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venerdì 27 aprile 2012

Diario di Lola, quindicesimo giorno, rivelazioni


Foto: Eugene Recuenco

Devo partire dal principio.
Posso provare a raccontarti queste ultime ore solo come se non riguardassero me -per non inorridire ancora e non ricominciare a tremare.
Facciamo che questa è la trama di un film, un horror ben scritto e dalla regia superba, possibilmente pieno di sottotrame e implicazioni psicoanalitiche. Sì, diciamo che questa storia non riguarda me ma un’altra, un personaggio dai tratti un po’ folli. Questa trama è qualcosa d’incredibile e che non appartiene più solo a questo mondo.
E tu. Tu, in tutta questa vicenda, sei la sola connessione con il reale- sapessi almeno qual è il reale, poiché l’incipit si trova in un pomeriggio di circa tre mesi fa che ancora non riesco a ricordare, soffocato da una coltre pesante di sensi di colpa e rimorsi.
Ricominciamo da dove ho lasciato, e mentre fermo la paura che ho ancora nelle gambe, provo a riflettere un po’.
Perché sai, una storia come questa va oltre l’algolagnia, l’animal play, l’abrasione o il pissing, tutta roba comune a guardarla da qui, anche se a parlarne con il salumaio sotto casa, mi farebbe rinchiudere in una buona casa di cura.
Ti prego però, non fermarti alle apparenze come tutti, non guardare in alto, non sbuffare e non scuotere la testa pensando anche tu che io abbia solo bisogno di un buon dottore.
Non siamo ancora alla fine.

Io e Vince ci siamo fermati per un po’ in spiaggia dove ho raccolto dettagli sul mio primo incontro con Max mentre lui, guardando l’orizzonte, ha fumato un paio di sigarette forti. Poi gli ho domandato di condurmi lì.
Il cancello della villa era aperto.
Giovanni, il giardiniere, nemmeno mi ha salutata. E pensare che quando io e Max ci andavamo nei fine settimana, mi faceva trovare iris e bocche di leone in ogni stanza, e arrossiva sempre quando m’incontrava in giardino.
Quando sono scesa dall’auto, sulla mia testa non c’era il glicine in fiore ma il suo scheletro ritorto, addormentato e grinzoso. La fontana era silenziosa e il vento di scirocco faceva cantare le foglie che si sollevavano danzandole intorno. Tutto era tramonto. Anche gli occhi di Vince che mi hanno tenuta al guinzaglio sino alla porta.
Arrivata in cima alle scale, ho guardato in su per cercare il viso della donna e della bambina, esattamente come la prima volta, tanti anni fa.
Lalama ha aperto il portone senza bussare. Conosce già la strada, ho pensato, conosce la casa, sa dove teniamo nascosta la chiave, sotto il quarto vaso di gerani, sulla destra, il terzo dal basso sulla scala di pietra.
Mi hanno accolta buio e polvere. Mi ha accolta una stretta potente alla nuca e subito il marmo gelido sotto le ginocchia.
Non potevo chiudere gli occhi: perdermi il suo sguardo sarebbe stato un delitto. Vince, sopra di me mi toglieva tempo e respiro.
È stata una tortura lenta e struggente, come se non ci fosse nient’altro da dire, quasi ci fossimo accordati prima sul da farsi, per non perdere tempo, per non avanzare stupide scuse  che tanto non servono a niente.
Quando ha finito, mi sono accorta che il mio viso non era bagnato e neanche il tailleur. Eppure l’avevo sentito tremare a lungo e mormorare a mezza bocca qualcosa, forse il mio nome.
Ma non era ancora sazio, mi ha detto.
Io indietreggiavo mentre lui si teneva allacciato al mio sguardo, come nel preludio di un tango.
Ci hanno accolti il grande tavolo di legno che tintinnava di coltelli e pentole, il marmo freddo del lavello, la cantina buia dal sapore d’insaccati e sughero. La scalinata, su cui erano stati abbandonati lenzuoli bianchi e vecchie tende, è stata per un po’ la nostra alcova dorata. Poi il grande bagno, dalle cui imposte sconnesse filtravano lame di luce impolverate, ci ha guardati giocare a chi resiste di più, in bilico, uno nell’altro, sfiniti, quasi alla resa.
Vince si è allontanato di scatto ed è scomparso nel buio.
Ho sentito l’odore della benzina dello zippo e il suo aspirare profondo.
Qui potremmo vederci quando vogliamo, ho detto rialzandomi dal marmo opaco e massaggiando le ginocchia un po’ livide. Max ormai non ci viene più, ho aggiunto dalle scale.
No, ha risposto lui, dal piano di sotto. Sembrava seccato.
L’ho raggiunto unendomi di nuovo a lui in un abbraccio felice.
Si è allontanato. Ha aspettato alcuni secondi, assaporava il tabacco.
Poi, ha attaccato uno dei suoi sermoni sul fatto che prima devo ricordare, che non posso rimanere in questo limbo quieto, che quest’esistenza che non è né qui né altrove deve finire.
Aveva già indosso i suoi pantaloni dalla piega perfetta e cercava il resto della sua roba, scartando con malagrazia i miei indumenti e tutto quanto gli capitava a portata di piedi.
In salone ha acceso la lampada a stelo, quella vicino al divano. Con calma, durante una pausa che a me serviva per ragionare, si è seduto, mostrandomi dei bei piedi lunghi e ossuti, come quelli di un cristo in croce, abbastanza larghi per immaginarli puntellati da chiodi.
Nel silenzio ho sentito la sua bocca emettere volute di fumo.
Vieni con me Lola, mi ha detto alzandosi e prendendomi le spalle poi, di fronte alla mia espressione sorpresa si è allontanato di qualche passo ed è rimasto di schiena, come se quella fosse una rivelazione grave più che una richiesta assurda.
Non ho risposto.
Sempre da lì e con un tono ancora più grave, ha dettato le sue regole. Non devi più scrivergli, ha detto, né devi restare legata a questa casa e a Max. E me l’ha ripetuto lentamente e più volte perché lo tenessi bene a mente. Cambiava spesso intonazione fin quasi a cantarle le parole, con il suo caldo accento che sa di mare.
Basta Lola, mi ha detto, non devi più dare ascolto a quel tizio che continua a chiederti di parlargli, ti fa solo del male. Questo mi ha detto. Testuali parole.
Avrei ceduto, stavo per dirgli di sì, stavo per dargli la mia parola.
Tu lo sai, forse lo hai capito ormai, che è questa l’unica condizione che mi fa sentire viva.
A me non importa nulla dell’autonomia, non l’ho mai voluta né cercata. Forse sarebbe stato tutto diverso se al posto di Olimpia avessi avuto una madre grassa e calda a rimboccarmi le coperte ogni sera. Ma questi sono elementi che conosci bene, dettagli, cause profonde che il mio analista e io abbiamo analizzato fino alla noia.
Ma la cicatrice resta e io, il caldo lo sento solo così: legata.
Inutile ritornarci sopra perché non ha più molto senso.
Vieni con me, mi ha ripetuto Lalama guardandomi con occhi tristi.
Per un attimo mi sono detta che sì, che in fondo Max nemmeno mi vede più. L’avevo lasciato che dormiva riverso sulla scrivania con una bottiglia accanto, il portatile ancora acceso e la stilografica e il quadernetto nero sotto la mano.
Sono mesi che gli parlo e lui si volta altrove, lo sai, che piange per un nonnulla, che a tavola nemmeno mi domanda di passargli il pane, che non sente le mie chiamate, che non mi saluta quando esco, che permette a sua madre di fare la spesa e cucinare al posto mio.
Come ho fatto a non capirlo prima... avevo proprio bisogno che qualcuno mi ci mettesse la faccia sopra perché tutta questa storia orribile trovasse un senso. Ma certe cose si rimuovono. È istinto, sopravvivenza.
Allora sono corsa da Vince e l’ho abbracciato a lungo, ed è stato così che mi sono accorta che un gelo potente lo teneva assieme.
Mi sono allontanata da quel corpo in preda al terrore: era come se un cadavere, scivolato via da una bara, mi fosse caduto addosso all’improvviso.
Avanzando verso di me, Lalama continuava a ripetermi supplichevoli vieni qua bambina, non fuggire via, non avere paura. E il suo viso, sempre più pallido, aveva un sorriso che non mi convinceva per niente, e le mani, più ossute e diafane, sembravano aver perso la forza di pochi minuti prima.
Correvo, e lui dietro di me, ma le stanze non rimbombavano dei nostri passi e i tacchi sembravano non toccare terra e anche le pareti adesso molli, si aprivano al mio passaggio per ricomporsi un attimo dopo.
Come se entrambi non fossimo che cupe essenze di una non vita, abbiamo continuato ad andare da una stanza all’altra in preda al panico.
Poi si è messo a giocare, allegro come un bambino, con una risata infausta sulla bocca.
Tra me e Lalama, si sono messi la dormeuse con drappo e poi il grande letto e il grande orologio e il letto piccino, e il pianoforte muto.
Quando mi ha raggiunta, ero quasi alla porta.
Tanto nessuno può sentirti, Lola. Mi tratteneva per il braccio. Lo capisci Lola? Stringeva, ma non sentivo dolore.
Io sono morto, Lola. E anche tu.

martedì 24 aprile 2012

Teresa e l'informazione noiosa





Ho passato molte ore nel ricercar notizie
eppure non mi pare di vederne di primizie.
Si sa che il Cavaliere è un mago nel deviare
lo sguardo della gente e di tutti l’attenzione.
E allora eccolo lì il bla bla bla quotidiano
e il voyeurismo italico soddisfatto con il nano.

La Ruby poi si sa, è bella e sbarazzina
e in tanti la vorrebbero l’astuta ragazzina.
La postano e ripostano riempiendola d’insulti
eppur cosa darebbero per farci giochi adulti.
E anche la Susanna che fa tanto la morale
si rode dall’invidia così da sentirsi male.

Soltanto Giovannino, lo scemo del paese,
arringa in osteria di Ruby le difese.
Lui forse è un vero uomo e l’unico sincero,
ma qui sei sempre in torto se dici in faccia il vero.
Devi star sempre dietro all’opinione altrui
o rischi di passare anni veramente bui.

Ma da certe notizie si può anche imparare
un termine di moda come quello di “briffare”
un termine che usava la Minetti con le amiche
per insegnare loro come fare le gran fighe,
per avvertirle che, a cenar dal Cavaliere
si vedevan certe cose non... da persone serie.

E poi c’è la Belèn che ha cambiato fidanzato,
e poi l’Ombretta Colli che fa gite in motoscafo,
e tutti polemizzano con Gaber che purtroppo
nemmeno può rispondere, datosi che è morto.
E sempre per parlare e non lasciare spazio
A un ego piccolino che vuole esser sempre sazio.

Intanto Rosy Mauro siede ancora al Senato
come se quel fattaccio non ci fosse proprio stato.
A dar retta ai giornali noi stiamo andando a fondo
ma c’è un’economia che vende in tutto il mondo,
luxottica ad esempio è un titolo in rialzo
allora non capisco chi è che dice il falso.

Io penso che i giornali debbano iniziare
a mettere al lavoro chi sa come pensare.
Repubblica par tutto un pettegolezzo
come se di certa roba non sentissimo l’olezzo.
Io credo si dovrebbero lanciare delle idee
Scovar nuovi talenti e creative panacee.

Certe cose le sappiamo, ormai son più che chiare
non c’è poi ‘sto bisogno di starle a ribadire.
E intorno a me non vedo solo del pattume
ci sono belle teste e non solo sudiciume.
Mostrando anche ciò, che scavando c’è di buono
magari uno si abitua, e diventa galantuomo.

L’imitazion, si sa, va bene ormai è di moda,
se azzecchi una formula dietro hai la coda.
Allora che si usi un pochino più la testa
e si parli un po’ di meno gente disonesta.
Il guaio è che alla fine siamo tutti ancor primati
e davanti all’imbroglio restiam tutti imbambolati.



lunedì 23 aprile 2012

Il Sadomaso che piace ha il sapore dolciastro di un gelato alla Vaniglia


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Sarebbe notevolmente più semplice scrivere ciò che il sadomasochismo non è, piuttosto che il contrario. E anche se le definizioni mi stanno strette più di un busto contenitivo, mi rendo conto che ormai sono d’obbligo, così come le semplificazioni e le riduzioni a manuale d’uso.
Ed è per me urgente fare alcune precisazioni, soprattutto quando il mercato dell’editoria –quello che conta- entra con forza in un ambito come questo, spacciando storie certamente ben scritte come “Fifty shades of Grey” dell’inglese E. L. James, per ciò che non sono.
Di luoghi comuni ce ne sono troppi e la cattiva letteratura, appunto, ha dato una buona mano affinché si radicassero come gramigna, per creare confusione in un campo già difficile da conoscere se non praticato a dovere e di persona.
Le solite immagini di donne in tute di latex, bustino e frusta, e di vergini incatenate su tacchi vertiginosi invadono il web, ma le risposte esaustive, in effetti, scarseggiano.
Il motivo c’è ed è la vastità della materia, di gruppi, di categorie e sottocategorie di cui la “parafilia”è composta.
Ciò che non si sa, per esempio, è che in questo tipo di attività, e nella maggior parte delle sue sottocategorie, il coito è quasi del tutto escluso, così come l’assunzione di alcol e droghe: lucidità e consensualità, sono alla base di questa pratica.  Di questo, quelli che nutrono il proprio immaginario erotico di festini con champagne e donnine nude, sono del tutto all’oscuro, e forse a ragione, visto che vanno in cerca solo un colorito preliminare a una buona scopata casereccia.
Ma allora vi prego, chiamiamo le cose con un altro nome.
Sculacciate (spanking), cravatte eleganti che legano magri polsi femminili, stivali alla coscia e guêpière stile bordello fine secolo, affollano i sogni dell’italiano medio stanco del solito menage quotidiano. Questo però è carnevale e luogo comune. Il cesso di un bar di periferia, e un corpulento signore sconosciuto che la slave deve servire per ordine del suo Master, sono sicuramente scenari più indigesti al grande pubblico, ma certamente più vicini alla realtà.
E si ritorna al punto di sempre: realismo o favoletta? Marketing o verità?
Sono più vicine alla realtà del Sadomaso le orge praticate da Carlo e dettagliatamente descritte da Pasolini in Petrolio, o la storia di una casta ragazzina istruita dal fichissimo Manager cinquantenne che abita l’attico di lusso?
È ovvio che il pubblico propende per una visione edulcorata della realtà, ma sfatare falsi miti e strappare “veli di Maya” dagli occhioni già troppo addolciti da romanzetti rosa, mi rende “sadicamente” felice.

Il sadomasochismo è un rapporto consensuale (SSC- sicuro, sano e consensuale), in cui il Master, il dominatore, conduce la Slave alla scoperta del piacere attraverso pratiche di sottomissione. Più la Slave è in grado di godere delle sue attenzioni spostando in là la soglia del dolore, più il godimento del Master sarà supremo. In questo gioco, però, e anche qui l’ignoranza la fa da padrona, non c’è violenza né esiste un vincitore anzi, spesso e volentieri è proprio la o il sottomesso a creare dipendenza nel dominante.
Le pratiche usate durante le “sessioni” –così si chiamano gli incontri S/M- sono tantissime e tutte hanno un nome e una ritualità da rispettare, come si trattasse di un linguaggio universale in grado di mettere in contatto gli appartenenti al Club in qualunque parte del mondo essi si trovino.
E tra Spanking  e Altocalciphilia –passione per tacchi vertiginosamente alti-, ci sono pratiche che disgustano i più ma che, vi piaccia o no, vengono praticate nella realtà. Il “Pissing”, urinare sul partner o, spostando l’asticella più in là, fargliela bere, o lo “Scat”, che non è l’improvvisazione vocale nel jazz ma l’imposizione delle proprie feci al sub, fanno parte del gioco né più né meno che elegante foulard di Hermès sugli occhi.

Ridurre il Sadomaso alla semplice legatura alle sbarre del letto con manette dorate è un falso, nemmeno d’autore, buono per chi confonde ciò che è di lusso con ciò che è cafone.
Ma talvolta è solo una questione di sfumature, e le sfumature, si sa, sfuggono ai più.
E nella nuova tendenza del sadomaso soft –definizione ridicola in una pratica che non ammette confini a parte la “safe word”-, ci si dimentica volutamente di pratiche di base magari poco trendy, come la flagellazione delle piante dei piedi, la costrizione dei genitali, l’Armpit e l’Anal Worship -adorazione delle ascelle e dell’ano- o la pratica della castità –tortura di massimo dolore per i vivaci sub-.
Insomma, il Sadomaso vanta una gamma di giochini che le casalinghe divoratrici di romanzi rosa e i signori alla ricerca di input eccitanti, troveranno ripugnanti.
E posso anche capirli. Ma allora facciamo le cose per bene e non confondiamo il falso con l’originale.
Se al Sadomaso togliamo il rapporto empatico e psichico, il legame mentale e sentimentale tra Master e Slave, se lo decontestualizziamo da un passato –rapporti familiari, background culturale, educazione-, se lo allontaniamo dal presente –responsabilità lavorative e familiari, pressioni psicologiche e contesto sociale- gli leviamo la poesia da cui, in definitiva, esso nasce.
Farsi punire e infliggere punizioni sono necessità dolorose che hanno avuto un percorso mentale preciso e sono giunte al punto in cui devono essere a tutti i costi accontentate, che lo si voglia oppure no.
Essere sottomessi, spogliarsi finalmente da ogni responsabilità, vuol dire“affidarsi” completamente all’altro, darsi generosamente alle cure amorevoli del Master o della Miss, alla sua esperienza e all’equilibrio che li contraddistinguono.

E anche sui “personaggi” che animano questo vasto mondo occorre fare chiarezza e sfatare un po’ di luoghi comuni.
È proprio chi nella vita detiene il potere, il forte, il capo d’impresa, il comandante, che nella sessione si piega e ha bisogno di lasciarsi andare. Sono uomini e donne di potere che domandano in ginocchio il bavaglio, che vogliono essere puniti per aver licenziato, umiliato e offeso, o semplicemente perché sono troppo seducenti. Il Master non è mai arrogante e pieno di sé ma è un placido ed equilibrato uomo medio, calmo e pieno di buon senso, un creativo che ha viaggiato molto, forse, e conosce a fondo le filosofie d’oriente. In generale, è proprio quello che non diresti mai.
Ma oggi impera la necessità di accomodarsi tra le proprie basilari e talvolta misere fantasie e credere che tutto il mondo finisca lì, non troppo oltre la punta del proprio naso, per credersi al centro della vita.
Di sicuro, pensare che quest’antica pratica oggi così di moda, si riduca a una sculacciata, lascerà dormire tutti sonni più tranquilli. D’altra parte, anni di prigione tra Saint – Lazare e il manicomio di Charenton-Saint-Maurice non sono bastati al buon vecchio Marchese De Sade a farsi perdonare.
Non mi meraviglia, che ciò che oggi ha successo abbia, ancora una volta, il sapore dolciastro e poco autentico di un gelato alla Vaniglia

martedì 17 aprile 2012

Teresa e la Lega alla resa.

Un'altra lunga settimana di roba da non credere.



A cercare le notizie che ci faccian sbellicare,
qui sull’Ansa o sul web, ne troviamo certo un mare.
Ci son quelle che procurano un’alta depressione,
ci son quelle che ti mettono addosso il malumore,
quelle del ritorno del fuggiasco di Hard-Core,
e quelle che vorresti esser nato inquisitore.

C’è chi solo per parlare paragona Nilde Iotti,
a una che “per culo” e per storie tra picciotti
è assessore in Regione: una tal Nicol Minetti.
Ma c’è anche Alì Babà e i Padani ladroni,
che dopo averci rotto con la storia dei terroni
si fottono diamanti, soldi e grossi lingottoni.

Ma non finisce qui, c’è l'astuto Formigoni
che inventa certe balle da far cascar “maroni”.
Le sue gite fuori porta, allegro e in comitiva,
suonan così comiche che mi perdo pur la rima.
Eppure a Capodanno io non spendo così tanto:
sol del pesce surgelato, taralucci e del vinsanto.



Ma sì, ma che c’importa siamo all’avanspettacolo,
che a ricordare Silvio ci pare un gran miracolo.
È forse che io sono diventata proprio vecchia,
eppure la realtà più l’ascolto e più mi agghiaccia.
Mi par proprio di vivere in un circo itinerante
con equilibristi in bilico sulla vita della gente.


E i giornali ed i media cedono all’opportunismo
perché il parlare di suicidi, fa tanto garantismo
ma in tanti han domandato un tempo il loro aiuto,
ottenendo forse un grazie, un “a presto” ed un rifiuto.
Il fatto è che si parla e si fa anche gran festa,
per ottenere un titolo da perdere la testa.

Perché la demagogia sta sia a destra che a sinistra,
se ne ammala pure comico ed il giustizialista:
perché quando si parli di quattrini e di potere,
nessuno che si scomodi ad alzare il suo sedere.
Il male è dappertutto e noi stiamo a guardare,
facciamo al massimo "due passi" per manifestare.

E i ladri ancor stan lì e li lasciano stare,
intanto Equitalia fa ciò che più gli pare.
Lo Stato mette mano nei conti della gente
di chi zitto lavora e non ha rubato niente.
Andate a fare i conti in tasca ai parlamentari
ai lobbisti, ai quattro furbi e ai sottosegretari.

Dovete prender soldi da quei quattro farabutti,
e metterli in galera perché han rubato a tutti.
E non parlate più di equità sociale,
ci son ville milionarie ancor da dichiarare.
Due passi fate avanti e quattro indietreggiate,
per non scontentar nessuno né il collega né l’abate.

E ora ci voleva pure il Grillo parlante
a confondere di più la testa della gente.
Nessuno che rinunci ai propri emolumenti,
questo ci vorrebbe per schiarir le nostre menti,
un gesto infine eroico e di purificazione
andare tutti via rinunciando alla pensione.

venerdì 13 aprile 2012

Diario di LOLA, quattordicesimo giorno, sabbia

Foto di Eugene Recuenco
Sì, deve essere per forza un diario il quadernetto nero che Max tiene chiuso nel cassetto centrale della sua scrivania. È strano che scriva a mano, è strano che per farlo abbia comprato una stilografica e che ci si accanisca sopra anche per tutta la notte.
Che io sappia, Max non ha scritto nemmeno un biglietto di auguri in vita sua, nemmeno il necrologio del padre.
Comunque, ha ripreso a dirmi del lavoro mentre si rade e si fa la doccia. Amo stargli dietro mentre in pigiama mi chiede consigli e fa appello al mio pragmatismo. Il fatto strano è che appena apro bocca si volta dall’altra parte, mi dà le spalle all’improvviso o riprende a fare qualcosa che aveva lasciato a metà prima di rivolgersi a me.
Ti ho già detto che è stata una folata di vento a farci incontrare? Ma quella volta in Duomo fu solo una reciproca simpatia e lo scambio dei numeri di telefono poi, tre mesi dopo, l’invito per un fine settimana da lui.
Dieci anni fa mio padre si rivoltava nella tomba già da un pezzo e io mi occupavo quotidianamente di rimuovere ricordi dolorosi distraendomi con amori poco stabili, storie che duravano un pugno di giorni per lasciarmi senza parole per un po’, stordita da tanta originalità e autocontrollo. A certi giochi di ruolo mi avevano iniziato uomini maturi, vecchi amici di mia madre o ex professori di università. Uomini che profumavano di tabacco di qualità ed esperienza e che mi accoglievano in lussuose garconniere piene di segreti e dove, singolarmente o a piccoli gruppi, si prodigavano a trasmettermi consapevolezza e autocontrollo, la filosofia che c’è dietro certe pratiche, e il dolore, che dosato con cura, arrossa il viso e l’anima.
Non poter deviare né cambiare il corso degli eventi a meno di pronunciare la “safe word” stabilita è qualcosa che mi provoca uno stato d’animo speciale. Lasciarmi andare a occhi chiusi alla cura del Maestro, mantenere la calma e darmi da fare a ricacciare indietro risate e lacrime, mi calma. E poi, se mi spetta il dolore, allora meglio sceglierne uno necessario, una danza al massacro che si consuma in un orgasmo anziché nell’abbandono improvviso o nel tradimento.
Forse ci si deve sposare solo da vecchi, quando farsi compagnia diventa una necessità impellente e andare altrove non ha più senso.
Adesso appoggi la schiena da qualche parte e ti fermi a pensare, lo so. Tua moglie che sgambetta per casa e si fa qualche scatto da inviare a chissà chi non te lo immagini neppure, vero? Lei che parla a uno sconosciuto come io faccio con te non ti sembra leale, no? Lei che sfoglia riviste femminili e si accomoda addosso delle scuse per giustificare così il fatto che non la tocchi più ti fa orrore. Preferiresti che fosse lei a sbatterti in faccia la sua indifferenza anziché condannarti a fingere.
Ma sono problemi tuoi.
E alla fine sei tu che vuoi che ti dica di me. È la tua voce che m’invita di continuo a non fermarmi, come se questo mio andare avanti e indietro nel passato servisse a colorare di nuovo la mia realtà blu notte.
Comunque, dieci anni fa non pensavo certo al matrimonio e l’invito di Max aveva tutta l’aria di una trappola.
Sicuramente era un maschio alfa resistente agli urti eppure già me lo vedevo ingobbirsi, anno dopo anno, a far di conto. Mentre le hostess gesticolavano qualcosa, io contemplavo il mio futuro martirio: le ciabatte ai piedi la domenica mattina, il ragù in pentola e la santa messa sparata a tutto volume dal televisore. Sapevo che presto o tardi me lo sarei trovato davanti ubriaco che mi confessa la storia d’amore con la cameriera moldava, con la mia migliore amica o, come luogo comune vuole, con la segretaria ventenne.
Presentivo che un giorno avrei visto mia suocera ficcare il naso nei miei cassetti, tra la biancheria ripiegata con cura, i miei ricordi, il mio passato aberrante, le mie crisi depressive e i tranquillanti.
Anche lui mi avrebbe preferita con i capelli sciolti, un sorriso appagato e un figlio tra le braccia. Sapevo che neanche Max si sarebbe rassegnato al destino che ho scelto per me.
Non avrebbe accettato di vedermi entrare in banca nei miei tailleur dai colori improbabili e il rosso vermiglio alle labbra. Avermi sempre lì davanti con il mio sorriso di sfida e i capelli raccolti da fermagli appuntiti. Non facevo né per lui né per il suo lavoro.  E poi non si sarebbe mai adattato a certe mie manie e riti: il silenzio, l’ordine maniacale, il vuoto da creare dove possibile per eliminare l’infausto peso del passato. Mi avrebbe chiesto calma e tranquillità e non avrebbe mai capito la mia necessità di superare il limite, come se quello spostare l’asticella più in là fosse per me l’unica via di salvezza.
Per tutto il volo non feci che pensare a come non dare inizio a quella storia. Ero pronta a buttarmi giù anche senza paracadute pur di non spendere male i miei anni.
Invece, quel giorno di dieci anni fa Max se ne stava in un angolo dell’aeroporto con addosso un’inaspettata espressione severa.
Solo di tanto in tanto guardava il Gate ma leggeva con più interesse il giornale. Qualunque fosse il quotidiano che teneva tra le mani, gli dava un tratto così virile da sembrarmi irresistibile. Non muoveva un muscolo e l’idea di farsi avanti e venire lui più vicino all’uscita, non lo sfiorò un solo attimo.  
Rimasi a spiarlo tra decine di teste che andavano alla ricerca di qualcuno. Lui attese che gli fossi a un passo per alzare lo sguardo, prendermi per la nuca e assaggiarmi, a lungo e in profondità, come solo un esperto assaggiatore di baci sa fare.
Per tutto il tragitto, che andava in direzione contraria alla destinazione decisa, Max non disse una parola. Di tanto in tanto si voltava a guardarmi con un’espressione neutra.
Io intrecciavo la frangia sottile della sciarpa di seta e contavo le linee tratteggiate sull’asfalto.
M’incantarono la luce, e la costa che si apriva come uno sbadiglio pigro subito dopo una morbida curva, e restammo almeno un’ora distesi da qualche parte sulla sabbia ferrosa e caldissima.
C’è una foto in cui Max, curvo sui pantaloni arrotolati, cerca conchiglie e l’incipit più giusto. Ma quello non era ancora il tempo giusto: glielo suggerì, forse, la sabbia che faceva scorrere tra i pugni chiusi.
Scesa dalla due cavalli mi trovai sotto un glicine in fiore che si arrampicava, con braccia magre e agili, fin sopra la tettoia e il vetro smerigliato del portone. Il giardino selvaggio e incolto, originariamente piantato all’inglese, aveva usurpato il vialetto e parte della scalinata. La fontana con cupido ammaccato restava muta. L’aria era ferma, solo qualche auto rallentava al semaforo davanti alla villa e ripartiva.
I nostri passi si mossero insieme e sentii le loro voci diverse, una sicuramente baritonale e severa, l’altra indecisa, in affanno dietro la falcata più lunga.
Mi bastò una pressione minuscola della sua mano ampia al centro della schiena per passare tra i due leoni di pietra e arrivare al portone.
Max suonò il campanello. Lo faceva per mandare via visitatori sconosciuti, profughi in fuga, mi disse, ma secondo me era per scacciare gli spiriti, avvertirli e domandare permesso. Attese, e in quell’attesa io rabbrividii al pensiero della loro possibile risposta.
La porta cigolava -com’è giusto che sia-, guardai in alto per accertarmi se una donna dal volto opalescente, o una bambina con una palla rossa tra le mani, non fossero già lì in finestra a osservare, liete di poter assaggiare il nostro sangue.
Dopo la soglia mi accolsero buio e polvere e un abbraccio atteso, caldo e denso. Mi accolsero le sue parole sibilate così nette da suonare chiare come ordini. Le mani lisce che andavano ovunque per calcolare la mia resistenza già blanda e molle.
Non ti muovere, mi disse, e accese la luce.
Poi iniziò a pronunciare il mio nome in ogni respiro, lasciandolo ondeggiare tra i miei poco convinti “no, ti prego”. Ci sostenevano il marmo freddo e i divani, la dormeuse con drappo, lo specchio a parete, il grande letto a baldacchino e quello piccolo, l’armadio dalle ante sconnesse e la grande pendola in salone, le scale impolverate e il pianoforte a coda. Le sue mani forti strattonavano il mio corpo  da un piano all’altro: nessun posto era mai quello giusto, nessuna posizione quella più adatta.
Carezze rumorose venivano giù con forza. Carezze che variavano secondo l’apertura della mano e l’intensità del gesto: sibilanti o sorde.
Lasciò vibrare la sua nudità nel buio. Dal vecchio pianoforte scordato, tirò fuori accordi complici,  grati al mio piacere mai sazio, a quella spregiudicatezza che solo chi non ha nulla da perdere può esibire.
Non posso resistere all’uomo che conta denari e cerca abbandono, che calcola interessi e perdite e vuole l’oblio.
Dare piacere la mia missione e avrei seguito Max ovunque. L’ho fatto, e mi sono persa, e ora navigo a vista in un paese di ombre, dove i suoni sono densi e io non riesco a togliermi quest'abito di dosso, dove le persone non mi ascoltano né mi parlano.  
Anche stavolta la scogliera aveva sbadigliato al nostro passaggio, mentre in silenzio mettevo in fila i ricordi e Vince le cassette.
Ci siamo fermati prima della curva, prima dell’alto cancello e del viale.
Sono rimasta davanti all’orizzonte sotto il cielo plumbeo.
Vince e la sua faccia strana si guardavano attorno. Cercavano, come per abitudine, l’impronta del pericolo e il profilo ambiguo dell’assassino. O un’ombra rapida, il guanto nero, il telefono a gettoni con la cornetta penzoloni, la finestra che scricchiola, il prete o la vecchia signora.
Vince mi lasciava lì a raccattare particolari, a mettere il nastro indietro e guardare tutto all’incontrario, come se lì, tra quelle immagini potessi trovare la scena mancante, l’episodio che mi aveva portata in un mondo all’improvviso così distante. In una vita tutta bisbigli, accanto a un marito troppo distratto che non dorme quasi più, si trascura e dimagrisce a vista d’occhio.
Lalama, ha sollevato un paio di volte lo sguardo per riabbassarlo paziente. Non so nemmeno di che colore ha gli occhi. Non so quale sia il suo intercalare.
So che porta calze dai colori bizzarri e viene dagli anni ottanta, che fuma sigarette che fanno rumore anche nei sogni e che si è offerto di indagare per me su una donna fantasma.
Allora portami alla villa!, gli ho detto voltandomi assieme a una folata di vento.
Ha acceso una sigaretta e mi ha anticipata allo sportello.
Siamo partiti con calma.
Dietro la curva, il cancello della villa era aperto.










mercoledì 11 aprile 2012

Teresa qualunquista

Esser nata qualunquista mi darebbe almen la gioia,
di non sentire il peso della mia buona memoria.
Io c’ero, per l’appunto, sotto l’hotel del “fu” Bettino
a lanciare monetine e a spianare un buon cammino.
Allora ero ragazza forte, giovane e ottimista,
ma oggi vorrei proprio essere nata qualunquista.



Non so se anche voi vi sentite un poco afflitti
da questo andare avanti in un clima di conflitti,
e in questo quotidiano di scandali e tangenti,
io sento forti brividi e mi batton pure i denti.
Non so quale sarà il nostro prossimo futuro
ma in questo clima qui io non riesco a tener duro.

Meglio allor parlare di passioni passeggere,
di trasgressioni piccole, sottili e ahimè leggere,
quelle di cui tanti sembran proprio aver bisogno
ma che si risolvono in un solitario sogno.
In un infantile andare su e giù con la manina
che ci lascia poi così: soli e forse più di prima.

Mi diceva la Susanna che sta sempre lì a chattare
che in soli sette mesi si è data un gran da fare.
-Il fatto è che sul social siamo tutti dei gran fighi
ma poi a tu per tu siamo vigliacchi e anche pigri!-.
Lo stesso accade quindi con i fatti di Governo
di cui tanto parliamo per restar poi nell’inferno.

Non è male, dice lei, aver l’amante virtuale,
ti distrae per un po’ ma senza farti male.
Lo stesso che postare frasi sulla rivoluzione
ma poi starcene quieti a guardar la televisione.
Forse un dì diranno che ci han tenuti quieti
dandoci l’illusione di esser tutti gran poeti.

Nemmeno ci si prova, dice Susy che ha esperienza,
infine dell’incontro si può pure fare senza.
E allora continuiamo a starcene qui dietro
a scriver frasi fatte sul nostro viver tetro
a fingere di esser grandi rivoluzionari
ma a pianger veramente sol se mancano denari.

Così no non si fa, non può succeder niente,
se non ci si sente parte in causa veramente.
Oppure è proprio vero che abbiamo solo a cuore
ciò che non ci guasta il nostro innato buonumore.
Che questo è un paese in cui si bada al proprio orto
e poi chi se ne frega se l’imprenditore è morto.

A me pare comunque che tutto questo virtuale
ci allontani un dall’altro e che faccia proprio male.
Fa male all’amore, al cuore e al cervello
ma forse è il potere che vuole proprio quello.
Far sì che risolviamo il malessere da soli
e che ce ne stiamo qui a clikkare buoni buoni.

I fatti che succedono ci scivolano addosso
e restiamo come cani a badare al nostro osso.
A me spaventa tanto, la facile ironia
su cose che non sono che un’importante spia,
la luce rossa che dovrebbe spingerci a reagire
anziché lasciarci a casa a far finta di sapere.

Allora perché no, mi trasformo in qualunquista,
la pianto di soffrire e faccio anch’io la mia bella lista,
di frasi fatte che suggeriscan soluzioni
mentre solo altrove fanno le rivoluzioni.
Restiamo tutti qui, io per prima, a cazzeggiare
quando c’è chi coi nostri soldi va lontano a veleggiare.

mercoledì 4 aprile 2012

Teresa, l'uovo e la sorpresa


Ormai è tutto chiaro, ormai l’abbiam capito,
che i tecnici lassù ci han cotti a scottadito.
Equitalia no non basta a pretendere palanche
da quelli che ogni dì stanno assieme alle banche.
La Casta è ben protetta come i grandi capitali
che si sa qui in Italia han piumose e larghe ali.

Finiremo come in Grecia, in Spagna e Portogallo:
salveranno se si può il figliol di questo e quello.
Equità dicono ancora i signori Professori
ma io quaggiù non sento che grossi malumori.
Ormai siamo al collasso e si muore come mosche,
mentre lassù complottano le lor future mosse.

Vorrei da idealista che si azzerasse tutto,
che i parlamentari lasciassero il Palazzo,
rinunciassero a stipendi e assurdi vitalizi,
per il Popolo Sovrano e in barba a tutti i vizi.
Così io mi addormento facendo il grande sogno,
di un’Italia più pulita e dell’onestà che agogno.

Sogno di vederli sol per due legislature
perché non abbian tempo di fare congetture,
di unirsi in matrimonio e fare trattative
per mettere il marito in Comune a lavorare.
Sogno dei Politici con un’ideologia
che lavorino a Palazzo ma senza bulimia.

Per questa santa Pasqua vorrei resurrezione
che avvenga  della Casta la vera abolizione,
che un Angelo con spada cada loro sulla testa
e noi col nostro uovo tutt’intorno a fargli festa.
Sogno che per noi ci sian concorsi veri,
con tanto di scadenza e commissari seri.

Sogno che la mano potente del Signore
li metta tutti in riga in nome dell’amore.
Vorrei per questa Pasqua la vera innovazione
che si accorci la distanza tra me e il malfattore,
tra me e chi si paga il mutuo coi miei soldi
tra noi e chi ci crede ciechi, muti e anche stolti.

Così come l’agnello tocca solo al religioso,
vorrei un po’ di coerenza su un affare assai spinoso:
siamo tutti pronti sì a fare sacrifici
purché loro non salvino il culo degli amici.
Il punto è solo questo e che non facciano ricatti,
siamo pronti questo sì, ma non siamo certo matti.


Vorrei che questo cielo diventasse tutto scuro
che una voce di lassù li chiamasse un per uno.
nomi e cognomi e capi d’imputazione
per far vincer così la nostra Costituzione.
È da quando son bambina che sto a manifestare
ma non ho più la forza, giuro, né più voglia di urlare.

Che di lassù tuonasse, ma proprio per davvero
e che scendesse in terra a far un discorso vero.
La voce di quel tizio più che rivoluzionario
condannato da qualcuno assai più reazionario,
ci spingerebbe forse a far sì che s’impedisca,
la legge che impone che il più debole fallisca.