Pagine

domenica 23 febbraio 2014

Colpa mia se mi sento fuori posto


Quando si lavora in teatro è impensabile prescindere da tradizioni e convenzioni, né tantomeno dal rigore. Nemmeno praticando la meditazione dei samurai ci è concesso trasgredire le regole. Colpa mia, quindi, della formazione che ho ricevuto, un po’ sovietica, giapponese e vecchio stampo, se mi sento spesso fuori posto.
La prima qualità di una persona è il rigore, diceva mio nonno, fissandomi severo, senza stemperare mai lo sguardo acuto con un sorriso, nella speranza, credo, che quelle parole mi si sarebbero così impresse nella memoria. Stava sempre in giacca da camera mio nonno, elegante come se da un momento all’altro potesse entrare dall’ingresso padronale chissà quale personalità anziché la donna delle pulizie. Perché per lui faceva lo stesso.

Ma si parla di amenità analogiche, roba vecchia, lo so, me lo ripeto ogni giorno.
Vano, il mio bisogno di comunicare il senso di disadattamento che provo in tutto questo mandarsi a fanculo quotidiano e un po’ gratuito: tra politici, tra cittadini, alle poste, al semaforo, sul web, in autogrill dove c’è quello che mi passa davanti, come un bisonte, facendosi spazio con il suo corpo deforme stipato in un giubbottino di pelle. Ciò che è fuori è dentro, e se sei un animale vestito da uomo lo sei nel tuo complesso, e non perché hai problemi di tiroide, ma per come appoggi il tuo lurido sguardo su una donna, meglio se non accompagnata.
Eppure, quell’educazione mi è stata utilissima a non sentirmi mai fuori posto. A parte adesso, oggi, qui, in un momento storico che ci insegna a passare su tutto, anche sulle esperienze altrui. Perché l’educazione c’entra poco con il vuoto formalismo, è qualcosa che ha a che fare con il rispetto e con il più bieco opportunismo. Sì, opportunismo. Perché dire il proprio nome e cognome presentandosi, magari sorridendo, anziché biascicare un informale e imbarazzato “salve”, è un modo per dare all’interlocutore la possibilità di sapere chi siamo. Può succedere in fila alle casse del supermercato con un vicino di casa che ho intravisto e al quale, un giorno, rincorsa da un furioso assassino, potrò domandare aiuto. Perché nulla è dovuto.

Non è così difficile capire che certe robacce chiamate “regole”, e il rigore interiore che serve a metterle in pratica, sono utili soprattutto a noi stessi. Così come non è complicato capire perché una madre non debba permettere alla propria bambina di appoggiare le suole delle sue splendide scarpine, comunque sporche, sul sedile del vagone della metropolitana o del tram. Un giorno potrebbe capitarle di sedersi su un sedile sporco e inveire contro la maleducazione, che è sempre degli altri, e magari tuittarla.
Ma forse mi sfugge qualcosa, ossia che nella maggior parte dei casi non ci si domandi più con chi si ha a che fare. Così presi a dare un peso alla nostra esistenza cercando di lasciare un segno nella storia con frasi a effetto, tralasciamo del tutto il peso degli altri.
Rigore significa applicare la buona educazione soprattutto con se stessi, intraprendendo un’azione per portarla a termine. Facendo sì che la propria vita sia ben spesa.
Ma costa fatica mettere in moto il cervello prima di fare o dire qualcosa.
Permettendoci tutto in nome di una libertà presunta, facciamo delle nostre esigenze e dei nostri bisogni primari il baluardo della nostra incapacità di rispettare gli altri. Gli altri, sì, quella massa comunemente chiamata “di stronzi” tra i quali, andando avanti di questo passo, rientreremo proprio tutti.
Colpa mia se ho imparato e riconosciuto l’importanza del rigore. Ecco perché mi sento fuori posto.
Il rigore che mi ha permesso di capire che, se nella “piramide umana” dovrò salire per ultima, preparazione atletica e concentrazione dovranno essere ineccepibili, quindi, essere lasciata dal Maestro russo in palestra, sola e durante la pausa pranzo, a fare duecento addominali in più perché ne ho saltati soltanto due, un senso ce l’ha.
È meglio dare di più, perché anche la volontà è un muscolo, e va esercitata. Perché il giorno in cui vorrò mettere le mani addosso a qualcuno, seppur con tutte le ragioni del mondo, riuscirò a frenarmi, a battere la lingua al palato dieci volte, e a dirmi che non ne vale la pena.
Anche la determinazione è un muscolo, se la esercito avrò più probabilità di riuscita quando dovrò fare i conti con gli impedimenti, gli ostacoli disseminati sul mio cammino.
Abbiamo tutti la facoltà di essere felici, basta deciderlo, mettendo ordine tra le priorità, distinguendo tra bisogni, desideri e stupidi capricci.
Siamo esseri senzienti, non ululanti ominidi privi di capacità di discernimento.

Eppure, più delle volte vedo gente ringhiare. Per strada, sul bus, in metro, al supermercato, sui social network.
Ascolto, perché la persona che mi cammina accanto urla come se intorno ci fosse musica house a tutto volume, di vendette trasversali, di odi taciuti, cause legali e denunce. Di un pezzo di merda che l’ha lasciata per una fottutissima puttana.
Eppure basterebbe un po’ di buona educazione perché io non debba pensare, guardandola, che se qualcuno l’ha lasciata, un motivo ci sarà, per metterla, poiché è entrata senza invito nella mia sfera vitale, tra gli ominidi da tralasciare.
Chiedono il rispetto delle regole e se ne fottono.
Chiediamo rispetto e ci guardiamo bene dal darlo.
Ma da esseri senzienti, e rigorosi, e ben educati, possiamo non adagiarci sulle iniquità degli altri, scegliendo per nostro conto, da uomini liberi.

Possiamo tranquillamente trovare posto dalla parte della ragione, o decidere di sederci da quella del torto, ma rivoltandoci sul serio. Perché non è citando Brecht che riusciremo a cambiare qualcosa.

mercoledì 19 febbraio 2014

L'uomo di transizione.


Foto: Margaret Bourke

A New York dovevo proprio andarci.
Raccontando di un fantomatico turno di doppiaggio alla presenza del regista statunitense ero riuscito a evitare il funerale di mio padre, ma per la lettura del testamento non avevo nessuna scusa plausibile.
Mi metteva ansia l’idea di rivedere casa, mettere mano ai suoi cassetti, foto e lettere, al nostro passato comune che lui teneva bene in vista e io, al solito, avevo deciso di cancellare assieme al mio cognome.
Per un economista del suo calibro non era stato facile accettare la mia predisposizione all’arte.
Su di me, invece, sul mio viso e sul mio animo, perfino la sua morte sembrava non aver lasciato segni.

L’aeroporto è per me una zona franca. Forse perché ci ho passato molte ore della mia infanzia, affidato a hostess premurose o a baby sitter.
In quell’atmosfera ovattata mi sento a mio agio, riesco a valutare con maggior disincanto la mia situazione, a perdonarmi l’abitudine a non fermarmi mai più di tanto in una città, in un locale, a una festa così come in un letto. La capacità che ho di non soffermarmi nemmeno su un’idea o un progetto, come se, alla fine, avessi deciso alla nascita che niente val la pena di essere vissuto. E forse sarei anche morto con la convinzione che per non ferirsi è sufficiente non esporsi troppo, non fare congetture di alcun tipo né progetti per non restare deluso. Veleggiavo sulla mia barca con la costa bene in vista.
Certi naufragi si possono evitare restando nel Porto, rendendosi invisibili al mondo usando pseudonimi e ottimi avvocati che decidano sempre al posto nostro.
E anche quel viaggio era una routine.
Valigia, taxi, il pranzo frugale, caffè e un buon libro.
Voci e musica mi cullavano nella sala Vip della compagnia aerea, mentre fuori si alternavano facce e le loro parole senza audio.
È stato così, forse, che ho iniziato a fare doppiaggio. Abbandonato da mio padre sulle morbide poltrone delle sale d’aspetto, sempre chiuse ermeticamente, mi divertivo a dare voci e storie alle bocche in movimento che mi passavano davanti.

La ragazza esile portava un cappotto blu notte. Il baschetto, sui capelli scuri disordinati sulla fronte in ciocche lucide e lisce, le dava un’aria da orfanella triste. Sentii subito un brivido intenso salire sino alla nuca e intorpidirmi il cervello.
Avevo bisogno d’aria. Così uscii.
L’idea di dover passare una settimana tra gli amici newyorkesi mi metteva a disagio. Esibire i miei successi e farmi termine di paragone con i miei numerosi fratellastri, mi aveva sempre provocato insofferenza.
Ma non era per nessuna di queste ragioni che volli uscire da lì. E in realtà non avevo nessun bisogno d’aria.

La ragazza esile, del tutto estranea a ciò che le accadeva attorno, si dava da fare con il cellulare: scriveva, rileggeva, correggeva e inviava, aspettava, leggeva, dissentiva e rinviava.
Che fosse una giornata di merda per lei era evidente. Forse della calza smagliata non le importava nulla, ma della cinghia rotta della pesante cartella di cuoio che doveva contenere portatile e appunti, sicuramente sì.
È stato allora che mi sono fatto avanti. Quando l’ho vista in difficoltà all’imbarco, impegnata a reggere quel peso e a cercare il passaporto nella borsa.
Quando ci siamo ritrovati a una poltrona di distanza, oltretutto vuota, pensai con orrore alla noia di quelle ore di viaggio seduto accanto a una giovanissima e probabile artista, sicuramente finta sottoproletaria, che mi avrebbe raccontato con enfasi cose che sapevo già: malgoverno, evasione fiscale, mancanza di ideologie.
Invece, la ragazza esile non mi rivolse né sguardo né parola.

Dopo il decollo, e disposti sul tavolino un grosso quaderno, tre penne da disegno, tre matite con mina sottilissima e una gomma da cancellare, la ragazza, con ancora addosso il suo cappotto blu notte, prese a guardare davanti a sé senza muovere più nemmeno un muscolo.
Quando si mosse, ero al secondo tempo di un film di cassetta di cui mai ricorderò attori o trama ma che mi era servito come alibi per non alzarmi da lì, e lasciare l’attenzione della mia vista laterale su di lei, e su quella porzione di sguardo che mi pareva curiosamente riflessivo.
Quando si svegliò dallo stato di trance nel quale era rimasta avvinta per più di quaranta minuti, domandai alla hostess una bottiglia di champagne e due bicchieri.
Al secondo giro mi stava già raccontando di come avesse perso la verginità a tredici anni. Al terzo, prese a espormi le sue argute teorie sul genere maschile.
Al quarto, ero completamente in panne.
La teoria sull’uomo di transizione, così lo aveva chiamato leggendo alcuni passi dal suo quaderno, mi aveva folgorato.

Noi donne abbiamo tutte dei buchi da occupare, disse seria, senza che nel tono della voce, né nello sguardo, ci fosse il benché minimo accenno al doppio senso e alla battuta da social network. Sì, aggiunse apprestandosi a esporre il suo assunto come una liceale seria.
Devi sapere che ci sono molti uomini giusti a fare da ponte tra una storia importante e l’altra, in un periodo nel quale non abbiamo relazioni serie e nemmeno ne vogliamo ma, faccio per dire, abbiamo bisogno di qualcuno che ci mantenga.
Certo, dissi io, senza pensare alla gravità di quella rivelazione.
Non c’è niente di male, disse lei anticipando la mia domanda. In quel momento, proseguì, quando decidiamo di stare con l’uomo “ponte”, siamo consapevoli che lo stiamo usando. La maggior parte delle volte, disse cercando di semplificare il concetto, non siamo per niente convinte che sia vero amore quello.
Poiché continuavo a guardarla con uno sguardo probabilmente vuoto, chiuse con un “per me è così”, e accese il monitor fino a quel momento rimasto spento.

Cosa potevo dire, io.
Schiacciato in quell’idea di “uomo di transizione”, di compagno da condurre a eventi mondani, di una scopata rapida tra un ristorante e l’altro.
Avevo sempre guardato dalla mia parte dandomi pacche sulle spalle per gli appuntamenti mancati e i continui cambi di numero di cellulare. Non avevo mai provato a domandarmi cosa le donne cercassero da me, che genere di uso volessero fare del mio nome e dei miei soldi, illudendomi di essere il loro unico oggetto d’amore.
Che dall’altra parte potessero esserci le mie stesse resistenze e convinzioni, mi aveva gettato nel panico.
Soltanto adesso, oltre le nuvole e verso un magico tramonto le riguardavo tutte. Francesca, Alba, Rosaria, Michela, Anna. I loro addii dallo sguardo asciutto. Quel “le storie non finiscono mai”, cui era seguito un infinito silenzio. La notizia del matrimonio con un altro. Dell’amore improvviso e del colpo di testa.
Schiacciato contro l’oblò, rabbioso e offeso, ripensavo a Giovanna e alla sua scarsa disponibilità: lavoro, soldi, salute. Tutte palle. Non ero che un “uomo di transizione” qualunque. Le storie sulle quali non mi ero soffermato, da laggiù mi deridevano. Le loro risatine complici e quei “non te lo dico” beffardi, erano ora chiari ed eloquenti.
In quarantotto anni non ero stato che la pausa tra una storia importante e l’altra.
Quello di cui non conservi nemmeno le foto per quanto insignificanti, come mi aveva detto la ragazza esile a prova della sua teoria.
Ero il tizio che quando ti arriva sul social network lo metti nella lista dei conoscenti. Nemmeno degli amici. E nonostante gli anni di fratellanza scopatoria!, come aveva ribadito, elencandomi poi i nomi dei suoi ex finiti nel cesso.
In un romanzo si potrebbe fare in modo che io, l’uomo di transizione, decida di cambiare rotta e prendere il largo lasciandomi la costa alle spalle. Si potrebbe pensare di redimermi perché m’innamori e metta su famiglia. Potrei anche andare in rovina, in un finale dal sapore psicanalitico, lasciarmi sopraffare dai sensi di colpa fino a suicidarmi. Ma nella realtà i cambiamenti non sono mai così repentini. E questo racconto, purtroppo, deve stare in poche cartelle.
Così, non mi rimase che domandare, alla ragazza esile, il numero di telefono.

mercoledì 12 febbraio 2014

Deriva #49 #derivaditwitter: Wannabe





La prima volta che incontrai questo aggettivo/sostantivo, fu quando mi permisi di esprimere alcune perplessità su Elio delle Storie Tese e sul fatto che, un musicista del suo calibro, non dovesse sponsorizzare e partecipare a un Talent come XFactor.
Fui subito aggredita e tacciata come “rosicona” e “invidiosa”, ossia “wannabe”.
In quel caso fu inutile spiegare le ragioni della mia avversione verso quel talent Show che si basa, oltre che sul presunto talento del cantante, anche e soprattutto sul suo carattere e su peculiarità facilmente spettacolarizzabili. Il fatto che io creda nella “scuola”, nella gavetta, nell’impegno quotidiano, che lo stesso Elio ha sperimentato al Conservatorio, nello studio approfondito della musica, della lettura a prima vista di uno spartito e della conoscenza e ascolto di diversi generi musicali, fu un particolare che passò in secondo piano. Così come a nessuno dei miei interlocutori interessava che io non fossi una musicista ma un’addetta ai lavori, una persona che, avendo diretto per più di dieci anni un’importante scuola di musica, conosce le trappole del mestiere e crede fermamente che questi Talent siano soltanto momenti illusori di notorietà.
Ma il “wannabe” su Twitter può essere applicato a tutto.
Diamo per scontato che la notorietà sia il solo metro di giudizio di una persona. La fama, quella che ti guadagni in televisione, l’unico parametro per giudicare un artista. Il numero di copie vendute, ossia il gradimento del pubblico, il solo lasciapassare per il lavoro di un creativo. Beh, se dovessi basarmi sul cattivo gusto del pubblico televisivo, allora dovrei affermare che Maria De Filippi è un genio assoluto.
Siamo così provinciali e incapaci di dare un giudizio che esuli dall’approvazione generale, da pensare che solo chi è popolare possa esprimere un’opinione o digitare una perplessità. Se lo fa un semplice cittadino, parte il “Chi cazzo sei” se invece lo fa un addetto ai lavori, si va giù di “Wannabe”.
L’artista, e lo dicono le vite dei veri grandi della storia, è notoriamente un insicuro, schivo, poco avvezzo ai palcoscenici. I più grandi attori che ho conosciuto dovevano scolarsi un paio di bottiglie prima di affrontare il palco, anche all’apice della loro carriera. Eleonora Duse, a New York, il giorno della prima de “La figlia di Iorio” avrebbe dato qualunque cosa pur di scappare dall’ingresso degli artisti, pur di fermare la paura e l’ansia da rendimento che le avevano tolto perfino la capacità di muoversi. O l'immensa Marilyn, devastata dal proprio senso di inadeguatezza.

Il pensiero che ci siano individui che conoscono bene la materia di cui parlano, ma che per ragioni caratteriali, esistenziali o semplicemente etiche non vogliano entrare nella macchina infernale del Grande Fratello televisivo, non sfiora nemmeno lontanamente chi taccia chiunque vada contro il gusto della maggioranza di essere un “wannabe”.
Musicisti di cui nessuno conosce il nome, ma che hanno suonato con grandissimi interpreti, non possono permettersi di dire “a” senza che arrivi l’imbecille di turno a dargli del “rosicone”.
Per non parlare del mondo dell’editoria, pieno di storici esempi di scrittori ignorati dalle case Editrici, e che magari hanno iniziato pubblicando a pagamento, poi passati alla storia, al contrario del loro colleghi, famosi e noti in quel momento storico, e di cui nessuno conosce più nemmeno il nome.
Il mondo è pieno di personaggi popolari che non valgono una cicca. Divulgatori di aria fritta costruiti grazie a sofisticate operazioni di marketing, che hanno successo per un paio d’anni per poi essere dimenticati. Così come il mondo è pieno di personaggi anonimi, il cui nome non dice niente a nessuno –almeno oggi- ma che lavorano alacremente attorno al proprio capolavoro, senza pensare nemmeno per un istante al pubblico, allo share, alle classifiche, che lo fanno solo per se stessi, perché non ne possono fare a meno. Come scrive lo stesso Stephen King, uno che i numeri ce li ha tutti, non si scrive mai, né si fa arte, per i soldi, per il pubblico o per la fama. Il più delle volte è qualcosa di cui non si può fare a meno.
Raymond Carver ha scritto per anni e ha ricevuto solo riconoscimenti postumi. La super citata nei social, Alda Merini, scriveva poesie sulle tovaglie dei ristoranti tra una permanenza e l’altra in manicomio. O l’acclamato Camilleri, che pubblicò a pagamento il suo primo romanzo.
Ma pochi conoscono la storia, salvo poi citare l’Ingegner Carlo Emilio Gadda, proprio “La cognizione del dolore”, magari mai letta, soltanto perché sta bene con l’hashtag sui #classicidarispolverare.
Credo si debbano rispettare le opinioni altrui, che si tratti di persona comune o di un artista, senza dover necessariamente ipotizzare che, per essere famoso anche lui, venderebbe un rene. Esiste l’altra faccia della medaglia e della luna, magari, lasciatevi sfiorare dall’idea che esista anche l’altra faccia dell’umanità.

domenica 9 febbraio 2014

Sindrome da anniversario

(Foto: Man Ray)

Pioveva. Pioveva così forte che per sentire qualcosa dovette tapparsi l’altro orecchio. Pioveva e tuonava tanto che all’inizio non aveva nemmeno capito bene di che cosa si trattasse finché l’altra, la donna all’altro capo del telefono non ripeté la frase lentamente. Anzi, perché anche sua madre ascoltasse, se la fece dire un paio di volte ancora.
Era talmente incredibile la conclusione di quella giornata convulsa e di tutta quella storia, che aveva bisogno di almeno un testimone. Un testimone di eccellenza in quel caso.
Ma forse aveva capito tutto appena la sconosciuta aveva chiesto «È lei la signora M.?».
E chissà perché, poi, quando la sconosciuta le aveva domandato se avesse capito, e anche dopo, quando si era scusata prima di riagganciare, non aveva pensato di domandarle chi fosse e perché proprio lei l’avesse chiamata per darle quella notizia.
Che stupida, si disse battendo la mano sul tavolino su cui erano appoggiati telefono, penna e notes. Forse lui l’aveva pagata. Forse era soltanto una donna incontrata per caso, magari una vicina di casa, una conoscente, un’amica. Ma alla fine non era importante, anzi, tutto quel ragionarci sopra era una perdita di tempo, un modo come un altro per non dire a sua madre di annullare tutto e provare a se stessa che quella storia era inverosimile.

Si lasciò cadere sulla poltrona accanto al telefono e rimase a fissare il blocco pieno zeppo di disegni.
C’erano stelle, stelle marine decorate da cerchi concentrici disegnati con magnifica precisione, e fiori, linee parallele tracciate con mano ferma, più sottili e più spesse. Cuori, cuori neri e trafitti, cuori bombati e piatti.
Pensò fosse stata sua madre a disegnarli, proprio come aveva fatto tante volte anche lei, distrattamente, lasciando che la sua mente vagasse altrove mentre parlava di amore, sesso e promesse tradite, seduta esattamente lì, forse con la medesima espressione immobile.
In quel momento la odiava. Odiava sua madre di un odio così grande da volerne intuire appena la potenza, da temerlo, più che altro.
Le parole pronunciate dalla donna aleggiavano ancora lì, tra telefono, notes e penna. La voce anonima gliele aveva ripetute con tono freddo, come chi legge al mittente il testo di un telegramma perché ne verifichi l’esattezza, senza che dentro ci fosse nemmeno l’ombra di un giudizio, nemmeno un filo di compassione. O forse sì, ma ben nascosto.
Poi si accorse che anche sua madre era rimasta impietrita. La fissava con un’espressione attenta, la stessa che aveva mentre la teneva d’occhio quando da bambina saliva sulle giostre o in altalena, l’espressione di chi si appresta ad accorrere, in allarme ancor prima che la caduta avvenga, che la tema tanto da farla prima o poi accadere. In piedi sulla porta della cucina aveva la stessa espressione di ansia mista a rassegnazione che le vedeva in faccia il sabato sera, quando finalmente, dopo una settimana di scuola, poteva uscire con le amiche adolescenti e con rientro alle ventidue.
L’odio che sentiva allora, quando tirava fuori trucchi e sigarette bene nascoste nel controsoffitto dell’ascensore, o quello covato qualche anno più in là, quando le impedì di partire per infilarla nella schiera dei precari, non somigliava neanche un po’ quello che provava seduta lì, in quell’istante, con le parole dette dalla sconosciuta che suonavano più o meno così: scusami, lo sapevamo entrambi che sarebbe finita, non farti del male, non è successo niente, la vita continua.

Alla fine era successo. Forse non proprio come l’aveva previsto, ma era successo.
Nella sua immaginazione, nel flusso silenzioso della coscienza, nell’oscurità delle paure inconfessabili e del suo pensiero muto, lui glielo diceva di persona, guardandola negli occhi, forse anche in una lunga e mail. Certamente non per sms.
D’altra parte ce n’erano a migliaia di storie come la sua, anche più dolorose, e accarezzò in un gesto sbrigativo il tessuto plissettato dell’abito color champagne.
Aveva letto di un uomo, per esempio, che era morto andando fuori strada esattamente com’era successo al proprio padre, trentadue anni prima, mentre correva in clinica per vedere lui. Sapeva di un altro uomo, che a tavola si era alzato d’improvviso portandosi la mano al petto colto da infarto, lo stesso giorno dello stesso mese e alla stessa età del proprio padre. Seduto alla stessa tavola, nella stessa casa e davanti alla stessa persona.
Ma c’erano tante altre storie di quel tipo lì.
Dopo tanti anni, sui social network aveva incontrato compagne di scuola le cui tracce di coazione a ripetere erano così lampanti da sembrarle ridicole. Una, per esempio, ragazza madre non per scelta, preda di uomini violenti e come la madre totalmente passiva. Un’altra, invece, sembrava felicissima dei suoi parti e del padre dei suoi cinque bambini, uomo egocentrico e vanitoso, e come suo padre gran puttaniere. Ne aveva riso per giunta. Aveva preso uno per uno quei profili, trovando in essi coincidenze così evidenti da sembrarle inverosimili.
Brutte trame di storie brutte, si era detta.
Che si chiamasse sindrome dell’antenato o da anniversario, o karma, in quel momento non aveva nessuna importanza.
Sapeva soltanto che sua madre continuava a fissarla in quel modo che non sopportava, che fremeva nella carne e che desiderava tornare a cinque minuti prima, non ascoltare lo squillo del telefono, quella voce estranea e quella notizia.

Forse, pensò, non sarebbe più stata in grado di alzarsi da quella poltrona. Non sarebbe più stata capace di parlare, si ripeté nella bocca amara.
Quando invece si alzò, l’abito da sposa frusciò lentamente dietro il suo sguardo ancora incredulo. Lanciò verso sua madre un’occhiata furente. La madre si fece in disparte prima avviandosi poi verso la camera da letto, una mano sulla bocca per impedirsi di urlare, di dire quella sciocca ovvietà: che il proprio destino si era infine ripetuto in quello di sua figlia, abbandonata anche lei il giorno prima delle nozze.
Andò in cucina e aprì il frigorifero. C’erano ancora parecchie bottiglie di champagne. Ne stappò una e andò alla finestra. La spalancò. Respirò a fondo, bevve un lungo sorso e guardò il rosso del tramonto mescolarsi al buio.
Aveva smesso di piovere.

lunedì 3 febbraio 2014

Deriva #48 derivaditwitter: Scimmia da Social

... La strada è come la vita, fatta di doss...
Queste le ultime parole digitate da M. tre giorni fa, prima della distrazione fatale, esattamente in prossimità di una curva. Non avesse digitato nulla sarebbe successo lo stesso, magari mentre dava un’occhiata ai retweet e al numero di follouer, la sua mini dose oraria di gratificazione sociale giornaliera che, sommata a quella settimanale e mensile, era diventata ossessione.

Glielo dicevano tutti che aveva superato il segno, che era troppo, che così non poteva andare avanti, che nonostante le dieci regole imposte, non riusciva a stare lontano dal suo smartphone per più di tre minuti. Che anche fare sesso ornai gli costava fatica e che, comunque, controllarlo subito dopo il coito, era più urgente che accendersi una sigaretta.
Con quelle tra l’altro aveva smesso di fumare.
Perché M. odiava le dipendenze.
Anche quando andava al mare, le sue nuotate duravano il tempo di arrivare al primo scoglio anziché alla terza boa, come faceva un tempo. Averlo avuto subacqueo sarebbe stato meglio si diceva ogni volta: sono a pranzo con gli squali!, Guardate che meraviglia!, Questo è relax puro! Informazioni di cui il mondo intero non avrebbe potuto fare a meno, comunicazioni così vitali da accrescere a dismisura la propria autostima.
M. trascorreva gran parte del suo tempo libero in palestra, scegliendo con cura gli attrezzi meno affollati dove poter controllare i social senza l’ossessione di sguardi indiscreti, finalmente lontano da sua moglie che con i suoi “gioca con i bambini”, “dammi una mano”, “guardiamo un film” gli rendeva la vita un inferno. Anche al supermercato era libero di scorrere la TL facendo finta di controllare l’elenco della spesa.
Non fosse stato più possibile fotografare e postare la propria straordinaria vita da cittadino, avrebbe rinunciato anche al voto.
Perché tutto, sui social, diventa eccezionale.

Non andava più nemmeno al cinema, in fondo una passione adolescenziale, dove incontrava sempre qualche imbecille cui dava fastidio la luce del display, o dove comunque era costretto a portare la moglie e la sua intolleranza a quel passatempo così innocente.
Sono anni che non restiamo a parlare per più di dieci minuti senza che tu debba lanciare uno sguardo al numero di follouer!, gli rinfacciava. Che non sei in grado di seguire una trasmissione senza tuittare una battuta!, gli rammentava. Che non leggi un libro senza sottolineare le frasi da tuittare, che non parli con qualcuno senza chiedergli se sta su Feisbuc!, gli rimproverava.
Queste le accuse senza senso che si era sentito rivolgere, mentre agganciando gli sci domandava ansioso quanto fosse lungo il tempo di percorrenza della pista, o se lassù al rifugio ci fosse campo.
Maledizione.
Il suo account era la sua vita vera. Lì, dietro quel nickname benedetto, poteva finalmente essere un Guru.
Un Guru dello sport, pur avendone praticati solo due e male, della politica, pur non leggendo nemmeno un giornale, dell’omeopatia ma anche della medicina tradizionale.
Nessuna contraddizione. Si seguono i #TT e si tuittano sacrosante verità ben copiate.
“Che tanto la vita vera è fuori da qui” lo scriveva anche lui, magari dopo essersi trattenuto dal digitare per due intere giornate, perché anche non esserci fa parte del personaggio, se poi ci sei lo stesso, poco importa, basta che non si sappia.
Non fosse arrivato a ventimila follouer entro metà del 2014 li avrebbe comprati. Giurò bellicoso.
Ormai lo fanno tutti e i più ci cascano. Nessuno sarebbe andato a controllare. Aveva trovato già chi gliene avrebbe venduti di buoni, come da ragazzino con il fumo, nessuna testa di ovetto e qualche tuit ogni tanto.
Che peccato!
Non ha mai comprato follouer #scriveretesullamialapide
Non ho mai copiato un tuit #scriveretesullamialapide

In tutto quel far suoi gli aforismi di Flaiano, cambiando termini e ordine agli aggettivi (tanto il significato è lo stesso), M. si era perso il primo tuffo dal trampolino di suo figlio, la prima battuta di sua figlia alla recita, la prima parola della piccolina, la prima parolaccia del tredicenne, il primo schiaffo di sua moglie, il primo medio alzato del ragazzo in risposta alla madre.
Digitava il suo amore per i figli e dimenticava di passare a prenderli, o se ne ricordava dopo, al semaforo, mentre tuittava su di loro e la pace interiore che gli dava guardarli.
Una vita diversa, una vita da superuomo.
Secondo le stagioni e l’account, secondo il tempo e l’umore, secondo come tira il vento.
Destra e sinistra, abbasso i malfattori!
Destra e sinistra, proteggiamo le istituzioni!
Secondo il turnover dei fan.
E poi vallo a ripescare il tuit dove ho scritto il contrario!, ripeteva.
Se va di moda il Governo, ma chi se ne frega del Presidente del Consiglio!, si diceva.
Pensare con la propria testa è must!, digitava M, gugolando seduto in treno, in metro, in ufficio, in fila alla posta, all’ufficio delle entrate, in sala d’attesa dal medico.
La vita, le persone e il mondo intero erano nella sua mano, nella tasca interna della giacca o nel marsupio.
Una vita alla ricerca dell’autenticità, della rettitudine a parole, della morale a grandi linee.
La sigaretta serve ad accompagnare degnamente una birra.
La cultura?, a digitare qualcosa d’interessante.

Casomai v’interessasse sapere com’è andata a finire, tranquillizzatevi, M. è fuori pericolo. È in ospedale da dove tuitta serenamente le sue prognosi, e posta foto delle sue fratture multiple.
Il problema semmai è il mio, che durante la stesura di questa breve #derivaditwitter ho controllato tre volte la posta di Google, due quella di Libero, cinque volte la Home di Feisbùc e a ogni conclusione del periodo ho dato un’occhiata alla mia TL.