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martedì 28 febbraio 2012

Teresa e la farfalla a sorpresa


Si avvicina l’otto Marzo e c’è già chi lo festeggia,
e per strada mezza nuda si mostra e pavoneggia.
Ma in fondo quella roba ce l’abbiamo proprio tutte,
belle, ignoranti, bagasce e donne brutte,
e fa più notizia il fatto che sia in Bocconi laureata
piuttosto che vederla con la gonna sin lì alzata.

Io da donna francamente sulle prime non capisco,
e a guardarla messa lì scoloro e un po’ stupisco.
Mi domando anche a che serva poi manifestare
per veder le mie battaglie a un tratto scolorire
di fronte a farfalle in mostra chiare e depilate
a mercimonio di menti ridotte a casse di patate.

Queste femmine rampanti messe lì dal Cavaliere
speravo veramente non doverle più vedere.
Ma si sa che se non hai un cervello funzionante
per forza poi ricorri alla news più accattivante.
Or mi aspetto anche un romanzo un po’ più che piccante
plaudito dalle masse come best seller spumeggiante.


Pensavo che qualcuna lo avesse alfin compreso
che ciò porta il nostro corpo a esser vilipeso,
che il potere a quel modo lo gestisci sin che dura
e che certa roba lì non è sinonimo di cultura.
Ma mi pare che alla fine ci sia un po’ di confusione
e che forse la Tommasi ha sbagliato di mestiere.

Ma se penso all’otto Marzo vengon su altri pensieri,
immagini e obbiettivi più degni e assai più seri.
Mi viene da pensare che siamo ancora in minoranza,
sul lavoro e per gli incarichi di vera militanza,
nei partiti siamo imposte con le nostre quote rosa,
come animali protetti che servon sì, ma non si sa a cosa.

Se penso a questa festa ricordo grandi adunate
che comunque or mi par proprio non siano servite.
Oggi come ieri in famiglia schiavizzate,
da un marito violento che ci prende a bastonate,
da un amante geloso che ci vuole legate
da un padre padrone che ci ha violentate.

Le cifre riportate sono proprio spaventose,
e certe robe lì non fan cambiar le cose.
La nostra libertà non si misura in questo modo,
è solo un buon cervello può scioglier questo nodo.
Se usiamo ancora il sesso come arma di ricatto,
saremo buone solo da portare a letto.

Poi alla fine quella lì non è che un’eccezione
una povera scemetta in cerca di attenzione
e i media gliela danno rimbalzando la notizia
di un’altra che la mostra e neanche è una primizia.
E visto che sta storia mi ha resa un po’ nervosa
or mi metto di gran lena a far la torta mimosa.

Ah... un ultimo consiglio lo darei alla signorina:
se la vuol fare vedere, che la faccia veder tutta,
il collant messo così è una roba proprio brutta!




sabato 25 febbraio 2012

Teresa e l'etica disattesa


L’Italia è un gran paese!, lo devo proprio dire,
la gente che lavora ha, è vero, un grande agire,
e io che non ho impiego e devo navigare
in cerca di un annuncio e del posto da occupare,
so invece che in ufficio e in orario di lavoro,
il tempo del cazzeggio è pagato a peso d’oro.


In molti mi diranno: io no, non l’ho mai fatto!
Forse è anche vero, ma non per il Carletto,
oppure per Liliana che sta sempre lì a twittare
mentre la collega deve darsi un gran da fare.
Ma anche la Luisa che lavora da un privato
sta tutto il giorno in chat e a taggare foto.



Perché oggi l’impiegato è anche opinionista,
writer free lance e provetto giornalista.
L’Ansa ce l’abbiamo dall’amico che lavora
e che scrive a quattro euro le news dell’ultim’ora.
Persino la Giovanna impiegata da un dentista
racconta sul suo blog l’esperienza da ferrista.

Pino mio cognato che è un usciere graduato
è invece di Farmville un giocatore nato.
Lucia che è infermiera in una clinica privata
è anche opinionista in una piccola testata.
Marco mio cugino assistente da un notaio
sul web cerca ragazze e anche qualche guaio.

Non è così altrove dove anche un dirigente
ha l’accesso controllato ma social network niente.
Consentito è navigare ma solo per cercare
nuove soluzioni o il competitor da affondare.
Neanche l’e mail essi posson controllare
a meno che non sia proprio quella aziendale.

Così è anche in Giappone e in ogni altra nazione
che consideri il lavoro una benedizione.
Qualcosa che ha a che fare con l’etica e il rispetto
qualcosa che qui, forse, abbiamo solo letto.
Mi spiace se vi sembra una generalizzazione
ma da ciò vedo on line, è un vizio di nazione.

Statistiche alla mano so bene di che parlo,
non vedo il perché altrimenti dovrei farlo.
A me non mi diverte stare qui a criticare,
ma proprio certa roba mi fa imbestialire.
Feisbùk nei week end è meno frequentato,
forse è di riposo il nostro ligio impiegato?

Dobbiamo ritornare a dire ciò che non funziona?
Che è ancora la parentela a farla da padrona?
Che nemmeno i Professori –e l’hanno domandato-
saranno valutati in base a ciò che han dato?
In termini di tempi e di risoluzioni,
o anche di risparmio, idee e valutazioni?

Ma sì ma cosa importa, noi stiamo qui a guardare
tanto il posto fisso non ce lo possono levare.
-Perché io lo stipendio me lo sono guadagnato
facendo dei favori al cugino di mio cognato!
Ma a me che me ne frega della meritocrazia,
tanto scendo in Piazza poi per dire la mia!-.

Tanto poi si twitta e ci si lava la coscienza,
l’etica si mangia o se ne fa un’essenza?
Sentivo che è assai buona anche in insalta
ma forse in padella e con aglio ripassata.
-Stachanov, mi pare, era un grande attore,
o forse un letterato ma non un minatore!-.

Non sono reazionaria ma credo nel lavoro,
desidero servizi se li pago a peso d’oro.
Se poi chi qui mi legge si sente al sicuro,
gli dico: vai avanti! E ti prego tieni duro!-
E se pensassimo ogni tanto a ciò che non è personale,
potremmo ricavarne anche un profitto generale.

venerdì 24 febbraio 2012

Diario di Lola, decimo giorno, stanze


(Foto di Brooke Shaden)

Una volta Max mi portò in un albergo triste. Girammo a lungo per il litorale in cerca di quello più giusto, che avesse per lo meno luci fredde e un portinaio scortese e brutale che Max potesse riservarsi di tirar fuori come minaccia o premio finale, per punirmi una volta per tutte e farmi passare quella certa voglia che non lo faceva dormire.
Non negare.
Anche a tua moglie hai legato le mani, magari una volta sola e forse soltanto nella tua immaginazione, al buio, mentre pregavi che il respiro le si facesse in fretta più pesante, perché il suo sonno ti tenesse al sicuro quel tanto che bastava per stare da solo ad ascoltare, per una volta, cosa si prova a sentirla urlare e domandarti perdono.
Hai pensato di punirla, confessa.
Magari in albergo, quella volta lì che ti è piombata in camera senza avvertire, violando la tua sacrosanta privacy, distruggendo il progetto che avevi per la serata, la cena con i colleghi, una bevutina solitaria e un po’ di zapping tra thriller e hard core. Anche uno come te, ne sono certa, con quella faccina da adolescente un po’ invecchiato, può essere in grado di immaginarla legata al letto, nuda, anzi no, uno come te la vuole in guepierre, generosa e grata come non è mai stata.
Sì, lo so che quella sera ci hai pensato, quando il suo profumo è arrivato fin troppo nauseante al tuo bel naso regolare e dritto già all’apertura dell’ascensore. Hai guardato automaticamente la spalliera del letto e poi le cravatte, che libero dall’assillo casalingo dell’ordine, avevi lasciato sulla spalliera della sedia, in fila come soubrette fasciate di seta al bancone di un american bar. E c’è mancato poco che non le mettessi le mani addosso quando, ancora sulla porta, ha messo su una chiara espressione di disgusto e anziché baciarti, si è avviata rigida verso le tue scarpe, che tenendo con due dita il più possibile distante, ha messo fuori, sul davanzale della finestra.
A me non devi mentire, lo sai.
Può capitare a chiunque di avere certi pensieri.
Capita anche in un freddo pomeriggio invernale di derby domenicale.
Tua suocera è appena andata via – e magari sta lì a due passi da casa tua, forse al piano di sotto, sempre pronta intervenire-. Ha appena chiuso la porta salutando a gran voce, e a gran voce e per la centesima volta le avete risposto entrambi, tu con gli occhi sul giornale e lei su un romanzo che sta lì da anni e ancora non si decide a finire.
Ti senti sazio per il pranzo e per la stretta di mano che vi siete scambiati a messa, in segno di pace. Le hai anche fatto il caffè e come massimo segno di gratitudine per quel perdono, hai messo sul piattino un paio di lingue di gatto al cioccolato, comprate per lei la sera prima, dopo aver sostato a lungo con lo sguardo sul seno bianco della ragazza che sta in panetteria e che avrà sì e no vent’anni. Ma questo particolare, forse, ti è sfuggito di mente.
Ora sei di là in sala da pranzo, sulla poltrona imbottita. La stanza sa ancora di pasta al forno e involtini.
Sì, anche stavolta ha esagerato con l’aglio, da buona pugliese, ma da buona pugliese ti ha anche versato un paio di volte il liquore fatto da lei.
È in bagno magari, per godersi la domenica di riposo e leggere con attenzione la posologia di tutti i campioncini di creme che è riuscita a recuperare o forse, anche lei come me prova a resistere al mugolio insoddisfatto che non è ancora pianto. Forse ha appena visto la traccia evidente che una vita senza picchi lascia agli angoli della bocca, e si domanda perché, e se quelle creme riusciranno a spianarla.
È vero che non ci si guarda mai sorridere, ma fino a quel pomeriggio lì si era giudicata felice.
Frottole, si chiamano quelle che racconta alla madre, alle amiche e alle zie, bugie, cazzate, invenzioni, fandonie, menzogne: sono anni che non la guardi a quel modo.
E tu lo sai che lei è di là che brontola, come te di qua, che con il vassoio ancora tra le mani, pensi che è splendida e che non ne potresti fare a meno, eppure vorresti avere ancora vent’anni -solo per i prossimi novanta minuti- e lei fuori dai coglioni.
C’è silenzio. Hai il televisore in “mute” perché quella è l’ora della pubblicità con le belle fighe dalla pancia piatta che da lì ti sorridono ma non te la daranno mai, è l’ora della pubblicità delle auto che contengono la famiglia perfetta, il bambino che non potete ancora permettervi e la serenità che, ne sei certo, non vi permetterete mai.
Di tanto in tanto senti delle voci per le scale e ti ricomponi ravviandoti i capelli, come se qualcuno potesse bussare da un momento all’altro e coglierti in fallo: anche questo si chiama senso di colpa, ma anche a questo non hai pensato.
Ancora non ti ha domandato se la aiuti a piegare le lenzuola o se porti giù il cane, il tuo, ribadisce un paio di volte andando in sovracuto, tanto per alzare il cartellino giallo.
Ci pensi un po’ su e lo guardi. Solo lui ti è veramente necessario. Scuoti la testa e incroci le gambe affondando ancora un po’ nella poltrona.
Ma poi eccola in accappatoio, quando l’acqua ormai si è confusa con le lacrime, ma le mani le tremano un po’ mentre si versa qualcosa di forte e siede davanti a te, di tre quarti, rannicchiata sulla sua sedia a dondolo.
Non ti guardo, non ci sono, stai tranquillo, pensa lei.
Ha portato con sé anche il libro per sancire definitivamente la conclusione delle ostilità, eppure sembra dire: vediamo se sei capace, su!, e adesso tiene il ritmo di quella provocazione muovendo le gambe nude per far andare la sedia in su e in giù.
Sei capace?
Forse saresti capace di usarle violenza, sì, ma non di farla godere.
Come tanti tu confondi la sottomissione consapevole e consenziente con la violenza gratuita e frustrata. Sei uno dalla buona cultura scolastica e niente di più. Sei passato dalla casa di mamma a quella della tua donna senza nemmeno passare dal via. Come avrei voluto fare io. Sei una persona ordinaria, come una volta diventata sposa speravo di diventare anch’io.

Di Max, ho soppesato la lealtà e il coraggio, poi, ho misurato la voglia di sfidarmi e la capacità di vincere.
Di te non so nemmeno come muovi le mani, come apri un’aragosta o se canti mentre fai la doccia.
Mi ricordo che stavi in ginocchio davanti al mio corpo disteso. Ti ricordo piangermi addosso e domandarmi perché l’avessi fatto. E adesso ti racconto di me, senza motivo, e non so bene neanche quando è cominciata, né so più dov’è il mio ora o il mio qui.
Comunque era un pomeriggio ancora freddo, quello.
Max aveva stipato nel bagagliaio tutto l’occorrente compresa la telecamera. Per giorni era andato in cerca di qualcosa che normalmente non avrei indossato e che nemmeno immaginavo esistesse.
Io me ne stavo rigida sul sedile sempre in procinto di dirgli qualcosa. Mentre guardavo scorrermi accanto la campagna dormiente, abbozzavo pensieri del tipo che no, che bastava, che forse era troppo per me ma d’altra parte, forse, sì, ecco... non sapevo bene fin dove mi sarei spinta, e quanto profonda fosse la mia ferita.
La sua l’avevo suturata da tempo.
Gli aveva dato coraggio il mio chiudere la laurea in un cassetto e giocare a essere la sua bambina ammalata da accontentare in tutto.
Ci eravamo da poco scoperti entrambi pieni di ferite, quelle profonde che nel tempo della meraviglia ci si sono tatuate per sempre addosso, così privi di protezione e filtri, e quelle più superficiali, un po’ inutili, come la paura del futuro e della morte.
Aveva deciso per un appuntamento al supermercato. Quello di quartiere, il solito.
In certe cose  è il prima che più conta, è la preparazione lunga e puntuale, la curiosità che cresce, l’eccitazione che abbonda e diventa acquolina.
Non era scontato che da lì sarei uscita con lui, o da soli, o in compagnia. Il gioco è aperto in certa roba così. Le regole di base sono l’imprevisto e la sorpresa, il perno attorno al quale girare è l’incertezza, l’ipotesi del fallimento l’unico ingrediente che dà sapore, che non lascia dormire, che impedisce al desiderio di esaurirsi, assieme alla forza vitale.
L’Aurelia era dritta e già rossa di tramonto.
Stazione di servizio. Lola alzati la gonna!, di più!, mi ordinarono il suo sguardo e la sua mano, sì, fino ai gancetti del reggicalze... sì, così, mi disse la sua espressione di approvazione.
Uscì dall’auto e domandò a un ragazzotto italiano, magro e dall’espressione pessimista, di pulire il vetro.
Attesa, il ragazzo era anche distratto, e lui da lì, dalla giusta distanza, lo guardava soffermarsi, dopo un iniziale moto di sorpresa, nella pulizia del vetro.
Salito in macchina non disse nulla. Al ragazzo aveva lasciato dici euro di mancia.
Guardammo ancora un po’ il mare e infine trovammo l’albergo. In realtà ho sempre pensato che Max sapesse già dove portarmi.
Mi sembrò di tornare bambina in quella hall dalle poltrone a cubo anni settanta, le applique optical smaltate marrone e arancio come la moquette e le tende.
Mi sentivo Ursula Andress in mini abito nero e le calze rosa shocking. Max poi mi confessò che il premio era andato tutto agli stivali rossi al ginocchio.
Anche questo fa parte del gioco e della sorpresa.
Per giocare non basta un baby doll di gran marca. È scontato, è loffio come una festa di carnevale andata deserta.
Voleva tirarla per le lunghe e anch’io, e allora ordinò una bottiglia di champagne. Ridemmo sadicamente in ascensore al pensiero che il titolare avrebbe mandato di corsa qualcuno, sicuramente un figlio schiavo, alla disperata ricerca di una bottiglia, e delle migliori.
In camera mi ordinò di sedermi sul letto e iniziò a disporre luci e telecamere.
Aveva anche disegnato lo storyboard.
Eccola la ferita. Sentirsi costretto a lavorare in banca anziché cercare storie e raccontarle, era la cicatrice profonda e antica del mio Max che da lì, dal copriletto di ciniglia blu notte e arancio che stringevo tra le dita, mi sembrava veramente bellissimo.
Max diceva che trovare una buona ragione per punirmi era sempre un casino, diceva che ero bravissima, e che presto, mi avrebbe potuto prestare ad altri.
Invece non è mai successo.
Era già finito quel tempo quando ho deciso di provarci ancora e di farlo con te.
Lo sentivo che quel pomeriggio dovevo andare io a fare la spesa. Avevo anche discusso con Milena per questo. Volevo uscire, volevo incontrarti. E ti cercavo, e spiavo, tra tutti, in cerca d’indizi: la mano che accarezza un rotondo melone, le dita che tastano, sapienti, pere o zucchine.
Una sola bottiglia di bianco, eri solo.
Anche il pane casareccio, un solo quarto, era un buon indizio. Il fatto che non avessi la fede al dito non significava nulla, ci sono in giro plotoni di quarantenni divorziate che per una cena e una scopata si farebbero mordere da una tarantola.
Le tue mani me le ricordo bene, tutto il resto no, forse la tua voce scolorita e lontana che mi dice di parlare e di dirti di me.



mercoledì 22 febbraio 2012

Teresa e la rima IMPERFETTA


Forse son stufa e ora voglio parlar chiaro
Io faccio opinione e non per il denaro.
Le rime sono tante e tra loro assai diverse,
ci son quelle più oscure e quelle assai più terse.
Ma quella tra tutte da sempre la più amata
rimane questo è vero la rima baciata.

Forse protestate perché è quella che sapete
ma io ne ho almeno trenta e allora leggete:
baciata è la rima col verso seguente
da sempre più vicina al gusto della gente
quella che vuole cuore con suore,
o forse col più giusto e assonante ardore.

Quella alternata lo dice anche il nome
è troppo complessa perché dica la mia
usare poi il rimario mi fa male all’addome
cerco l’assonanza più vicina che ci sia.
Perché più arduo è parlar del chi e del come
che non dello sguardo della bella Sofia.

Quella incrociata la usa il gran poeta
E io che racconto cronaca ordinaria,
non posso ogni volta chiamar la segretaria,
che trovi la rima perfetta per l’esteta.
Teresa, che son io, ho un linguaggio colloquiale
racconto solo i fatti e non in modo demenziale.

Quella incatenata la usava il grande Dante,
ma io, e lo ripeto, non voglio fare poesia,
uso le assonanze e se servon tra le tante.
Io racconto cronaca scrivendo una ballata,
solo un altro modo per dare un’opinione,
ma non per ritrovarmi tra i versi impantanata.

Sempre una sestina vuol la rima ripetuta
se forma e contenuto son poi la stessa cosa
vi prego badate a tutto ciò che dite.
Quando un’accusa è sulla faccia altrui sbattuta
documentarsi si deve per non offendere chi osa
perché a far diversamente si causano ferite.

A quella invertita non ci penso nemmeno,
il mio è solo un gioco, una piccola follia,
non siamo in una scuola e non voglio maestri,
a giudicare da lì siete tutti un po’ maldestri,
e a me per il dolor mi prende un’extrasistolia,
senza certezza di un domani ultraterreno.

C’è la rima franta e quella spezzata,
quella rara, cara e poi la derivata,
quella equivoca, identica e ancora la perfetta,
l’inclusiva, la povera ed è chiaro anche la ricca,
la rimalmezzo e quella interna,
la rima per l’occhio oppure per l’orecchio.

E ancora l’eccedente e poi la sottintesa,
da non dimenticare è pur la siciliana,
quella guittoniana detta anche l’aretina,
la umbra, bolognese e in fin quella francese.
Insomma di rime ce ne son proprio tante
e non è carino sentirsi dar dell’ignorante.

La rima imperfetta è la mia preferita
quella che dà il nome persino alla rubrica.
Uguali le vocali e diverse le consonanti,
per raccontar la cronaca e i fatti che son tanti.
Si chiama se volete rima di assonanza
diminuisco la forma per dare più sostanza.

Una volta per tutte spero di aver chiarito,
il verso mio è imperfetto e anche un po’ ardito,
e a cercar nell’altro l’assoluta perfezione,
ci si ritrova infine a fare un grosso errore.
Leggete se volete ma state un po’ più calmi,
o prima di farlo recitate i vostri salmi. 

venerdì 17 febbraio 2012

Teresa e la paga dell’indifesa (Cronaca sanremese di un'artista aggiunta)

E anche questa volta ce l’abbiamo quasi fatta,
qui dan per vincitrice Loredana che è una matta
ma che ieri da quel palco ci ha fatto emozionare,
cantando con il cuore una canzone d’amore.
Eh sì è proprio vero, io sono qui a Sanremo
per guardare da vicino la gara che vedremo.


Per me nessun ingresso, nessun passi giornaliero,
nemmeno per le prove, per dire che io c’ero.
Mai poi girando sola tutt’attorno all’Aristòn
ho fatto conoscenza con un tizio, un tale Wong.
Wong che è un filippino ed è certo un gregario
mi apre una porta dell’ingresso secondario.


Da qui posso vedere la macchina infernale
che muove di Sanremo la kermesse stagionale.
La sala è sempre piena di agenti e produttori
che muovon gli ingranaggi di ciò che appare fuori.
Ma non son certo loro della gara il motore
ma quelli che la musica la fanno con il cuore.

Chi sta lì nella buca da un mese a eseguire
è certo assai più bravo di chi si sa esibire.
È gente diplomata, sono professionisti
che qui vengon trattati con paghe molto tristi.
D’Alessio porta i dolci, Morandi li ringrazia
ma questo è troppo poco per tanta ingiustizia.

Le otto ore al giorno di gran lunga superate
ma qui nessuno vede le paghe aumentate.
Ho visto una tizia che piangeva per le scale
stanca e abbrutita per lo scotto da pagare
-son musicista aggiunta!- mi dice sottovoce
guadagno mille e due e sto qui sulla croce.

Milleduecento euro è la paga per un mese
che fan cinque euro l’ora al netto delle spese.
Quaranta euro al giorno per l’artista “aggiunta”
che dal Padrone deve sentirsi anche unta.
Nulla andrebbe avanti senza questi musicisti,
che stanno dietro e sotto quelli che chiamano artisti.

La tizia poi mi ha chiesto se potevo evitare
di raccontar la storia e di non denunciare.
Ma devo raccontare di chi sta sotto padrone
e di chi s’intasca i soldi e poi fa il furbacchione.
Alcuni anni fa ci hanno provato a contestare
ma poi come succede nulla si è voluto fare.

Ne ero quasi certa ma ho visto confermata
l’idea che qui in Italia la gente vien sfruttata.
Il nuovo schiavismo si basa sul ricatto
se tu ci stai è bene sennò si rompe il patto.
-Di artisti come te ne trovo a centinaia
se provi a dir qualcosa non sei più necessaria-.

Ti devi accontentare, non devi mai fiatare
corri per pranzare e devi esser puntuale
se vuoi tra un anno, forse, vederti confermare.
Per la paga misera che è sempre più vitale
non devi parlare e non ti devi lamentare
devi sgobbar sodo, stare zitto e non fiatare.

Perché pé stò lavoro devi anche ringraziare
e stare ben lontano da un discorso sindacale.
Perché è una finzione, il marcio è dappertutto
non è solo questione di articolo diciotto.
-Ma a noi che ce ne frega della paga dell’artista
guadagna qualcosina sempre più che uno stagista.

E poi parliamo pure dell’appalto capitolino
che porta qui a Sanremo il fatidico cestino.
L’ho detto anche a Wong che questo è un mistero
che portino da Roma il pranzo giornaliero.
È sempre un magna magna ma io vorrei capire
perché quel pane lì è duro da non dire.

Ma godiamoci in tivvù la saga nazionale
l’annuale Festivàl dell’italica canzone.
A noi dei musicisti non ce ne frega niente
infine ciò che importa è il gradimento della gente.
Paghiamo caché d’oro alla star nazionale
ma per chi non ha nome non c’è alcuna soluzione.









martedì 14 febbraio 2012

Diario di LOLA, nono giorno, Olimpia

Foto di Eugenio Recuenco

Lalama indagherà sulla storia della donna. Non ha un cellulare ma dice che l’assistente può rintracciarlo sul cercapersone. Sì, io non ricordo nemmeno com’è fatto un cercapersone.
Sono giorni che non la vedo. Da quando ho incontrato Vince la donna del palazzo di fronte e scomparsa.
È che non riesco più a portare a termine una lettera che subito succede qualcos’altro, qualcosa di urgente e di più importante. Ho i minuti contati come se dovessi affrontare adesso tutti i mali del mondo e concludere ciò che ho lasciato in sospeso. E l’elenco è lungo.
Comunque, nemmeno Martina, la ragazza a servizio intero, mi saluta più.
Certo, è vero che sono stata in camera mia per tutto il giorno a riguardare alcune carte, ma a volte penso di essere invisibile.
Max ha cambiato di posto i lilium.
Li ha messi sotto una mia foto, quella scattata in barca a vela con la costa croata alle mie spalle mentre nuda, a parte un turbante azzurro in testa, ridevo versandomi qualcosa addosso.
Felici, per aver coinvolto due amici perbenisti e noiosi in un gioco piccante, festeggiavamo la partita persa e il pegno pagato davanti a loro.
Il pegno era forse tutto ciò che stai immaginando ma credo anche di più. Perché da quella volta a Firenze non c’era stato bisogno di suggerirgli più nulla, nemmeno di fare qualcosa che non gli andasse a genio perché Max misurasse con attenzione millimetrica i passi da fare.
Poi ci fu quella crociera a quattro e le mie nausee mattutine e la certezza –immediatamente tradita- che io potessi farlo padre.
In quella foto è ritratta la nostra ultima alba felice prima dell’ossessione e di quel volere sì, ma sino in fondo no.
È da allora, sì, è proprio da quel giorno che Max mi ha messa via per ripormi nel passato, tra la laurea e la morte di suo padre. Lola troppo importante perché sia del tutto rimossa ma abbastanza scomoda per dover restare in ombra. Chissà se nel suo ricordo mi ha lasciata vestita così, con il tailleur giallo ocra e i capelli raccolti alla meglio, il trucco sfatto e l’aria sfinita.
Non mi va di diventare madre, gli dissi evitando i suoi occhi e un barattolo di birra che da ore faceva la spola da un lato e l’altro della cambusa. Mi guardò a lungo prima di scostare con l’indice la lunga ciocca che mi copriva un occhio. Mi guardò ancora con attenzione prima di passarci sopra, a quella frase scomoda, e sorridere un po’ alla ricerca di un appiglio per cambiare discorso. Disse infine un –poi vedremo- che rimase lì. Io salii in coperta fingendo entusiasmo con gli ospiti e il discorso si chiuse, il suo tocco diventò presto imparziale e poco saporito, come un gelato di surrogato alla vaniglia.
È bastato uno sforzo eccessivo per trasformare una gravidanza già difficile in un semplice ritardo. Poi sì, certo, quel bambino l’ho sognato per molto tempo e ancora è difficile per me guardarne uno senza sentirmi colpevole di non averci almeno provato, di essermi adagiata nel senso d’inadeguatezza, con lo sguardo sempre rivolto dentro me stessa e mai altrove, ancora alla ricerca di una strada come una ragazzina, anziché lasciarmi andare a un cammino anche un po’ casuale.
Max si trattiene in banca fino a tardi ed è possibile che abbia un’altra storia.
Se c’è posto per uno non c’è posto per l’altro, diceva mia madre quando moralisticheggiava davanti alle sue amiche per esibire un amore filiale letto al volo su qualche rivista femminile, sotto il casco, prima di ondeggiare sapientemente fino a casa, facendo un po’ di self management.
Mi sembra di risentirla l’emozione di quell’ipotesi folle che si faceva spazio via via che la sentivo parlare, mi provocava eccitazione fisica l’idea di voltarmi garbatamente–nel mio abitino chiaro di pizzo - ed elencare alle amiche i nomi dei suoi numerosi e facoltosi amanti.
Perciò mio padre doveva incontrare certi tizi e mettersi in certi affari, doveva a tutti i costi –almeno di fronte a se stesso- sentirsi all’altezza di offrirle lo stesso prezzo.

In quegli anni ho imparato anche a leggere il labiale pur di capire come andava la storia. Li seguivo nascondendomi dietro gli immensi mobili ottocento di cui la nostra casa assolata era ingombra. Mimetizzata dietro le piante ornamentali che Olimpia, mia madre, curava più di noi e di se stessa, ascoltavo il ritmo sincopato di quel tipo di amore. Mi appiattivo, trattenendo il respiro, nei coni d’ombra del salone, tra il pianoforte e il tavolo da gioco, tra il divano e la libreria, e imparavo.
-Tu- sei- un –in-ca-pa-ce-sei-un-ver-me- era l’incipit che mia madre preferiva, tro-ia, sei-una-troia, il balbettio di mio padre o anche l’insulto conclusivo, quello che arrivava forte e chiaro dopo mille incisi sussurrati a mezza bocca, o rabbioso e schiumante come l’abbaiare di un cane cui la catena ha reciso le corde vocali.
Doveva avermi scambiata per Olimpia quando il suo braccio rassegnato alla morte si allungò fino a me. Era un pomeriggio autunnale prossimo al lutto quello in cui si passò tra le dita giallastre le mie ciocche lunghe e schiarite dall’estate; voleva guardarle per esser certo di poterle trovare tra tutte -tante volte si fosse risvegliato-, per non confonderle tra le altre ciocche bionde senza volto né nome, che abitano nell’infinito passato.
Olimpia, non potevano dare altro nome a quella lì.
Diventerai alta più di lei, mi diceva mentre ballavamo un lento e io che non gli arrivavo nemmeno alla spalla. Diventerai anche più bella di lei, mi diceva sotto una luce calda che era sicuramente tramonto, e che sapeva di una serata di giochi a carte tra me, lui e tutta l’amarezza di quell’assenza.
Olimpia, ti prego, anche stasera no, le diceva in quelle serate che erano la conclusione di una settimana di stress e di chiacchiere che sentiva su di lei, di sussurri nel bar e alla sede del partito.
Ti prego e mille volte ti prego le diceva mentre la seguiva avanti e indietro tra il bagno e la camera da letto. E lei cantava, forse per contraddire la drammaticità del momento, forse perché se qualcuno fosse entrato in quell’istante avrebbe dato a lui del pazzo, forse cantava quel tanto che serviva a coprire il suo fastidioso balbettio, che dopo la resa la guardava dalla poltrona rosso sbiadito.

Lo vedi? Io non ho mai conosciuto l’amore della noia o quello dell’abbondanza, nemmeno quello pago e tiepido, molle e insapore, ho conosciuto solo la notte che incombe carica di accuse e pianti che per me erano amore.
Quello il marchio ricevuto, quel dolore è il mio maestro, non il piacere della serenità diffusa, non un sonnolento bacio della buonanotte e il sottinteso “a domani”.
Max ha smesso di strofinarmi le caviglie e di salire più su; ha rimandato al giorno dopo e poi all’altro ancora, forse. Mi ha affibbiato generici e impersonali nomignoli e poi ha dimenticato il mio nome, o forse l’ha depennato, prima, con la precisione del ragioniere e la cura del bancario.
Qui in casa silenzi si sono fatti ingombranti.
Arriva il momento in cui si piange di nascosto, magari nel bagno, i palmi delle mani ben assicurati al bordo del lavandino che ci auguriamo crolli sotto quel dolore e che con lui possa crollare anche il pavimento –le mattonelle, quelle bianche e nere anni settanta scelte assieme da qualche parte-, e anche il palazzo, se possibile, sulla strada, un piano sull’altro e senza far troppo rumore.
E io lo sento il pianto quando si trattiene fino all’ultimo, fino a un mio –scusami non ci avevo pensato-, al suo –mi spiace non l’ho fatto apposta- che ci blocca il respiro e rimbomba nella testa.
Restiamo nella recita come attori costretti da anni in un costume di cui vedono solo i difetti: il tessuto sintetico, la lampo pesante, il colore sbagliato.
Anche io ho rimandato e poi mi sono accontentata parole che vanno via con un clic -o molti clic-, emozioni che svaporano in un “ho pensato a te”, in un “a domani, ciao”. E così il tempo che ci stava a guardare è andato avanti senza più curarsi di noi, come se l’eterno domani spettasse anche a noi, come se anche io e Max avessimo un’opportunità ancora, da qualche parte. E invece, forse, quella ci è già stata data tanto tempo fa.
Non ci sono più nodi da sciogliere, le corde sono sparite da tempo, da quell’estate in barca, da quell’alba ancora per poco trasgressiva e maledettamente magica.
Poi si è fatto buio e non ho visto più la strada, e mi sono ritrovata in un tempo fermo, senza né inizio né fine, senza rumore, alla ricerca di una donna che nessuno vede e di Lola, a cui non resta che parlare a uno sconosciuto, a uno che non conosco quasi.
Tu che mi domandi di raccontare e di dirti di me, delle mie fantasie, delle cose più belle che ho visto, dello zucchero filato, della neve imbevuta di sciroppo di amarene che mangiavo dalla mano di mio padre, dei cuccioli di cane che nascevano in estate sotto la luna piena, della luna piena, del tempo inutile della mia infanzia, dei gelsi e dell’altalena. Lo spazio è occupato sempre più dal passato, da veri abbracci e autentici commiati, da una connessione con l’altro sempre commossa. Il mio presente, invece, è freddo e inodore, è uno schermo piatto dove a immaginare il dolore, ho perso la capacità di viverlo.
Ti sembrerà assurdo, ma io sono stata felice, tanto, ed è solo per questo che sono ancora qui.

sabato 11 febbraio 2012

Teresa e l'amore in attesa

-Ciao, come mi trovi?, mi vedi proprio bene?
È un secolo che noi, non ceniamo assieme!-.
Ci credo caro mio, a volte è una passione
con te che non fai altro che parlarmi di pensione
della donna che vorresti ti facesse da badante
che tanto in giro tu, ne trovi proprio tante.


Una che sia brava anche a preparar la cena,
che sia parsimoniosa, colta e in più sincera,
che sparisca per magia e compaia per incanto
perché a te per eccitarti ci vuole proprio tanto,
devi essere tranquillo e anche rilassato
e la troppa perspicacia talvolta è peccato.

Questo è più o meno l’amore cinquantenne,
di quello che ha paura persin della ventenne,
di quello che la vuole matura ma non troppo,
che sia gioviale e bella ma anche riservata,
se poi è automunita è anche una figata,
magari silenziosa, già madre e appagata.

Sul web sono carini e fanno complimenti
giocano in attesa che sia tu a tentarli,
che sia proprio tu stessa a fare il primo passo,
perché stupiti e pigri ti dican -ah me lasso!
ti giuro sei carina, sei proprio la più bella
ma io non mi ci vedo ad alzarti la gonnella-.

E dopo tanti sforzi e quando l’hai dimenticato,
ti scrivono di notte il messaggio del peccato
che tu ti dici “è fatta! È lui che mi rivuole,
almeno ora saprò com’è che fa l’amore!”.
Allora tu incantata ti giri e ti rivolti e pensi
“amore io ti voglio! son schiava dei miei sensi!”.

Che poi a pensarci bene è quello ci frega,
l’idea di una passione è quello che ci lega,
il sogno indistruttibile di un maschio virile,
che una volta conquistato ci soddisfi senza fine.
Di un cavaliere oscuro, forte e bello e riservato,
di quell’uomo che non c’è ma noi abbiam sognato.

Ci rovina la speranza ancora adolescente
di trovare in lui il re e il cavalier servente,
la dolcezza e la forza del padre perduto,
del grande amore che abbiamo conosciuto,
o forse solo letto, o scritto, o immaginato,
ma che ci fa sperar di restare senza fiato.


Ma questi poi alla fine son pensieri razionali,
che magari hanno già fatto tante donne di ieri,
che di certo rifaranno le altre in un futuro,
che poi mi han fatto anche mia madre e lo zio Arturo.
Di stare sempre attenta e di non cascarci troppo
perché quando ti risvegli ha già fatto il gran botto.

martedì 7 febbraio 2012

Teresa e l'ironia ben spesa

Ma che genio questo qui!, lo ritwitta anche Ferrara,
forse è un bravo giornalista, questa è proprio roba rara.
Questa twitta con chiunque e qualcuno le dà retta
-Dalla foto è proprio bella, è un’attrice, è perfetta!-
ma quel tweet l’ha copiato l’ho già visto stamattina
ci ha cambiato solo i nomi ma il senso è uguale a prima.





Se sei bravo veramente questo è lo strumento giusto
per avere l’attenzione di quei VIP che hanno gusto.
C’è chi sforna citazioni e chi si rende interessante,
criticando proprio tutto anche i gusti della gente,
anzi quelli soprattutto l’importante è dimostrare
di avere sempre pronta la battuta da postare.

Se poi sei anche un artista, uno vero e affermato,
ti becchi di continuo le battute del frustrato.
E guai se fai un errore di sintassi o ortografia,
qui su twitter son dolori! Qui ti fan la radiografia.
Tutti quanti son maestrini tutte son professoresse,
tutti fieri di attirare degli artisti l’interesse.

Direttori editoriali, giornalisti e scrittori
sono qui a dare retta ai colleghi tra i minori.
Son le idee e le parole a fare un giornalista?
Devi avere un cuore puro per poter essere artista?
Se è questo ciò che pensi tu sei proprio fuori pista,
è con l’originalità che tu puoi scalar la lista!

E ci studiano la notte e scartabellano volumi,
per cercar la citazione e le frasi più sublimi.
E di quel poeta morto che mai abbiamo letto
diventiamo tutto a un tratto il biografo perfetto.
Mai ammetter l’ignoranza qui siamo intellettuali,
da qui dietro chi ci vede!, qui siam proprio tutti uguali.

I caratteri son pochi ma son tutti essenziali,
per dar di noi il meglio con battute demenziali,
quelle proprio son la base per entrare nelle cose,
per analizzare a fondo dove va il nostro paese,
per fare più chiarezza ed esser costruttivi,
ci si deve rider sopra e con i giusti aggettivi.

La dialettica si sa non serve proprio a niente,
oggi basta andare incontro ai gusti delle gente.
Se sei furbo appena appena e sei ben determinato,
ti assicuro basta niente a esser ritwittato.
Basta la parola giusta e la battuta più sferzante,
per far di te un mito e un faro di coscienze.

Se sei proprio intelligente e sai cosa twittare
poi ci passi la giornata a cercar l’originale,
lì sta tutta la bravura, lì la grande maestria,
digitare storie vere con la massima ironia.
E poi sempre criticare -perché noi siamo i più bravi!
nascosti dietro al monitor siam proprio eccezionali!-.


Non ne posso proprio più di queste icone false,
di questo continuo e inutile cercar delle rivalse,
frustrati e condannati al mondo dei chiunque,
si fa qualunque cosa pur di arrivare al dunque,
per essere un istante lontani dai problemi,
credendo noi per primi di esser dei gran geni.

domenica 5 febbraio 2012

Diario di LOLA, ottavo giorno, Commissariato

Foto di Brooke Shaden

Sono sconvolta, è per questo che mi sono interrotta.
Mentre ti scrivevo mia suocera è entrata in casa come una furia.
Quella donna e il vetiver che l’accompagna nemmeno salutano più.
È andata di filato nella cabina armadio e poi, al buio, ha attraversato il corridoio per infilarsi nella nostra camera da letto.
Non so perché ma non mi sono neanche fatta vedere. Potevo accendere la tivvù per avvisarla che c’ero, uscire dal bagno di servizio con un asciugamano in testa e l’accappatoio -per evitarle così di fare cazzate- ma alla fine ho preferito seguirla.
Volevo vederla infilare nei cassetti e fra la biancheria intima il suo naso importante e fiero, andare a sbirciare nella mia intimità in cerca di qualche indizio di una relazione extraconiugale o piazzarci dentro bambole perforate da spilli, o qualche Santa cui domandare ogni sera di guarire la mia infertilità.
Un giorno Max me l’aveva anche giurato che non le avrebbe mai dato le chiavi di casa nostra. Il portiere sì, al limite!, aveva detto portandosi la mano sul petto, in piedi sulla poltrona e con lo sguardo da giovane marmotta, a chiunque ma a mia madre mai!, aveva concluso. Poi era saltato giù dalla vecchia Frau di famiglia,–riveritissima dalla madre ma fatta a pezzi dall’incontenibile euforia del figlio- e con la stessa forza vitale che aveva negli occhi mi aveva stretta forte -per limitare almeno un po’ quella felicità vorace?, per non lasciare che si consumasse, nei miei occhi e sotto il suo sguardo, con la stessa velocità con cui era esplosa?-.
Invece, lei stava lì che passava dal comodino all’armadio, presente e viva, e mentre tirava via dalle grucce i miei abiti -per poggiarseli addosso come in una prova frettolosa al mercato o in un negozietto senza camerino - l’ha chiamata Max.
Dopo aver interrotto bruscamente il monologo che parlava del suo bene e di cosa fosse giusto fare “in questa situazione qui”, ha risposto con un sì poco convinto e ha rimesso ogni cosa al suo posto, con calma, carezzando e accostando le stoffe al viso, le camicie di seta tra le mie preferite.
Quale situazione?, avrei dovuto chiederle appoggiata allo stipite con lo sguardo furioso per averla colta sul fatto. Cosa sarebbe giusto fare per lui? E perché?, sarebbe stato sensato domandarle. Oppure sarebbe stato razionale uscire di nascosto per rientrare subito dopo, facendo un po’ di rumore, magari prendendo tempo ad armeggiare un po’ con la chiave nella toppa.
L’avrei salutata con la solita allegria forzata e stridula che riservo solo a lei, e ci saremmo fatte le nostre solite due chiacchiere con un Martini tra le mani –mai più di due e a parecchi metri di distanza l’una dall’altra-.
Lei mi avrebbe parlato dei miei problemi per concludere con il solito “fai come credi” carico di accuse e livore, e alla fine, avrebbe guardato, tenendolo a debita distanza, il vecchio “patec Philippe” del marito per dirmi che sarebbe andata a casa a guardare la tivvù.
Invece sono rimasta nascosta tra la porta del salone e il divano, trattenendo il respiro in attesa che lei uscisse.
Domanderò a Max una spiegazione e poi ti farò sapere.
Ma adesso vorrei tornare al signor Lalama che ho lasciato nel negozio di fotografie che accanto a me guardava forse la pioggia o forse la polvere in vetrina.
La luce livida del temporale faceva da cornice, com’è giusto, a quel siparietto surreale: due che prima di allora non si erano nemmeno intravisti ma pensano che qualcosa li lega o li legherà, che non è mai un caso quando una donna insoddisfatta guarda le labbra di un uomo e ne misura l’intensità del bacio, e che trovarsi da soli, lì, in un negozio dove sicuramente non entrerà nessuno per i prossimi trecentosessanta giorni o forse per l’eternità, è un caso da non sottovalutare.
Ridotti a un cumulo di se e chissà, io e Lalama ce ne stavamo in piedi e immobili.
Non c’era in lui il classico chiasso del dubbio. Non sentivo il tipico rumore del punto di domanda prodotto soprattutto quando è insistente e non aspetta risposta: le piaccio o le piacerò, ho i capelli in disordine oppure no, dico qualcosa o è meglio di no.
Ho ascoltato ancora e mi è parso che in lui ci fossero solo silenzio e calma.
Quando mi ha domandato cosa volessi dal bar, stava tornando al bancone portandosi dietro il suo fare sicuro. Anche Max mi aveva colpito per quello, solo che poi ha cominciato a lasciarlo in banca, a devolverlo ai suoi dipendenti e ai colleghi, ai clienti impauriti da quel distacco così efficace. Ma Lalama era lì, e ha tirato fuori da sotto il bancone un vecchio “rotellone”, uno di quei telefoni grigio topo, che in poche varianti di colore e forma, erano un po’ in tutte le case, anche nella mia, con la cornetta “muta” che mia madre usava per partecipare a certe telefonate commemorative o strettamente confidenziali, o tra noi bambine, quando dopo aver finito i compiti, trascinavamo la prolunga sin nell’armadio e passavamo il tempo in infantili e innocui scherzi telefonici e più tardi in lunghe confidenze amorose.
Gli ho domandato qualcosa di forte e ha ordinato due bourbon on the rocks.
Alle undici e tre quarti del mattino non è da me.
È solo che l’alcol non mi fa più effetto.
Pensare che fino a pochi mesi fa bastava ne bevessi un bicchiere per perdere la testa. E a Max piaceva così tanto quando mi lanciavo sul divano un po’ brilla e ridevo e piangevo per un nonnulla.
Ma basta.
Alla fine non è successo granché. Io e Lalama abbiamo parlato. Lui seduto su quella specie di tavolaccio chiaro e io su una sedia di plastica verde bottiglia ci siamo raccontati delle cose, le solite che ci si dice tra sconosciuti nel tentativo, spesso inutile, di capire al di là delle parole chi abbiamo davanti.
Il suo nome di battesimo è Vincenzo. Vince.
Vince perché un investigatore, Vince perché suona bene in questo mio mondo dove il giallo brilla come sabbia del deserto, i palazzi, dipinti di rosso, sono tramonti riflessi sull’asfalto bagnato mentre il cielo, che non vedo, è sempre dipinto in una stanza. Vince perché è il nome giusto per Lola, quella che se ne sta seduta in un locale fumoso ad aspettare un cliente, la calza smagliata dal tocco insistente di una mano troppo forte.
Le mani, che muove poco, hanno vene scure e sporgenti, e stanno per lo più a riposo, ben aperte, sulle gambe che non accavalla mai –come i politici che vedevo in bianco e nero in tivvù, come gli emiri e i giapponesi, come chiunque abbia rispetto per chi gli sta di fronte-.
Quando alzandomi gli ho detto che avevo perso fin troppo tempo, si è offerto di accompagnarmi. Ovunque debba andare signora, mi ha detto con una galanteria tutta naturale e piena d’ironia mostrandomi l’ombrello.
In Commissariato conosce qualcuno.
Nessuno ci ha fermato in guardiola. Facendomi strada e affacciandosi alle stanze per salutare allegramente e tirando via senza aspettare le risposte, siamo arrivati alla stanza ventitré del primo piano. Ha bussato con una certa deferenza e mi ha poggiato l’indice davanti alla bocca –non stavo parlando-, poi ha preparato il sorriso e curvandosi leggermente in avanti si è infilato nella stanza.
Volevo cercare un bagno ma Vince è uscito dopo un attimo dicendo qualcosa e salutando il suo interlocutore invisibile. Mi ha condotta in una stanza che aveva il minimo indispensabile per sembrare una sala d’aspetto e si è seduto di fronte a me. Esattamente al centro del muro.
Porta calze verde petrolio: le ha lasciate scoperte solo per pochi istanti, mentre sistemava con due dita e per la piega, la stoffa scura dei pantaloni eleganti.

sabato 4 febbraio 2012

Teresa e l'amore masochista

Che ansia la Susanna e certe sue storie d’amore,
li prende tutti uguali: un po’ pazzi e senza cuore.
Ginetto il giornalaio che l’ignora al mattino,
ma quando arriva sera le fa pure l’occhiolino.
Lino il macellaio ha l’aria da gran maschio,
Ma quando sono insieme baciarlo è pure un rischio.


(Leopold Von Sacher Masoch)

Lucio il gommista che la porta sempre fuori,
solo una volta al mese sbollenta i suoi ardori,
Nino il gioielliere le fa tanti bei regali,
e in quanto a perversioni lui proprio non ha eguali.
Mario che è un gran figo e fa pure il gelataio
Le ha offerto il suo cuore pestato nel mortaio.

Pino l’elettrauto che mangia pane e ironia
La bacia e la ribacia e le dice –tu sei mia-.
Luca il dottore che le abita davanti,
le scrive poesie ma rimanda appuntamenti:
dice che ha timore e che trovi lei la cura,
perché lui dell’amore ha proprio tanta paura.


Giovanni il salumiere finge di non vederla
poi quando è da solo le domanda una sberla.
Abbassa la serranda e mette musica italiana,
e con lo spago del salame in ginocchio lui la umilia.
La lega e la offende, si mostra e si nasconde
è chiaro che così lui proprio la confonde.


Salvo l’esattore chiama un paio di volte l’anno,
si scusa del ritardo per l’ultimo appuntamento
- ma sono otto mesi che io ti sto aspettando-
- scusa cara mia, non me ne sono reso conto!-
E così tornano assieme per due giorni di passione
poi sparisce di nuovo ma le invia un regalone.

È questo il tipo d’uomo che a Susanna va a genio,
lui che al posto dell’amore offre solo martirio.
E non è la prima volta, la Susanna lei ci è nata
con la strana vocazione a essere umiliata.
Lei cerca l’uomo forte, lei cerca il maschio alfa,
perché lei nelle storie cerca proprio un’altra solfa.

Anch’io un tempo ho amato un tizio strano e oscuro,
lui parlava per metafore ma io ho tenuto duro,
diceva che per lui ero un po’ pericolosa,
ma davanti alla porta trovavo sempre una rosa.
Si negava e mi sfuggiva come un pesce nello stagno
E dopo tanto tempo non so più dov’è lo sbaglio.

Talvolta si fa sentire, sempre freddo e distaccato,
E io gli voglio bene perché ha il cuore malato.
Lui pensa che a star solo ci guadagna molte volte
Non sa cosa si è perso e le gioie che eran molte,
le mie torte, i tanti baci e le parole ardenti
-ti giuro sono diversa, credimi, accidenti!-.

Comunque la Susanna ora piange in cucina
L’ho trovata in casa sua al freddo in cantina.
Dice che l’amore è la solita manfrina
ti cura da un dolore e ti infligge nuova pena.
Lei passa così da un’emozione all’altra
E pensa in questo modo di essere una scaltra.

L’amore in generale dura solo un istante,
tre anni o forse quattro poi diventa latitante.
Ma lei si è fatta furba e lo trattiene per il cuore,
continuamente rimandando l’ora dell’amore.
Così le sembra sempre di restare adolescente
Quando della morte non ci frega proprio niente.