Pagine

venerdì 13 febbraio 2015

L'amica del cuore


(foto by Brook Shaden)

Silvia si era presa una cotta per un personaggio dolciastro e ben confezionato Vanilla dai guru del marketing editoriale e non la finiva più di parlarne, a lei, la sua amica del cuore, alle altre, tutte, al web, sui social, alla madre che la guardava con tanto d’occhi mentre stirava il cento miliardesimo colletto di camicia di suo padre, a suo padre che rimpiangeva di non aver brandito la frusta quand’era piccina perché apprezzasse oggi la quiete rassicurante di un marito pantofolaio e con un buon lavoro piuttosto che andar dietro alle favole sui finti belli, sovrumana paccottiglia che occhieggiava dagli scaffali degli autogrill.
Lia si sentiva anche oltraggiata. Lei che certe derive del sesso le aveva esplorate tutte, e sopportate poi, per superare l’imprinting infernale che i suoi le aveva dato dell’amore, che aveva cercato poi di dimenticare attraversando una passione fatta di silenzi e negazioni immotivate, di cellulari staccati, di prove da vincere e di limiti da superare, non ne poteva più di stare ad ascoltare Silvia e le 50 sfumature di nulla.

Si era perfino lasciata convincere ad accompagnarla per negozi in cerca di completini sadomaso e sex toy, gonne strette e corpetti, scarpe dal tacco vertiginoso e nuovi look, si era rassegnata a scorrere con lei gli annunci di Master in cerca di morbidezze da sculacciare, di donne da sottomettere con voce severa, da piegare con il proprio gran carattere, pur sapendo che lì su quei siti d’incontri, dove l’essere conta più dell’apparire, Silvia avrebbe trovato niente di più che luoghi comuni detti anche a parole povere.
Ma l’aveva assecondata, cercando però di farle capire che ciò che spacciavano per amore estremo non era che la punta dell’iceberg, i primi chilometri di una maratona ben più faticosa e che il passo successivo sarebbe stato l’umiliazione più triste e dolorosa che avesse mai subito.

Silvia non aveva diritto nemmeno a guardarci dentro a quel mondo pieno di sorprese spaventose. Lei che aveva avuto un’infanzia equilibrata e una famiglia iperprotettiva non poteva neppure avvicinarsi a quel baratro infernale. Silvia poteva soltanto leggere il titolo di quella storia che non ha quasi mai un lieto fine, non aveva gli strumenti per interpretarla, non possedeva il vissuto per leggere tra le righe ciò che il dolore subìto traduce in trappola mortale.
Così organizzò il viaggio a Berlino.
Così, per amore di Silvia e del suo futuro, perché non perdesse altro tempo nella ricerca di qualcosa che non esisteva Lia si decise a cederglielo, a prestare il proprio Master per farglielo provare, perché se ne allontanasse in fretta e capisse una volta per tutte che quelli seri non si sarebbero limitati a una tirata di capelli durante la passione dell’amplesso.

Ma prima di tutto si decise a scrivergli, e dopo dieci anni di silenzio non era un gioco, mica un passo facile, anzi, una tortura, come se il ricordo di quelle ferite si fosse ravvivato sulla sua pelle in colpo solo, e il senso di solitudine e di frustrazione che quel rapporto le aveva lasciato, riaffiorasse soltanto per dirle che era stata una piccola, stupida, puttanella incapace e vigliacca. Quelle erano state le ultime parole che Master berlinese aveva pronunciato mettendole le valigie sul pianerottolo, le sue ultime parole in assoluto.
Sapeva che era vivo, lo seguiva sui social dove sotto falso nome digitava poco e niente lanciando di tanto in tanto anatemi contro il mondo e la sua esistenza superficiale, contro la cultura di una massa ormai disabituata a scegliere.
C’era il Master, viveva ancora lì, in una casa popolare del centro di Berlino, con il suo stipendio d’insegnante di chimica e le scarse royalty di certi pezzi dance finiti nelle hit anni ottanta.
Era lì, nella sua solitudine di maschio single per scelta, nella disperazione di chi non trova requie in un rapporto alla pari, magari un po’ tiepido ma almeno al riparo dalle intemperie di un’esistenza frustrata. 
Lui non si era amai accontentato di una gabbia normale.

Accettò d’incontrare la sua amica.
Approvò il gesto altruista di Lia, lodò a lungo quel passo che lei allora non aveva mai voluto accettare e che era stato l’unica causa della loro straziante separazione: dividerlo con altre donne, accettare di diventare carnefice a sua volta per completare l’iniziazione, o mettersi in disparte, come avrebbe fatto stavolta, e fargli semplicemente un dono –come si deve, a volte, per dirsi veramente una Slave di prim’ordine.
Silvia, l’amica, era al settimo cielo.
Silvia non sapeva che sarebbe andata incontro a crudeltà inammissibili.
Lia la pregò di non ringraziarla.
Silvia immaginava un bel gioco, parole di lode per il suo look borchiato: tutto quello che il Master berlinese tra l’altro deplorava: ti voglio nuda e sotto la luce per ammirare ogni tua bruttura!, le diceva sempre.  

Avrebbero alloggiato a casa di un’amica, a soli due isolati da casa di lui.
Si raccomandò di essere chiara con lui sulla “safe word”, di sceglierne una comprensibile a entrambi, di non farsi abbindolare dalla sua falsa gentilezza e di dichiararsi Vanilla, inesperta -Per carità, Silvia per carità- e di lasciare il cellulare acceso.
Rimase a casa, in attesa, immaginando l’immaginabile, la povera Silvia, prona con un plug anale di massima misura, ferma, immobile e muta, magari sotto la luce forte della cucina, tra tegami sporchi e coltelli affilati in attesa di un lieto fine, di una parola dolce in un elegante interno giorno, di un’alba gelida di baci che sarebbe arrivata mai.
Lia dormì a tratti, risvegliandosi di soprassalto a ogni rumore e ripiombando poi nell’incubo, ricacciando in fondo alla memoria pezzi di quella storia che l’aveva segnata tanto da non volerne parlare più.

Quando Silvia rientrò non era nemmeno sorto il sole e Lia era già in piedi, in cucina, che provava a distrarsi leggendo qualcosa.
L’amica era pallida, in poche ore le sembrò si fosse ristretta, come capita quando si è erosi dentro da un virus letale. Il trucco sciolto, come se qualcuno glielo avesse tolto passandoci la mano sopra. Lo sguardo inespressivo le fece supporre il peggio. Che avesse vantato grandi doti da Slave e lui l’avesse punita come si deve, subito, giusto per farle capire che era fuori strada.
Silvia rimase in piedi al centro della stanza incapace di dire, né Lia ebbe la forza di domandare.
L’amica si chiuse in bagno e lì rimase finché uscì già pronta a partire.
Soltanto più tardi, sul volo per Roma prese la mano a Lia -Mi avevi avvisata-, furono le sue prime tre parole, -Non chiamarmi mai più-, le ultime quattro, all’uscita dal Gate.
Eppure, mi ha detto Lia raccontandomi questa storia, l’avevo fatto per il suo bene.





sabato 7 febbraio 2015

Una storia amara

La verità era che pensava a lui da anni, che non l’aveva mai dimenticato lui e la sua gamba offesa di cui si vergognava tanto.
«Dove sono in letteratura quelli come me?, dove sono gli emarginati senza lieto fine, dove i senza tetto privati anche della poesia? E le donne brutte, quelle grasse, quelle "inguardabili" che la società civile dice, a parole appunto, di tutelare dove sono? È una presa in giro… », le disse guardandola diritto negli occhi «è tutta una farsa da mettere in scena durante le trasmissioni televisive e che serve a strappare qualche lacrimuccia, a scaricare la coscienza degli ipocriti. La verità è che stavamo meglio al circo, nelle corti dei re, vestiti da buffoni», chiosò quel giorno l’uomo, togliendole con malagrazia il braccio con cui affettuosamente gli cingeva le spalle.
Aveva ragione.
E nemmeno poteva farci niente.
Nemmeno i suoi che si battevano il petto in chiesa ogni domenica avrebbero mandato giù una relazione di quel tipo, una storia, un’unione come quella, il matrimonio con un pescatore salentino orfano e con un arto finto. E per giunta pregiudicato.

Era stato un attimo, l’aveva visto di spalle che trascinava il trolley facendosi spazio con la sua gamba prepotente tra i viaggiatori scomposti e semi addormentati del treno per Milano.
Aveva riconosciuto la sua nuca scura da pescatore, la stazza da uomo forte, le spalle larghe di chi tira su reti pesanti, la voce baritonale che aveva sentito scambiare qualche parola con il capotreno in fondo alla carrozza, priva di garbo, come chi è abituato a parlare soltanto per difendersi.
Si erano amati più di vent’anni prima, dopo un incontro al mare. Lui restava in disparte dagli altri ragazzi che facevano battute all’indirizzo del proprio folto gruppo di amiche durante il primo giorno di campeggio al termine degli esami di maturità. Il “gruppo dei sessanta”, come si erano autoproclamate, era il più promettente, e a ripensarci adesso le veniva da ridere, se la più realizzata era lei con il suo posto fisso da insegnante, significava proprio che nessun progetto di vita è mai destinato a realizzarsi.
Lui di tanto in tanto la guardava riabbassando poi lo sguardo su una vecchia edizione de “Il vecchio e il mare”, uno dei tanti libri che gli servivano per tenersi occupato quando non usciva col peschereccio.
Era un uomo senza passato, il padre e la madre ciprioti lo avevano affidato ad alcuni parenti italiani per sparire infine nel nulla.
Leggeva per avere qualcuno da amare, le diceva, per il quale temere, da aspettare di rivedere a sera quando dopo la pesa al porto tornava alla baracca, come chiamava la sua minuscola casa sulla scogliera.

Aveva iniziato a leggere proprio in galera. Rigo per rigo, tenendo il segno con il dito, era entrato nelle case più belle d’Europa, nei palazzi reali, nelle corti di mezzo mondo. Aveva solcato oceani e si era messo a tu per tu con migliaia di persone di cui aveva conosciuto sogni e speranze, piani messi in subbuglio per piccoli disguidi, per un caso, un odioso caso che scombinava sempre tutto.
Lì, tra i suoi libri, al cospetto della sua famiglia immaginaria e dei suoi amici, avevano fatto l’amore con tenerezza e disperazione. Un uomo senza passato che non credeva neppure di aver diritto a un futuro.
Lo aveva perso di vista quando si era iscritta al DAMS, a Bologna.
Gli aveva inviato un paio di lettere, di tanto in tanto qualche cartolina, sempre augurandosi arrivasse in quel paesino sperduto tra le dune. E invece niente, lui era sparito nel nulla fino a quel giorno lì, nel treno.

Doveva rivederlo.
La donna si alzò facendo attenzione a districarsi tra le borse, i bagagli e le gambe dei suoi compagni di viaggio, e iniziò a percorrere i vagoni con calma, reggendosi agli schienali per non cadere, voltandosi a guardare i passeggeri seduti sui sedili opposti al suo e al senso di marcia del treno.
Si sentiva addosso un’emozione inspiegabile e puerile, provava a convincersi che la sua era una ricerca inutile, che forse quell’uomo era morto, partito, che forse non era neppure mai esistito. Eppure conservava ancora il sapore dei suoi baci timidi, la gentilezza, la delicatezza di chi teme di poter ferire, o di non essere all’altezza.
Aveva riso del suo pianto. Sul momento le era parso indelicato, crudele, mentre sulla banchina cercava nelle tasche un fazzoletto pulito per asciugarle le lacrime.
Poi aveva capito che era imbarazzo.
Superò la carrozza ristorante e tornò indietro ripercorrendo nell’altro verso tutte le carrozze di seconda classe.
Di lui non c’era traccia.

Sedette di nuovo al suo posto e provò a distrarsi leggendo qualcosa. Ma le parole scritte non riuscivano a superare la cortina di pensieri e domande che non poteva acquietare, tutte quelle che per vent’anni aveva censurato.
Quando fu annunciato l’arrivo alla stazione di Milano, si mise in fila e scese dal treno.
Provava un senso di delusione e amarezza, si sentiva un po’ stupida ad aver seguito quello sconosciuto e il suo istinto. Poi tra la folla sentì di nuovo la sua voce e si voltò, inforcò gli occhiali e cominciò a occhieggiare tra i mille corpi che la separavano da quel suono così familiare.
Era lui, sì era lì.
Guardò incredula avvicinandosi al folto gruppo che lo circondava.
Indossava un loden grigio, un’elegante sciarpa rossa copriva adesso la sua nuca forte, occhiali evidentemente di marca a correggere la sua antica miopia. Gli uomini della scorta avevano preso in custodia valigia e ventiquattr’ore. Provò ad avvicinarsi ma qualcuno le fece sego di stare alla larga. Provò a chiamarlo, ma la voce, per l’emozione, si era fatta afona.

Quando il capo treno la strattonò la carrozza era vuota.
In bocca, la donna sentì il sapore amaro del lungo sonno e di un lieto fine riservato soltanto ai romanzi rosa.


lunedì 2 febbraio 2015

desigual



Ricordo che non eravamo tutti uguali.
All’asilo, in un tempo analgico da maglioncini di filanca e lana mortaccina, un bambino aveva così poca scelta nei colori, blu, bianco e marrone, che per differenziarsi dagli altri poteva servirsi soltanto la propria fantasia.
I miei colleghi bambini urlavano dal banco di voler fare i piloti d’aeroplano, i militari, i professori, i maestri, alcuni gli operai come il padre.
Le mie compagne di classe non volevano fare le attrici. Anzi, io ero l’unica, guardata con diffidenza, tenuta un po’ a distanza, come se la malattia della ribellione e del pensiero diverso potesse contagiarle.
Mentre loro si davano da fare attorno a finti bebè e finti fornelli, io provavo a ballare il tip tap e a studiare dizione ancor prima d’imparare a leggere.
Crescendo peggiorai.
Iniziai a rubare rossetti e matite per gli occhi.
Le elementari mi videro fidanzata a due bambini e causa di molte risse.
Sapevo che la colpa era nel nome, sapevo anche che così era più divertente, non sapevo però che mi avrebbero ghettizzata, segnata a dito come una ladra, messa al banco più distante dal loro.
Anche se non si può chiamare “puttana” una bambina.
Non si può spintonarla fino allo sgabuzzino buio perché durante la festicciola se ne rimanga lì e non disturbi gli amichetti, e soprattutto non rubi i cavalieri alle altre.

Sentire addosso il livore di chi non aveva fantasia, di chi viveva la vita in bianco e nero, di chi non doveva colmare assenze inventando favole, mi ha fatto bene.
Mi ha insegnato così tanto che oggi non mi meraviglio se nessuno mi tende la mano. O se chi lo fa non lavora nel mio stesso ambito.
La comprensione dell’irrazionale crudeltà infantile mi ha aiutata a perdonare lo sgarbo adulto, la disattenzione ben calcolata di chi con la coda dell’occhio mi guarda annegare.
Perché niente è meno comprensibile della cattiveria di un bambino e nulla è più normale di quella di un adulto.
Da piccola ho cominciato a esercitarmi a ricordare che vincere non ha come logica conseguenza la lode, che qualcuno lo farà anche, ma a denti stretti. Che spesso dopo il raggiungimento della meta ci si troverà da soli a brindare al buio.

Allora ho scelto l’ambito che meno interessava agli altri, quello dove per riuscire non bastava studiare, dove le basi di partenza erano (ora non più) talento e fisico del ruolo, dove una prima selezione mi avrebbe già garantito un salvacondotto e il biglietto del treno.
Ho superato selezioni e attese estenuanti, rifiuti brucianti, porte in faccia. Mentre i miei amici studiavano diritto e anatomia al caldo della loro cameretta, io vagavo per la capitale alla ricerca di una stanza in affitto, impaurita e sola.
Per il teatro, per l’arte in generale, ho fatto sacrifici, studiato, sofferto non sentendomi mai veramente all’altezza.
Perché la perfezione non appartiene agli umani, come la solidarietà.
Perché ci sono ambiti in cui la diversità è la sola cosa che conta.
Perché migliorarsi è il solo trucco per non finire tra le fila dei mediocri.

Così mi hanno insegnato a superarmi, a odiarmi quasi pur di non apprezzarmi mai fino in fondo. Perché ci sono mestieri in cui fermarsi equivale a morire, in cui c’è sempre di meglio e di più non da odiare, non da copiare, ma da superare in meglio.
Perché esiste un’etica che ci impone di elaborare prima e di esporre poi, perché ciò che facciamo abbia sempre un senso che quasi mai è intrattenimento. Perché c’è chi è morto per lasciarci qualcosa di scritto, e che mai avrebbe pensato che scrivere servisse a diventare popolare.

Sono cresciuta pensando che tanti stanno meglio in pantofole e che non tutti siamo Fred Astaire, oggi mi ritrovo a leggere brutte copie di “aforismi on line” e a dover gareggiare con chi per arrivare alla meta usa soltanto scorciatoie.
Ci sarà un giorno in cui la mediocrità che state promuovendo sarà dappertutto, e voi non avrete più niente da guardare.