passi, si alzò leggermente sulle punte cercando di tendere al massimo la schiena troppo stanca e curva. Prese un pesante volume.
(Foto Man Ray "Roma più bella")