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domenica 31 luglio 2011

Le gioie della bifamiliare


Non posso certo pretendere che tutti abbiano letto Kant e che sappiano che la propria libertà finisce dove comincia quella dell’altro, e anche se ormai la cultura in pillole si acquista nei Bar e i libretti di aforismi si trovano accanto agli accendini, dal tabaccaio, l’educazione–e aggiungo purtroppo- no.
L’educazione, quella buona, sembra essere stata spazzata via ed è inutile stare a ricordarci il perché.
Conosciamo tutti la debolezza propria dell’essere umano che protende sempre alla prevaricazione e a fare il proprio comodo indisturbato: saltare la fila, parlare addosso all’altro e fottersi donne, soldi e idee dell’altro e, come se i millenni passati non avessero alcun peso, sono queste le attività primarie del nostro homo sapiens. Sappiamo che l’uomo vede se stesso sempre al centro del mondo, ignaro che la propria esistenza è misera, un granello di sabbia, una porziuncola –intesa come luogo dell’anima- così invisibile, che dovrà faticare molto per ottenere peso e magari essere, un giorno, ricordato.
Siamo ben consci che gli eroi del “Grande fratello” saranno presto dimenticati e per fortuna.
Invece, l’uomo della strada, quello che evidentemente non è stato educato a rispettare il prossimo, continua a ingrassare la propria esistenza magra di contenuti facendo rumore, imponendo il proprio chiasso interiore al mondo circostante.
Quando i miei nuovi vicini si sono trasferiti, ho suonato il campanello di casa loro con un grande sorriso e con in mano un cesto di prugne del mio giardino - mia nonna mi ha insegnato che se non sono loro a farlo, è buona educazione porgere il benvenuto per primi e offrire la nostra completa disponibilità-, e ho pronunciato le solite frasi di rito «Di qualunque cosa abbiate bisogno, siamo qui accanto!».
In effetti, i due anziani mi hanno guardata come se fossi scesa da un altro pianeta, e si sono sentiti così autorizzati a darmi del “tu”: ed ecco che un primo mattone dell’alto muro della mia privacy è inesorabilmente caduto.
I lavori di ristrutturazione mi hanno fracassato l’esistenza per circa una settimana, grazie a Dio con tante scuse da parte degli anziani e la promessa che non sarebbe accaduto mai più. «Ma ci mancherebbe altro, è normale, state tranquilli» è stata la mia risposta calma, e nonostante il mio lavoro ne avesse risentito.
«Sa, il muro è spesso ma la distanza che ci separa è veramente poca anzi, mi dica pure se il volume della tv è troppo alto» aggiungo io che nella vita cammino in punta di piedi e che ho ricevuto un’educazione quasi ottocentesca.
Non dico che si debba sapere come e di fronte a chi alzarsi quando si viene presentati a qualcuno durante un party o al caffè, come stare a tavola e usare le posate giuste, come comportarsi dopo una cena, -ne ho date tante in vita mia e avrò ricevuto sì e no, due biglietti e tre telefonate di ringraziamento-. Basterebbe porgere l’orecchio per rendersi conto che se il tuo vicino alza la voce lo senti chiaramente e quindi, logica vuole che se compri ai tuoi due nipoti maschi già rumorosi per natura, l’ambulanza elettronica, frantumerà i nervi a tutto il vicinato giacché, il tuo giardino, dista appena un metro dal mio.
Non credo sia un problema di etichetta, di bon ton e galateo, nemmeno di educazione e buon senso ma solo di discrezione.
Io non tollero che i miei vicini sappiano cosa mangio, che film guardo, come parlo o come faccio l’amore, ma forse sono anche una che non guarda i talk show di Maria de Filippi.
Svolgo la mia vita in silenzio, e anche quando si accende una discussione, ci metto il silenziatore perché, fra l’altro, spaventa più una minaccia detta sotto voce piuttosto che urlata.
Di loro so che sono maneschi, che non sanno usare il congiuntivo, che lui è un ex ferroviere e lei casalinga, che la figlia lavora in qualche ente (almeno potesse essermi utile!) e il figlio è guardia giurata. So che lui ha settantacinque anni e ha avuto un incidente grave, che è allergico alle melanzane e che preferisce il pesce alla carne, che la moglie è sua succube e che in passato l’ha tradita. E conosco tutto questo dopo solo un mese che vivono qui e non perché io abbia le orecchie lunghe, ma perché superano di continuo i propri confini e s’insinuano dal giardino nella mia stanza da letto, mentre riposo, e dal cortile interno nel mio studio, mentre penso, leggo, scrivo: perché in villa è più comodo urlare qualcosa dal piano di sotto piuttosto che alzare il culo –così come mi hanno insegnato- e andare al piano di sopra a riferire. Perché se il bambino strilla, bisogna urlare più forte per farlo tacere, e tirargli un ceffone sonoro anziché ragionarci un attimo assieme e fargli capire che ci sono “altri signori” accanto e che non si deve urlare.
Mangiano frittura tutte le sere e fanno grigliate con amici un giorno sì e l’altro pure e ormai, potrei scrivere un trattato sulla telefonia, sulle nuove tariffe telefoniche e sulle compagnie che “te se inculano di più”. I loro discorsi non toccano mai la politica e la cultura “tanto chi se li incula”, navigano nel proprio piccolo bicchiere d’acqua a vele spiegate, si muovono nella pozzanghera della propria esistenza terrena come se viaggiassero su un transatlantico o sulla più bella nave da crociera.
Io, da qui, non posso far altro che prenderne atto, tenere la musica in cuffia a tutto volume, e vendicarmi, scrivendo della loro infinita maleducazione e mancanza di rispetto augurandomi che, non si sa mai, un giorno mi leggano e si vergognino un po’.

lunedì 25 luglio 2011

Solo un paragrafo bellissimo da “Col corpo capisco“ D. Grossman


"Nei momenti di tranquillità, lui lo sa, loro possono immaginare di avere tantissimo tempo a disposizione, di non dovere soccombere all'istinto, quell'istinto così disumano e comprensibile, pensa Shaul serrando le labbra, lanciarsi l'uno contro l'altra e l'uno dentro l'altra, trincerarsi, scavarsi a vicenda, sollevarsi e abbassarsi e ansimare così, come fanno tutti i giorni, da anni ormai, dieci, in una frenesia disperata, costretti a sfruttare fino all'ultimo i pochi momenti di vicinanza, quando ogni cellula del corpo è come una bocca spalancata che bacia, succhia, lecca, morde".
(Col corpo capisco- D. Grossman- Oscar Mondadori)

giovedì 21 luglio 2011

Anita e la cena del venerdì.


Al quarto piano, ansimo già in modo preoccupante.
Abitare in centro è una fortuna, avere una casa con terrazza può anche salvare la vita, ma arrivare da lui mi pesa ogni volta di più. E gli devo anche portare la spesa.
Quei gradini infernali non finiscono mai, e dopo le quattro rampe basse dei piani padronali, me ne sarebbero toccate altre due, strette e dissestate, mortali.
«Anita? Il latte... ne hai presi due litri?» mi sente che sono ancora a metà della penultima rampa: Emilio è un cane da tartufo.
«Fammi almeno arrivare!» gli rispondo ogni volta, prima di riprendere a salire e misurare il fiato e il battito cardiaco: io sto invecchiando.
Sono decisa a dirglielo, sono pronta a tutto, stasera non farò finta di niente, non finirò anche stavolta per riportarmi al piano terra tutto quel tremore, quella passione irrazionale e stolta che mi prende quando gli sono accanto.
M’innamorai di Emilio immediatamente, appena misi piede in scena, al primo provino che tenne a Prato. Capii che era l’uomo per me quando mi urlò che ero una cagna e mi mollò un ceffone in piena faccia, –era solo una prova, un modo rapido, anche se doloroso, per farmi centrare la parte-.
Mi baciò la sera stessa, come da copione, sotto il pergolato di glicine di una trattoria fuori porta, una luna autunnale pendeva sulle nostre teste e sulla campagna Viterbese.
«Anita! Vieni! Dammi un bacio!» mi urla dalla cucina -la sua voce mi avvolge calda e morbida come una “vellutata” di asparagi e funghi- e io sorrido, lo faccio sempre, compiaciuta come una bambina alla carezza del padre, alla premiazione a scuola.
Emilio e io avevamo deciso così una sera, in camerino, lui con il cerone in faccia e io che mettevo la matita sugli occhi. Io e il mio maestro, regista e attore preferito, saremmo stati - così mi disse attraverso lo specchio e il trucco- solo e soltanto amici. Poi mi palpò il sedere ridendo, una consuetudine antica tra attori, abituati come siamo, e anche inclini, a una certa promiscuità e confusione di sentimenti.
Io lì per lì non ci feci caso, non volli dare troppo peso alle sue parole, e poi mi sentivo forte del fatto che era un uomo, che alla fine avrebbe ceduto alla voglia o alla curiosità, o a entrambe.
Sempre quella sera ci baciammo a lungo, in quinta, ma niente di più di un rito scaramantico, un piccolo "a parte" della recita.
Il suo odore aveva impregnato ogni cosa, in quarant’anni ogni oggetto, libro, mobile o stoffa di quella casa, sapeva di Emilio, che a sua volta profumava di legno, borotalco, tabasco, cuoio, chiodi di garofano e timo.
Sempre appoggiando la voce mi urla «Anita lega i capelli!» e disposti i cibi su due file ordinate, mi guarda in silenzio.
Stai bene stella! Mi dice, sei bella Anita!» e comincia a tirare fuori i tegami. Emilio mi offre da bere e il sole può tramontare.
La serata inizia così.
E mi sembra ancora più bello. Lo guardo da ogni punto di vista e trasparenza e mi domando dove sono finiti tutti i suoi anni, le migliaia di sigarette e le ore di sesso sfrenato spese con tutte ma non con me. Mi domando perché, nonostante questo taglio sempre aperto sul quale Emilio sparge sale, io non manco mai un appuntamento.
Emilio è, nella mia esistenza, il retrogusto ben nascosto che salta fuori all’improvviso e mi sorprende, e così, da vent’anni e con qualunque condizione meteo o di salute, l’ultimo venerdì del mese ceniamo assieme, io e lui, da soli, nella sua piccola casa da attore in Via dei Coronari.
Io, da aiuto cuoco e in tutto quel darsi da fare, posso guardarlo senza essere vista, porgergli la forchetta così da sfiorargli le mani, e addirittura cingerlo, per allacciargli il grembiule.
In sottofondo sempre la radio, sempre classica.
Solo dopo un po’ che sminuzza, taglia e frigge, mi racconta di sé e chiede di me, di tanto in tanto, sempre meno con il passare degli anni. E io recito la parte della donna felice.
E mondando sedano e cipolla mi dico che anche quel venerdì sta finendo, e da domani dovrò di nuovo consumare con rapidità le mie giornate per arrivare al prossimo venerdì, in fretta, il più in fretta possibile. Fra poche ore mi toccherà mettere il cuore in ghiacciaia o sotto sale e chissà per quanto tempo.
Finisco per non dirgli nulla, le parole che recito ogni volta salendo quelle maledette scale, le dimentico all’improvviso, sciolte nell’emozione come farina nel burro, sfrigolanti anche loro nella confusione che genera solo rossore e balbettio, come una giovane allieva alla sua prima recita, come nell'incubo ricorrente di qualsiasi attore.
E poi, un –ti amo da sempre e soffro come una bestia - non darà mai l’esatta misura della condizione in cui mi trovo da tempo.
«Anita, uova!», e gli apro le uova lasciando scivolare il tuorlo nell’impasto e sulle sue mani, le stesse che conosco a memoria e mi toccano ogni notte, nonostante te, Emilio, e i tuoi buoni propositi.
«Anita il latte, latte caldo presto!», e mi brucio le dita.
«Mescola! Occhio ai grumi» e controlla il lavoro, e sporgendosi sulla spalla mi sfiora l’orecchio.
Emilio è maschio fino all’eccesso. I movimenti misurati di chi è stato Amleto e Re Lear, Oreste e Giasone.
Il mio Maestro, attore e regista preferito mi ha condannata, relegata nel ruolo privilegiato di amica e sorella, e dall’ultima fila del nostro teatro itinerante, lo guarderò esibirsi fino all'ultima replica.
Il forno è acceso. Manca ancora una spruzzata di noce moscata! Mancano le tartine e circa quattro ore al nostro arrivederci.
E il mio “no”, s'infrange sul calore morbido delle sue parole, si avvolge tra le sue dita mentre gesticola parlando di sé e del vino, si arrende, come ogni volta, alla maledetta speranza che chissà quando, qualcosa accadrà.

martedì 19 luglio 2011

La fortuna non esiste


Le richieste di “saperne di più”, mi arrivano da un numero sempre maggiore di lettori. Io arrossisco un po’ e mi metto al lavoro.
Potrei sbrigarmela inviando o trascrivendo il materiale che mi arriva dal Tempio, ma in realtà sono anni che vorrei “dirla” a parole mie.
Certo sarebbe opportuno parlarne nella mia casa, raccolti in ginocchio davanti al Buddha la stanza in penombra illuminata da candele, profumata da incensi, e forse, il momento verrà.
Questo “Moments” spirituale non vuole essere un trattato sulla mia scuola di pensiero, è solo un libero ragionamento sulla mia esperienza che può fornire indicazioni e spunti di riflessione a chi voglia conoscere percorsi alternativi a "certe" pratiche new age, più materialiste e forse lontane dal vero spirito del Dharma (Legge).
C’è stato un periodo della mia vita, lungo lo ammetto, in cui l’ignoranza – uno dei sei mondi inferiori - mi portava a credere che oggetti, persone o pensieri, percorsi stradali e date, una faccia particolare o un nome, mi portassero fortuna o sfortuna.
Pensarlo è normale, chiunque tende a dare la colpa di ciò che accade all’esterno di sé e delle proprie capacità, è più facile, comodo.
Ma così non è. La prima cosa che ci viene insegnato una volta in ginocchio e con il Juzu fra le mani è che tutto dipende da noi.
Se bevo molto alcol, il giorno dopo avrò sicuramente un gran mal di testa, così se rimango al sole durante le ore di punta, mi brucerò. La colpa però non è né del sole né dell’alcol ma dell’uso sbagliato che abbiamo deciso di farne. E il bello è che, in fondo, lo sappiamo bene che ciò che stiamo per fare, dire o pensare, avrà una conseguenza precisa.
Questa è una legge naturale e semplice, ed è l’unica che osservo: la legge di causa ed effetto.
Su questo si basa la mia pratica, sulla valutazione degli effetti che certe cause (pensieri, parole e azioni) avranno sulla mia vita.
“Se vuoi sapere il perché della tua vita presente guarda alle azioni passate, se vuoi conoscere il tuo futuro guarda alle azioni quelle presenti”. Così è scritto in uno dei tanti Gosho (lettere) che Buddha Nichiren Daishonin, allievo della scuola Tendai e “Buddha vivente” scriveva nel 1.200 d.C., in esilio nell’isola di Sado, ai suoi seguaci.
M piace l’idea di essere solo io l’artefice del mio destino. Che siano solo i miei pensieri, le mie parole e le mie azioni a far girare la ruota in un senso o nell’altro, io, il timone stesso della mia nave.
È stato sorprendente andare in cerca delle cause dei miei fallimenti e delle mie vittorie e scovarli, anche quando sembrava che non ci fossero e che fosse tutto merito o colpa del destino crudele e del fato poco magnanimo.
E così, delegando agli altri la mia miseria e tenendo per me solo i meriti, finiva che non vedevo più la direzione: avevo perso la bussola e continuavo a ricadere sempre negli stessi errori.
Proprio oggi pomeriggio, sorpresa da un piacevole stato di dormiveglia, ne ho trovato uno, invisibile, ma un errore forse determinante che, evitato, avrebbe “salvato” una precedente situazione. Sapere se poi la mia vita sarebbe stata migliore, questo non può essere chiaro neanche al Buddha ma sapere dove risiedeva la distrazione fatale questo sì, può essere utile.
So che leggendo queste righe chiunque può pensare che questo è ciò che fa ogni giorno, ma non è così. Non è così fino in fondo, se non si frequenta una “pratica” quotidiana dello spirito.
Prima di incontrare la “Via”, non riuscivo a essere lucida, ero preda della “passioni” ossia dei sei mondi inferiori che abitano, assieme ai quattro “superiori”, ogni essere umano.
Il problema non è l’intenzione che ognuno di noi ha di cambiare la propria sorte e di smetterla di auto compiacersi del proprio dolore, ma è il mezzo che usiamo per farlo. Il Buddhismo non è qualcosa che ci domina ma qualcosa che ci serve.
Serve a guardarsi e guardare, contemplare e capire qual è il mondo preponderante dentro di noi e far sì, con il tempo, che questi dieci mondi, fra loro comunicanti, siano perfettamente in asse, trovino l’equilibrio che nel Buddhismo è diverso per ognuno.
Il mondo d’inferno, il primo e il più vasto è quello della sofferenza permanente. Capire di essere preda di un istinto distruttivo, o collerico (il secondo dei mondi inferiori),o arrogante, è il primo passo per districare la trama che abbiamo davanti, il “renghe”. Per farlo sarà necessario applicarsi, sacrificare ore della propria giornata sia alla recitazione del Sutra Gonghio, che al canto del Daimoku, che letteralmente significa “titolo”.
Attenzione! Non pensiate di essere cascati in uno di quei gruppi così diffusi anche in Italia, anche se la “pasta” di cui è composta questa pratica sembra la stessa!
In questa “Scuola” non c’è nessuno che fa miracoli, ma solo la nostra forza che aumenta e si sviluppa con il passare degli anni e delle ore trascorse in meditazione. Capacità psichiche e fisiche che si attivano sviluppando una una sinergia fra interno e esterno.
Nessun Maestro né responsabile potrà consigliarci e guidarci ma solo i Preti (questa la tradizione più fedele del termine), e il Patriarca.
Nessuno ci imporrà scelte per cambiare la nostra sorte, nessuno ci chiederà di partecipare a maratone di preghiere collettive: la preghiera, la richiesta di un “dono” non fa parte di questa pratica.
Il mantra che recito non mi aiuterà a trovare lavoro, o l’amore, sicuramente però, rafforzerà la mia convinzione e la mia determinazione.
So che quando suono la campana e comincio a cantare, anche il peggiore dei mondi mi sembra pieno di tesori nascosti, e che da quando ho capito come “trasformare il veleno in medicina”, sono ogni giorno più serena e soddisfatta.
Recitare due volte al giorno il Sutra richiede una certa forza.
A volte, soprattutto all’inizio, finché la pratica non è diventata parte integrante della mia giornata, i demoni della pigrizia, della paura e dell’ignoranza mi aiutavano a trovare mille pretesti per evitarmi questa fatica. Mara in persona (uno dei demoni più forti), e le sue belle figlie, si davano un gran da fare a suggerirmi distrazioni dalla contemplazione e dalla verità (che nel Buddhismo sono quattro e Nobili).
Ma quando riuscivo a suonare quei tre tocchi subito la porta del Dharma si schiudeva.
Una volta compreso il meccanismo, è finalmente giunto il momento in cui molte delle mie azioni –ancora non tutte purtroppo-, mi hanno condotto al piacere e non più alla sofferenza.
Ma con calma.
Ogni scuola ha una pratica spirituale diversa, io, pur facendo parte di una Scuola Ortodossa, preferisco pensare che non ce ne sia una migliore dell’altra, purché si rimanga nell’ambito di Leggi e Templi storici e della spiritualità non mercificata (gadget, pagamento di piccole o grandi somme di affiliazione e richiesta costante di propagazione della propria setta).
Al di là dei piccoli e grandi bluff, rimane il rito, quello puro ed essenziale per “aprire” una sfera diversa di pensiero.
Molti mi dicono che la propria meditazione è la musica, la scrittura, un lavoro manuale qualunque ma se così fosse, la pratica spirituale avrebbe un altro nome.
La pratica è una ginnastica giornaliera, come il pilates il walking o le scale al pianoforte. Non chiederei mai a un pianista di “scaldarsi” cantando un mantra, o a un atleta di farlo recitando il Sutra, non vedo perché il contrario sia invece praticabile.
La Fede non è così diversa dall’Amore.
L’amore non lo vediamo eppure non ne neghiamo l’esistenza, anche se lo teniamo lontano, ne andiamo in cerca di continuo. Della fede hanno parlato anche i poeti eppure, continuiamo a guardarla con diffidenza.
La pratica ci rafforza e ci aiuta a scegliere in quale stato vitale vivere. Scegliendo di uscire dalla disumanità dei sei mondi inferiori, saremo in grado di avere la mente aperta e di vedere chiaramente quale strada percorrere, di scegliere le azioni da compiere e di alleggerire il nostro Karma (argomento che merita un paio di capitoli a parte).

sabato 16 luglio 2011

Quando il papà è in vacanza...


Dopo un giugno pescoso tra i seni procaci e rifatti di trentenni single adescate all’ombra dei caffè del centro storico, alla fine di un mese di lavoro quieto, dietro la larga scrivania di qualche assessorato o di una banca, terminato un estenuante darsi da fare davanti al Tv tra sane partite alla play station e la fine del campionato con tanto di fantozziano "rutto libero" ecco che, il maschio italico, raggiunge la piccola villetta al mare per riunirsi, “ob torto collo”, in seno alla famiglia.
Le feste per il suo arrivo non sono ancora terminate, chili di peperonata preparata dall’amata suocera e melanzane alla parmigiana lo hanno appena appena sfamato da un mese di sesso sfrenato –a suo dire- e da risotti e paste precotte.
Sulla sdraio, nascosto da figlie, mogli e nonne, lo vedo darsi da fare con questioni di cui, fino a qualche giorno prima, ignorava persino l’esistenza. Confonde i nomi dei figli con cui cerca di essere affettuoso e di riprendere un discorso interrotto l'estate precedente e finge di non ascoltare le loro urla di cui, nella quiete oziosa dell’appartamento romano, aveva dimenticato l’esistenza.
Cosa farà quell’uomo pieno di sensi di colpa nel vedere la sua bimba, ormai adolescente, tatuata e in perizoma, correre festosa verso un gruppo di ragazzi dall’aria capace?

Io, dalla mia spiaggia libera a un passo dal suo ombrellone, non niente da fare se non leggere notizie, sempre le solite.
Mi annoio a morte e decido di seguirlo, guardarlo non vista, dietro grandi occhiali da sole.
Conto quante volte prende e lascia quel benedetto cellulare: dieci, in otto minuti e trenta secondi.
Annoto quante volte apre e chiude l’ultimo di Camilleri: al momento ha letto solo il retro di copertina.
Il maschio si guarda attorno e sorride stordito dalle chiacchiere della moglie, fuori forma e inquieta, che è ormai al decimo resoconto della settimana.
Lui, sembra comunque felice, annuisce di continuo e se proprio deve dissentire, abbassa appena gli occhiali e lancia un’occhiata, almeno per sua moglie, severa.

È evidente che ha promesso a se stesso di dedicarsi alla sacra famiglia, di ribadire regole a sua insaputa infrante da anni e mentre guarda il figlio domandandosi stupito da quanti anni porta gli occhiali, vede una bionda che si avvia fra le onde.
Ha capelli lunghi e l’abbronzatura di chi prende il sole da quando è finita la scuola: a colpo d’occhio, il mio,  è un’adolescente.
Lui evidentemente non ha la vista lunga e, atletico, sfoggia, tirandosi su dalla sdraio, addominali appena accennati, risultato del lungo e inutile lavoro invernale.

Sulla riva, mentre ancora valuta la temperatura dell'acqua e immediatamente circondato dai figli, rinuncia a raggiungere la sirena dal colore ambrato e ripiega sul bar. Generoso, riempie i marmocchi di coni e ghiaccioli sperando così di comprare il loro silenzio e di potersi calare in acqua in santa pace mentre vago, rivolge ancora uno sguardo agli scogli, abbastanza distanti dalla riva, dove la ragazza, selvaggia e dorata come una donnina di Manara, si è morbidamente distesa.

A questo punto poco importa se Chiara è in sella a un centauro e fuggirà oggi stesso con un maggiorenne abbronzato perdendo verginità e onore. Chi se ne frega se Matteo è stato picchiato a sangue assieme ai suoi occhiali e se il piccolo Lorenzo si sta per buttare in acqua con la pizza in mano: il cinquantenne è preda del miraggio,  lui,  è stato chiamato.
Riesce anche a spazientire la moglie quando a un carico di affetto «vengo con te amore» risponde secco «bada ai regazzì che è mejo».

Ce l’ha fatta.
Finalmente libero, nel suo metro e ottanta, si avvia verso i flutti.
Si trattiene alcuni minuti sulla riva, guarda indietro pensoso come avesse scordato qualcosa, sarà il senso di colpa o la paura a trattenerlo? No, dura solo un istante.
Eroico si tuffa rumorosamente in acqua facendo molta schiuma, ignaro di aver richiamato su di sé gli sguardi affettuosi di tutta la famiglia che ora, ammirata, lo segue allontanarsi verso gli scogli in uno stile che, più che libero pare solo disordinato.

Pende tempo e fa alcuni giri di boa, si lancia più in là e sembra approdare sugli scogli, invece no, desiste e si spinge oltre.
Aspetto qualche minuto e riapro il giornale: meglio la settimana enigmistica.
Niente, non mi concentro, la verità sono assai preoccupata per il suo cuore di sicuro appesantito da sigarette e vino, gricia e carbonara.
Rivolgo di nuovo lo sguardo agli scogli e lo vedo, fatto il giro del piccolo molo ecco il vile spuntare da dietro gli scogli: la prende alle spalle.  
Allungo il collo e inforco gli occhiali, da dove sono lo vedo sorridere alla bionda che, inaspettatamente, si alza per dargli la mano e sorride.
Lui annuisce e ride e dopo appena pochi istanti si esibisce di nuovo in un pericoloso tuffo di testa con relativa panciata cui moglie e suocera applaudono dalla riva compiaciute.
Ha il fiato corto quando si butta sulla sdraio, il suo cuore gonfio pare voler sfondare la cassa toracica.
«Bellina la figlia di Guido eh?» gli dice la moglie con un largo sorriso tirato.
Lui cala il sipario, abbassa gli occhiali sullo sguardo annoiato «visto, visto... » e apre il suo libro a pagina uno.
«Bella eh? Ha un corpo davvero invidiabile» rincara la dose la moglie morbosa.
«A che ora si pranza?» il marito cambia discorso e posizione.
Sì, mettiti di schiena, è meglio, che stavolta hai preso un grosso granchio!

martedì 12 luglio 2011

Sassi

(foto di Vittorio Triggiani)

Chiusi nelle scatole di latta hanno perso il loro profumo, quello del mare e quello della terra, della roccia di montagna e del tufo.
Li dispongo sul mio letto in tre file uguali e in ordine di grandezza così farò passare il tempo -questa enorme quantità di ore che nella mia esistenza scorrono più lente che per gli altri, per il resto dell’umanità così indaffarata e chiacchierona-.
Me li porto dietro da sempre, è l’unica collezione che nella mia vita disordinata sono riuscita a mettere assieme.
In effetti, non me n’è mai riuscita una. Nemmeno da bambina.
Carla, invece, era una collezionista nata, lei riusciva a terminare gli album di figurine prima di chiunque, ed erano così ordinati e nuovi che tutti la invidiavano, a parte me, che ero la sua migliore amica.
Carla era precisa in tutto, puntuale e ordinata –eccezion fatta per i capelli, una massa informe di riccioli crespi e biondi-.
Questo sasso, appena rosato con le striature più scure e un po’ in rilievo, è stato il primo della collezione: ero con Carla.
Giocavamo sullo spiazzo grande davanti alla scuola e come ogni mattina ci spezzavamo le dita ad acchiappare le cinque pietre, o meglio, io me le spezzavo, lei vinceva sempre. Si concentrava come un gatto in attesa della preda per poi lanciare le pietre con un gesto della mano breve e secco, e le pietre saltavano in aria tutte assieme, come incollate tra loro, per ricadere l’attimo dopo proprio al centro della sua mano perfetta.
Una vera fortuna averla come amica! E quel giorno la pietra stava proprio accanto alla sua scarpa, e mi sembrò molto sola.
Carla rise della mia fantasia infantile e di quell'abitudine a dare un’anima alle cose. Ma ero così, ancora stordita dalle fiabe volevo credere che tutto avesse un pensiero proprio, anche quel sasso, che mi guardava dal terreno. Così lo infilai nella cartella sotto gli occhi sorpresi di Carla e lo nascosi per bene da qualche parte.
È chiaro che durante i tanti traslochi e in quarant’anni di vita ho dovuto selezionarli i miei sassi, non è stato facile, e gettarne via alcuni è stata una complicazione imbarazzante.
Non ho più quello raccolto in Irpinia il giorno dopo la sospirata maturità. Io avevo preso sessanta, Carla, anche la lode. Lo raccolsi nei pressi di un dirupo, sembrava un’isola. Certo, ogni sasso può sembrare un’isola, ma quella era esattamente come nel mio immaginario è un’isola deserta: più lunga sui due lati, ampia dove si stagliano le rocce, a picco sull’oceano.
Anche quello che volevo lanciare contro la macchina di Stefano quando scoprii che aveva baciato Carla, l’ho dovuto lasciare, anche se la rinuncia alla violenza val bene un souvenir. Ma forse non mi andava più di ricordare Stefano, lui e il suo perfezionismo da futuro ingegnere, e la sua lentezza nel prendere iniziative, almeno con me. Sta di fatto che anche se era bellissimo, quel grigio sasso di mare bitorzoluto con una voragine esattamente al centro, fu abbandonato nella casa di Via degli Ibernesi.
Lì ho vissuto la mia storia estrema con Nico.
Quando me lo mise in mano, il sasso, era una notte di luna piena, come da copione, e mi disse che il suo cuore era esattamente così, una pietra larga e dura ma senza aperture, nessuna voragine improvvisa. Peccato scoprire, un anno dopo, che si era perdutamente innamorato di una tipa e che la voleva sposare. Naturalmente si trattava di Carla.
Adesso lo uso come fermacarte, così la prossima volta me lo ricorderò di non dare troppo credito al mio sesto senso, di non pensare che l’amore, se si sente, vuol dire che vive e arde anche nell’altro.
È anche bello pesante ma troppo piccolo come ferma porta, e in questi giorni di maestrale, qui sulla costa, uso il sasso che trovai in montagna. Ci inciampai correndo attraverso un campo, la vista annebbiata da un pianto a dirotto e dalla pioggia.
Era un giorno noioso di quelli che proprio non trovi niente da fare, nessuna concentrazione per leggere, zero voglia di cucinare e nessuna TV. Anche la settimana enigmistica era sparita!
Franco fu evasivo quando volli fare l’amore con lui, poi si eclissò nel bagno, e fu da lì che mi urlò che da due anni aveva una storia, con Carla.
Questo sasso, invece, questo magnifico sasso perfettamente tondo, appartiene a una notte d’inverno.
È bello, forse è il più bello di tutti così perfettamente liscio che si direbbe lavorato da qualcosa di più che dal tempo. Questo sasso sferico venato appena di giallo si adatta perfettamente alla mia mano piccola, e sa ancora di mare. L’ho usato su Carla, ieri sera, e più di una volta, di seguito e con forza. Scoprire che anche il mio secondo marito ha una relazione con lei da più di un anno mi ha fatto pensare che forse, certi oggetti, hanno veramente un senso.

sabato 9 luglio 2011

Addio, romantico cyber love.


Finite le romanticherie al buio del web 1.0 e quelle ancora opache del 2.0, ci si dirige con passo certo verso il crudo e crudele realismo delle video community.
Il nuovo plug in che sarà applicato a Facebook metterà molti utenti in crisi, toglierà a tutti (bellissimi inclusi) “quel pizzico di fascino in più” costringendoci a mostrarci così come siamo, sempre.
Sono secoli che la rete offre l’opportunità di scoprire diversi mondi e soprattutto modi nuovi di relazionarsi e forse, un po’, anche di amare.
Dico un po’ perché ho sempre pensato all’amore come a una conseguenza naturale dell’attrazione fisica in primo luogo e poi, di quella mentale.
Ai cosidetti amori “di testa”, ho sempre ceduto con entusiasmo essendo una donna più che razionale e anaffettiva, ma non ci ho mai creduto fino in fondo; non che ci sia niente di male, ma di tanto in tanto, un saltello nella realtà fa bene a chiunque. E poi, e lo dico per esperienza diretta, dietro certe storie che si trascinano per anni senza che si concretizzino mai, si nascondono esseri patologicamente incerti che, se riportati nel reale, sono anche pericolosi.
Comunque, adesso la rete è alla portata di tutti, anche di mia madre che fino a qualche anno fa non sapeva nemmeno accendere il PC e che ora legge i quotidiani e prenota on line anche i viaggi.
Però io ricordo con una certa nostalgia il brivido di navigare in anonimato e di conoscere personaggi sempre fuori dal comune.
Allora, parlo della metà degli anni novanta, la rete era inaccessibile a molti e forniva certamente spunti più interessanti, direi autenticamente “hot”.
Sui newsgroup di musica, di jazz o di teatro potevo scambiare opinioni con critici e musicisti che, oggi come oggi, si fanno gestire le pagine sulle community da qualcun altro o peggio, non rispondono.
Le community esistevano anche allora ma erano frequentate fondamentalmente da “esperti” da pionieri dei “generi” e non dalla massa: il sado maso, per esempio, e tutta la famiglia del BDSM, ho avuto modo di scoprirlo nella maniera più giusta, chattando e scambiando opinioni con veri esperti del genere. Oggi ho fatto un giro da quelle parti per dare un’occhiata alle novità, e ho trovato solo ridicoli e pudici annunci di novizie e pseudo Master in cerca di roba light e vanilla, vocabolari del bondage e spiegazioni elementari di certe pratiche basilari.
La rete è ormai piena un sapere diffuso e caotico, superficiale e troppo spesso poco interessante.
Sì, la rete non è più quella di una volta.
Un tempo, per scovare qualcosa di veramente “in” dovevi farti consigliare da gente proprio “cool” e che conoscesse a fondo il “net” oggi, la rete è piena di cadaveri, di vecchi siti in decomposizione, di contenuti e di notizie inutili.
Le relazioni che prima, nel preistorico seppure così vicino 1.0, si protraevano in chat per mesi e mesi e prevedevano carteggi assai lunghi, poetici e ricercati -e anche rari, visto quanto complicato era avere una connessione a portata di mouse-, oggi si consumano nel giro di poche ore. Quelle “liason” che ci lasciavano sognare per mesi, e che solo se abbastanza convincenti si tramutavano in notturne ed estenuanti conversazioni telefoniche e poi, forse, in un emozionante incontro “al buio”, si esauriscono oggi alla prima video chiamata.
E poi vogliamo paragonare il batticuore e il senso di sfinimento dell’attesa di una “snail mail” con quello ben più breve e deludente dell’e mail?
Ma ormai ci siamo dentro da anni, e io mi rendo conto di appartenere a un’antiquata elite.
E in fatto di relazioni, i tempi si accorceranno ancora di più, a discapito, come accade sempre più spesso, di sensibilità e belle intelligenze fisicamente inadeguate, almeno per certi canoni TV.
E se prima potevamo passare dei mesi a sognare e “cristallizzare” l’oggetto del nostro desiderio, oggi ci troviamo costretti a fare giornalmente i conti con il suo insensibile disinteresse e la sua cupa distanza, anche se è lì, magari on line, che chatta da ore con chissà chi.
Oggi, infatti, possiamo sapere in qualsiasi momento quando il nostro “oggetto di attenzioni” è on line: tutte le attività svolte lasciano una traccia, foto e brani postati, stati e amicizie, e la fredda passione via pixel si svolge fra ipotesi e tesi, botta e risposta rapidi e talvolta troppo istintivi, di cui spesso ci pentiamo.
Il soggetto “x” e il soggetto “y” di calviniana memoria, già messi sotto scacco dalla telefonia mobile, non potranno mai più vedere prolungarsi a dismisura l’attesa di un incontro d’amore a causa di un appuntamento sbagliato, del ritardo del treno o di un problema improvviso.
Il dubbio corrosivo, quello ahimè assai romantico della passione non corrisposta, lascia spazio all’autentico e inequivocabile “non ti voglio” espresso attraverso il semplice ignorare un’e mail o un breve messaggio in chat.
L’offesa è dietro l’angolo, nascosta da un’indifferenza mai provabile concretamente.
Lo sviluppo delle tecnologie e il web democratico hanno portato all’afflusso delle masse nelle community e all’imbarbarimento della rete prima auto regolamentata da una lista precisa di diritti e doveri, dettati dai pionieri del network. Oggi la gente ti chiede l’amicizia e nemmeno saluta, non ringrazia e se hai qualcosa da ridire, ti cancella senza dare spiegazioni e tira via.
Sarà complicato da ora in avanti, trovare on line qualcuno che ci piaccia per come è ma anche per ciò che pensa e dice, e se prima potevamo tirare avanti per un po’ illudendoci di aver sconfitto la nostra fisiologica solitudine, adesso ci troveremo a fare i conti con la cruda realtà.
Meglio quindi tornare in strada, perché fra barbarie e barbarie preferisco l’umanità di un “vaffanculo” detto a voce.

giovedì 7 luglio 2011

Mens sana in corpore sano


Questa mattina in spiaggia mi sono domandata quanti dei signori in acqua e dame sull’arenile abbiano fatto i conti con la stagionale “prova costume”: a parte i cinque bagnini under venti, credo nessuno.
I signori, quasi tutti ammogliati e sotto l’ombrellone, avranno anche un certo fascino seduti dietro le scrivanie, o nella bmw ultimo modello; potrebbero anche far venire qualche pensiero hard alla trenta-quaranta-cinquantenne single ma anche non, vestiti della loro autorità lavorativa e pieni di quel “non so che” da solida stabilità economica ma visti così, non sono nemmeno passibili.
Forse, al supermercato, e se hanno la decenza di infilare pantaloni chiari e camicia a maniche lunghe, ampia e ben ventilata, evitando accuratamente le infradito di gomma -visto che esistono sandali eleganti e maschili- possono anche attirare per un attimo lo sguardo ma, haimè, in troppi si aggirano in pantanoloncino combat e canotta tra gli scaffali, tanti dall'aria sfatta di chi non ha più ambizioni.
Peccato! Il supermercato è un ottimo posto per idee piccanti!
Se è vero che la donna, una volta gratificata dal matrimonio e dai figli, si lascia andare a bigodini e pigiami di pile, è anche vero che l’uomo non ha un grande rapporto con lo specchio e la classe.
Innumerevoli, è vero, sono le vittime di affettuose mogli preda di acquisti compulsivi da “saldi di fine stagione”. La Polo scelta -va male quando le prende in serie- è di colore squisitamente femminile, giallo pallido e azzurro Magritte. Oggi ne ho visto uno taglia extralarge e appena rosato dal sole che mi pareva i tre porcellini fatti uomo.
Io sono per la camicia e i pantaloni lunghi, sempre, per quelli corti ci vuole una gamba “significativa” e abbronzata, non depilata (per carità) ma cosparsa di peluria leggera e per l’appunto giovane, non maculata e terribilmente deturpata da varici.
Sono del partito dell’elegante ed eternamente comoda sahariana che fa tanto tè nel deserto e Rodolfo Valentino.
E invece li vedo che grassi da ottavo mese di gravidanza o magri come cerini, storti come rami d’ulivo e bitorzoluti sembrano voler nascondersi dietro giornali e gialli d’autore: e fanno bene.
Messi così e tutti insieme danno addirittura nell’occhio.
Una buona alimentazione e poco, pochissimo ma giornaliero esercizio fisico (anche fare l'amore ogni tanto con la signora sarebbe fantastico), sono sufficienti a evitare problemi seri e diminuire la spesa sanitaria pro capite, e conoscere il modo giusto per farlo non è poi così difficile. Siamo nella società dell’informazione, esistono una quantità immensa di dispensatori di buoni consigli in radio per televisione e sul web, eppure, ogni anno e d’estate, mi accorgo che in troppi non tengono a mente le basilari regole del vivere sano.
In troppi credono che basta un mese di palestra per rimettere a posto le cose, un po’ di dieta e voilà! Ma le cose non stanno così.
Troppo umani e spesso piegati da una vita stretta e caustrofobica credono che cedere alla tentazione e alla gratificazione facile sia la via più rapida per sentirsi veramente “in vacanza” e appagati.
E poi in estate si beve il vinello fresco, l’aperitivo con tanto di noccioline salate, tostate e dorate, e il gelatino assieme alla bambina, e la pizza perché non ci va di cucinare, e la fettina un giorno sì e l’altro pure perché a pranzo abbiamo mangiato leggero. E possibilmente ci teniamo a fare una cena rapida e veloce! In fretta perché i ragazzi devono uscire, guardando la TV e magari anche discutendo con la moglie o con i figli, bevendoci sopra quanto più è possibile e per chiudere, soddisfatti e satolli, una bella frutta mista o uno strazuccherato gelato ci sta decisamente bene.
Basta fare un giro sul litorale per avere una grande quantità di esempi di umani dal “colesterolo alle stelle”.
Il venerdì e il sabato non fai nemmeno a tempo a contarli, stretti nella giacca che solo l’anno passato andava bene, il passo incerto, paonazzi e ridanciani: affannati e stanchi.
E, a notte fonda, quando a digestione dovrebbe essere nulla o in fase calante, buttano giù – tanto per stare in compagnia-, del buon bourbòn, una o più grappe o una granita di caffè con panna, che li alleggerisce anche da un certo senso di frustrazione generalizzato e antico.
Affaticati dalla vita che ci sfianca, dalla solita tiritera politica che ci ammorba e dal nulla che sentiamo di avere davanti, cediamo a tutto, che sia estate o inverno. Cediamo alla sbornia, al cioccolatino, e poi alle dieci sigarette di troppo e alla sterile passioncella via web che ci distrae dalla moglie che blatera da vent’anni qualcosa di troppo.
Avere un corpo il più possibile in forma è un dovere che abbiamo in primo luogo verso noi stessi.
Se evitassimo di riempirci di grassi animali, di bibite gassate e di gelati, per compulsione o semplice golosità, il numero di certe patologie mortali legate al colesterolo diminuirebbe sensibilmente e invece, all’ora di pranzo, il ristorante della spiaggia è pieno zeppo come se fossimo a Natale.
Avere un regime alimentare corretto dovrebbe essere insegnato a scuola e nei corsi pre parto.
Non mi meraviglia vedere bambini obesi rotolare sul campo di calcetto viste le merende che vedo nei carrelli delle mamme e mi domando cosa cambia nel dare ai figli una fetta di pane con la marmellata –io ero ghiotta di pane e zucchero- o una di quelle merendine da frigo piene di conservanti e coloranti.
Mi domando perché risulti così difficile fare lo yogurt in casa anziché riempire il frigo di barattolini di plastica inquinante, comprare succhi di frutta con valori nutrizionali pari a zero, invece che spremere due limoni e tre arance.
La nostra forma fisica va curata quotidianamente, come la mente e lo spirito.
Non dico che si debba diventare degli Yogi, ma mangiare lentamente e possibilmente concentrandoci sul cibo anziché sulle notizie del Tg, farsi una bella macedonia a pranzo o un grosso gelato di frutta e senza panna, e a merenda una mela e tre noci e magari del pane azimo, e poi chiederci ogni mattina: come va?

martedì 5 luglio 2011

L'isola d'Ischia: Teresa alle terme-ultima parte


Ma non posso crederci quando mi racconta tutto “dalla A alla Zeta” tanto per dirmi che devo stare buona, non prendere altri impegni e starla ad ascoltare zitta zitta, che la storia è lunga e non vuole interruzioni, che non ha bisogno di consigli ma di parole buone, di una pacca sulla spalla e del solito gelato con tanta panna per consolazione.
«Perfetto» le dico «non vedo l’ora di sapere com’è iniziata visto che i tuoi occhi mi dicono com’è finita».
Questo “guappo” d’altri tempi, dal coraggio in disuso e gli occhi penetranti, l’ha colpita già dal primo sguardo.
Il viaggio è stato avventuroso e il motore ha anche fuso.
Sette ore di viaggio con gli anziani a recitare la novena mentre Terry, attaccata al finestrino, lo guarda carico di taniche scomparire e riapparire dal tramonto autostradale.
Ma l’uomo di talento sa sempre come farsi perdonare ed è bastata la sua forza sovrumana che in men che non si dica, si sono ritrovati al porto d’Ischia.
Teresa è in stanza singola e meno male, si è risparmiata un’insonne chiacchierona e il divieto assoluto di fumare, ma il tavolo quello va spartito, e prega Iddio che gliela mandi buona.
Finirà col professore e la moglie brontolona, con Pino l’ex parrucchiere centenario e ballerino e con Maria, maestra elementare fornita di alitosi e arteriosclerosi che non fa che raccontarle sempre la stessa storia di quando cioè si trovò con la famiglia, sotto i bombardamenti della seconda guerra.
Il calendario, dal ritmo assai serrato, prevede alle sette una lauta colazione. Terry prova un brivido a entrare nella sala con il pagliaccetto rosa e in testa i bigodini. Tutti la guardano e la chiamano “bambina”, il che non le dispiace e già si sente bene.
Il buffet offre frutta di stagione ma sono le prugne secche vanno per la maggiore.
I suoi compagni sono allegri e freschi, si sa che a un certo punto si dorme molto meno, Terry che invece si aspettava di vedere il bell’Antonio entrare in camera e dal balcone, ha le occhiaie fonde e scure e un umore su cui è meglio sorvolare.
Ma alle otto in punto eccolo che arriva, suona tre volte e si affaccia al finestrino «jamm gioventù che il gallo ha già cantato e ij tengo una fame che voi non ci credete!».
Terry si morde il labbro e pensa a quanto è bello, si tiene un po’ in disparte e aspetta il suo momento.
Antò, autista esperto, si dà da fare a sollevare culi scansando con agilità bastoni e dita adunche; tira e issa e parla colorito, mormora tra sé bestemmie di ogni sorta ma poi, cantando a squarciagola le di lune e sarracini, trova il modo giusto per farsi perdonare.
Le nonne, le poche ancora maritate ridono fra loro lontane dai mariti e quelle sole godono di tutta quella compagnia e della distanza che le separa da una casa troppo piena di ricordi.
Terry in fondo al carrozzone è sempre con lo sguardo allo specchietto, lei non ha bisogno di nessun aiuto finché la mano forte non la afferra comunque per la vita, «è fatta» pensa Terry gustandosi l’insolita salita.
È sempre un’emozione sfiorare con lo sguardo le sue dolci curve, le colline ricche e piene di colori, il rosa dell’ibiscus e il giallo dei limoni, il rosso delle rose e l’arancio di zagare e strelitzie e il verde, ovunque, e il continuo cinguettio degli uccellini e il canto del gallo all’alba e i gemiti notturni dei gatti in amore.
Sembra che l’isola intera sia preda di passioni, vittima del movimento continuo di acqua e fuoco che s’incontrano baciandosi qua e là nel mare.
Terry lo sente tutto quel calore mentre la sera si scatena sulla pista, Antonio che la guarda e il centenario Pino in vena di battute!
Ma non è l’unica a ballare sotto la luce della luna, l’allegra compagnia le pare d’improvviso risanata e lasciati bastoni e acciacchi accanto al limoncello, si scatenano in twist, sambe e balli di gruppo.
E sarà Pino, il centenario parrucchiere a vincere fra tutti sulla pista.
Domani la storia si ripete, in fondo ho ancora quattro giorni per averlo, pensa stringendo fra le braccia il morbido cuscino, «sa di uomo vero» pensa immaginando l’ampio petto «lo so, questo è l’uomo perfetto»!
Ma i giorni trascorreranno sempre uguali, Antonio con i suoi sorrisi e le canzoni, le terme e i mille complimenti, le serate a Ischia porto per negozi, i gelati e i balli al karaoke, mille risate ma di avventure nemmeno a parlarne.
Il bell’Antonio si farà vedere solo quando fuori brilla alto il sole, di notte Terry abbraccerà il cuscino che non ha di certo il cuore di granito.
Terry tornerà dalla vacanza ancora piena di bollori, i dolori sono svaniti e la sauna ha eliminato tutte le tossine.
La aspetta un grande cono con la panna, qualche pacca sulla spalla e le solite parole.
«Tu hai tutto a posto amica bella» le dico con amore «è che gli uomini non hanno più tutte le rotelle al posto giusto, vogliono la donna che si fa desiderare e poi non trovano il coraggio di invitarla a ballare».
«Mi sembrava uno semplice, uno di quelli che approfitta della situazione».
«È che le situazioni forse sono troppe e tutto viene a noia, anche la passione».
«Allora che dobbiamo fare amica mia?»
«Non ci resta che aspettare e che si diano da fare, e che decidano una buona volta se vogliono una madre protettiva, l’amante lamentosa o l’amica pronta all’uso».
Sarebbe anche fantastico vederli con il cuore in mano, ma forse è chiedere troppo a un uomo vero.

venerdì 1 luglio 2011

Quando la moglie è in vacanza il marito sta al caffè.


La giornata è stata bollente, le strade deserte mi accolgono all'ombra dei vicoli del centro storico.
Il ticchettio dei miei tacchi mi ricorda il tempo che passa e che mi godrò la serata tristemente sola.
Molte amiche sono al mare e io, eroica, ho deciso di rimanere in città giusto il tempo di mettere giù un paio di strategie sentimentali e lavorative.
Salgo per via Nazionale e svolto a destra, via del Boschetto, lo dice il nome stesso, darà refrigerio alle mie idee e passioni e, mentre il mio abito turchese svolazza pericolosamente, le mani combattono con folate di vento insistenti, sicuramente maschili.
Mi siedo al bar in piazzetta per il momento semi deserto.
Forse è ancora presto.
Comincio a sfogliare un libro, l’ho acchiappato al volo prima di uscire, giusto per avere qualcosa da leggere e rendermi da subito visibilmente single e, possibilmente, scoraggiare tutti quelli che hanno intenzione di parlare di politica.
Jung, mi pare un buon argomento di conversazione.
Anzi, faccio di più e allontano le sedie vuote per lasciarne una sola, la mia -detesto chi mi domanda se aspetto qualcuno solo perché gli serve un posto a sedere -.
Bene, mi metto in attesa e mi stampo sul viso un'espressione ottimista.
Sono le 19:00, eccoli che arrivano. Non ci si aspetterebbe mai una qualità così alta, almeno a giudicare dalla forma e dall'aspetto.
Ecco, il primo è perfetto.
Intorno ai cinquanta, giornale e occhiali da sole, cellulare sul tavolino e quotidiano giustizialista che fa tanto intellettuale, il maschio ordina un bicchiere di bianco.
Io continuo a far finta di essere impegnata nella lettura e faccio la conta.
Dopo circa venti minuti il bar è pieno di tavoli, ciascuno con un solo occupante di sesso maschile.
Invio subito un sms alla mia amica Teresa -vieni di corsa, qui è pieno zeppo di cacciagione-
Li osservo uno a uno, sono brava quando si tratta di adescare e avrei guadagnato certamente di più facendo un altro mestiere, ma i miei non avrebbero mai approvato e mio marito neanche!
Ce n'è uno che si dà un gran da fare, prende e lascia il quotidiano, guarda il cellulare e non sta fermo un minuto: abbronzato, camicia di lino chiara, jeans, asciutto e non troppo alto.
Ecco che abbassa gli occhiali sul naso.
Che carino... ecco che l'ingenuo mi sorride.
E adesso? Oh mamma mia... viene verso il mio tavolo e continua a sorridere, mi volto per vedere se per caso non è diretto altrove -quando non ho gli occhiali da vista mi capita di mal interpretare...- no, eccolo, è proprio me che vuole.
«E' da sola?»
Humm... Educato, bella voce, sguardo limpido e occhi scuri.
Ho solo qualche secondo per decidere, prima che il suo sorriso si spenga del tutto.
Se gli dico che aspetto qualcuno che non arriverà mai, rischio solo una figuraccia e Terry non mi ha ancora risposto, «come vede sono sola» e le mie labbra si allargano in un sorriso vagamente timido, non so dove sia riuscita a pescare questa espressione che credevo dimenticata, ma vedo che fa sempre un buon effetto.
Ecco. Adesso è lui che sottrae una sedia al tavolo del vicino.
Sorrido soddisfatta e gli guardo le mani.
Belle, abbronzate e lunghe, dita nervose, unghie perfette e...la fede al dito.

Mentre la signora è in vacanza nella proprietà a Fregene, al mare, insieme ai bambini e con la madre, lui si gode in solitaria la città eterna, andrà a trovarla nei fine settimana; nel frattempo, va a caccia di belle figliole!
Consiglio alle amiche single di rimanere in città almeno fino a fine luglio e di fare qualche puntata nei caffè del centro dove maschi liberi, abbronzati e pieni di buone idee, si specchiano pieni di aspettative per la serata nei loro bicchieri.