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lunedì 31 marzo 2014

Deriva #50 #derivaditwitter: La fiera delle banalità

Il neofita si è fatto furbo. Ha letto il Blog di Skanke, ha saputo dall’amico come ci si comporta. Ha duecento follouer, predica che i #social servono per fare amicizia, ma di sapere chi  tu sia non gli importa un fico secco. Non le legge le bio, ti attacca per un nonnulla, chiosa ad minchiam, non rituitta manco morto, stellina chiunque, e se non gli dai il followback ti fa “ciao ciao” con la manina. 
Lui, con i suoi #FF al sole e all’amore, è libero e sa ciò che vuole. Infatti, i Friday Forward che fino a un anno fa potevano farti guadagnare anche dieci follouer, non hanno più alcun senso. 
Lui si porta i post da FB. Quelli con gli errori di ortografia che giravano sul social di Zuk già tre anni fa. Che se gli dici che è un falso ti risponde: lo sapevo già, l’ho postato solo per ridere. Che poi, se è un post falso, con errori messi lì a bella posta, mi domando cosa ci sia da ridere.
Ma lui è fatto così. Lui sa di sapere.
Il neofita posta su #twitter le foto del pranzo fuori porta con tanto di nonna. La cagnetta smarrita. Quella malmenata. Tutte cose che qui su #TW il social della parola originale e dello scambio rapido di battute, noi puristi (e ormai siamo rimasti in tre) avremmo preferito non leggere.
Perché avere due social uguali identici, mi dovete dire che senso ha, e una volta che me lo avete spiegato, vorrei anche che qualcuno mi convincesse che è giusto.

Ci sono due scuole di pensiero: più follouer comunque sia, anche se la mia “Taimlain” diventerà una collezione di banalità. Meno follouer ma più qualità di scambio.
Io opto per la seconda scelta. Cosa che faccio da sempre anche nella vita, da quando iniziai a fare teatro scegliendo di lavorare per registi meno quotati ma certamente più sperimentali.
Perché se hai troppi follouer in TL, tuittatori compulsivi del primo piano del proprio orribile alluce in riva al mare, ma anche di De Chirico e Balla fa lo stesso, perché non si arriva a capire che il consenso non si ottiene facendo chiasso, sarà anche complicato vedere gli altri, i Tweet più sensati.
Perché sì, lo ripeto da tempo. Non siamo tutti uguali, e di copioni, loffi, inutilmente egocentrici, il mondo è pieno e la rete pure. Di donne che nonostante le notizie di cronaca continuano a sostenere, parlando a nome e per conto di tutte,  “che parliamo d’amore ma vorremmo tutte essere sbattute faccia la muro”, la rete è così piena da non distinguerle più una dall’altra.
Inoltre, chi si appropria di tuit altrui e scrive banalità non verrà mai a leggere il mio blog, né comprerà ciò che scrivo. Al massimo farà finta, unendosi al coro di chi mostra la “selfie” originale con la copertina del mio romanzo, e soltanto per ottenere un rituit. 

Ma il defollou si sente da lontano.
Soprattutto verso chi si è instupidito all’improvviso.
Quando il vecchio follouer, quello che credevi abbastanza sobrio, inizia a rituittare la banalità della neofita in francesine, e una e due e tre, finché non arriva la battuta fortemente sessita. Finché non digita la parola chiave perché parta il mio “ban”, senza rendersi conto che “uterina”, forse, può a dirlo a sua sorella, non a me che di lui non conosco nemmeno il nome di battesimo.  E che tra “femminile” e “uterino” c’è un abisso che lui non vuole proprio riconoscere.
Perché domandare scusa non si usa proprio più.
Perché la massa fagocita e dimentica.
Come la tizia beccata ieri nel RT di un amico, lei, primo piano di uno splendido tacco dodici sicuramente non suo, che non solo ha tuittato l’abusatissimo “Ci sedemmo dalla parte torto visto che tutti gli altri posti erano occupati” ma lo ha poi attribuito a un tale “anonimo”. Povero Brecht, in pochissimi mesi  saccheggiato e dimenticato.
Perché se l’ignoranza è nemica della storia, il populismo è nemico della proprietà intellettuale.
Il populista ti accusa di arroganza se per caso lo correggi, ti dice “cazzo vuoi”, se è a corto di parole. 


In una società dove il 37% della popolazione compra un libro l’anno, uno solo, le parole d’ordine vincenti sono buonismo e banalità. Popolarità, che fa il paio con tivù. Perché come ci ha giustamente ricordato Camilleri, in questo paese esiste solo la speculazione economica, quella intellettuale, forse, costa troppa fatica.

mercoledì 26 marzo 2014

Niente di che

Martina era rimasta così, distesa pancia sotto, un braccio penzoloni dal letto, guardava nel buio il niente o chissà.
Non si erano scambiati nemmeno una parola. Non aveva osato guardarlo. Neanche quando si era alzato, subito dopo, per correre al bagno.
Martina aveva paura potesse sfuggirle una parola di troppo, che dopo quella performance fiacca e noiosa le venisse finalmente la definizione più giusta per quella relazione. Ci ragionava sopra da settimane. O forse, aveva cominciato sin da subito a cercarne il senso.
Diffidava degli uomini pieni di pregiudizi.
Martina diffidava anche di quelli che diffidavano del proprio sperma. Il sesso per Martina aveva un odore troppo buono per pensare di lavarselo di dosso. Le piaceva andare in giro profumata di sesso. Era convinta che l’universo mondo potesse considerarla di più e meglio se odorava di sesso. Sosteneva che i lavori migliori li aveva ottenuti dopo essersi masturbata di corsa prima di uscire di casa, o dopo averlo fatto nelle toilette degli uffici dove cercava di farsi assumere. O nel bagno un po’ lercio del bar all’angolo. Perché c’era sempre un bar all’angolo o di fronte. Martina affermava anche che il “Man” l’aveva sentito subito quell’afrore speciale, targato “Martina segretaria full time”, e che per questo l’aveva assunta. Sosteneva anche che per la stessa ragione si era dovuta licenziare, ogni volta che lo stesso “Man” le saltava addosso, a fine turno, al venerdì sera, quando l’aria inizia a odorare di avventura già dalla pausa pranzo. Anzi, forse fin dal primo caffè della giornata.
            Sentì che apriva i rubinetti della doccia. Il tipico scroscio di acqua bollente che chiama la bestemmia. Ma lui non era un uomo da bestemmia.
Lo immaginò passarsi il filo interdentale tra i denti bianchissimi. Una volta fu in grado di girare più di dieci farmacie di turno per trovare quello giusto. Lasciandola ogni volta in attesa. Anche la sua automobile sapeva di disinfettante.
Allungò il braccio e toccò il display del cellulare. Diede una rapida scorsa alle notifiche, sempre troppe e sempre inutili, diede un colpo di tosse. Forse soltanto per manifestarsi.

Si erano rivisti in montagna. Sulla montagna. Proprio in cima.
Martina stava disegnando. Se ne stava lì a seguire le vette, una per una, cercando di non perdersi, di far sì che la matita non segnasse percorsi sbagliati. Lo faceva fin da bambina.
Ogni anno sceglieva un punto di vista diverso.
Martina sosteneva che la montagna cambia a ogni passo.
Era un rito consolidato quello di starsene in posizione di mezzo loto a disegnare le vette. Così come che sua madre la chiamasse almeno tre volte dal rifugio, e che fosse infine sua sorella a portarle, fin lì dove si era sistemata, roccia o prato, il panino con specialità della zona.
Tanto per cambiare quel mattino di agosto era variabile. Il tempo sadico delle vette nostrane, che quando finalmente ti spogli, seppur diffidente, quando ti sei disteso e cominci a sognare, arriva una nuvola, gonfia, scura e solitaria. E il vento d’improvviso smette di soffiare.
Ma quella volta non fu la nuvola a metterla in ombra.
L’uomo che la guardava portava pantaloni alla zuava, calzettoni di rigore e scarponi di gran marca, nuovi di zecca. Mancavano le bretelle. Se avesse iniziato a prendersi a calci nel culo sarebbe stato perfetto per quel paesaggio.
Martina non si ricordava di lui. Non riusciva a mettere insieme la figura opaca di un bambino incontrato a un veglione di carnevale trentacinque anni prima, vestito da Peter Pan, e l’omone che di lassù la guardava e sorrideva.
Non glielo disse, e facendogli posto sulla pietra liscia da cui aveva deciso di scrutare cielo e orizzonte, si spinse anche più in là, domandandogli di suo fratello. Un buon modo per trovare qualche indizio. L’imbarazzo che si creò quando lui le chiese a quale dei quattro si riferisse, fu interrotto da una folata di vento, che fece volare via il foglio e fece alzare lui a rincorrerlo.
Ebbe modo di ragionare e di capire chi fosse solo quando lui le parlò di chirurgia plastica, del suo lavoro che lo impegnava più di una moglie che, infatti, lui, non aveva.
Lì in montagna, né sulla montagna né giù in paese, non successe nulla tra loro.
            Martina si era fatta furba, sempre attenta a mettere in atto giochetti da rotocalco femminile: le attese, le pause, in amor vince chi fugge e tutte quelle puttanate lì che, purtroppo, spesso, funzionano anche. Gli concesse soltanto una pomiciata sul prato, al tramonto. Un bacio che sapeva di colluttorio alla menta, più che altro.
            Martina sosteneva che il bacio fosse tutto. Lo sapeva per istinto che è lì, nell’incontro tra due lingue, che parte il giro di giostra. Come sapeva, che il bacio più saporito sarebbe rimasto per sempre quello dell’amica del cuore, che l’aveva fatto scherzando, solo per prova, prima di chiunque altro.
E il bacio di quell’uomo era disattento.           

In bagno c’era silenzio. Che fosse morto? Si domandò Martina.
Diede un’altra occhiata al display e un altro colpo di tosse.
Ascoltò il silenzio e seguì le linee tono su tono della moquette.
Mosse il braccio un paio di volte, quasi che sotto il letto ci fosse lo specchio di un lago.
Decise di andarsene.
Tre minuti dopo scendeva le scale infilando cappotto e cappello. Sette minuti più tardi infilava la chiave nel cruscotto e partiva sgommando. Come un ragazzo di strada esibì la potenza del motore e del suo cuore in tumulto. Bruciò tre rossi. Prese almeno tre multe. Forse avrebbero dovuto ritirarle la patente.
Ma Martina era troppo bella così arruffata, il trucco sfatto e l’aria rassegnata di chi non cerca nemmeno più protezione. Che è ormai alla deriva, ma con un bel paio di cosce sode e la camicia abbottonata male, proprio come una che sia appena scappata da un Motel. Dopo venti minuti, Martina parcheggiava sotto casa, a metà sulle strisce pedonali. Esausta si guardò nello specchietto. Fece ondeggiare un paio di volte il caschetto bruno e sorrise.
            Diede un’altra occhiata al display. L’aveva chiamata già dodici volte.
Usava il cellulare come usava il suo cazzo. Ripetitivo. Pedante.
Martina era convinta che l’uomo pensasse a ben altro quando stava su di lei. Proprio a qualcosa di diverso, forse ai punti di sutura di un’operazione. O a nuove tecniche di drenaggio.
Martina chiudeva sempre gli occhi quando facevano l’amore. Lui, anche. Ma questo Martina non poteva saperlo.
Salì le scale a piedi. Cinque piani. L’ascensore era rotto.
Mise il cellulare in mute e lo vide illuminarsi e vibrare. Lo teneva d’occhio e meditava su ciò che avrebbe voluto fare.
Ripensò alla fatica per averlo. Lui e quell'attaccamento alla sua solitudine. A quella finta libertà da vaschetta monouso, a cena, sulla tovaglia di carta in cucina. Martina pensò a quanto fosse freddo e inospitale il suo cuore.
Martina si era sempre detta che le marchette si fanno per contanti e per una notte sola. Che un vincolo è per sempre e che spezzarlo è sacrilegio. Che un vincolo vuole promesse da rispettare.
Che la vita è una ma l’amore no. Per fortuna.
Martina sosteneva che nessun uomo è meglio di uno che non è niente di che.
Con un tempismo eccezionale, invece, il messaggio arrivò: Metti i documenti in ordine e partiamo.
Decise in pochi attimi: Va bene.

Martina sosteneva che l’incoerenza fosse un dono del signore.

mercoledì 19 marzo 2014

Estetiste

A un certo punto Lalla mi guarda.
Lì si chiamano tutte così, Lalla, Manu, Stefi. Fede.
È seria. Solleva gli occhi nocciola dai miei piedi, come le fosse balenata un’idea o avesse scordato qualcosa.
Mi guarda di nuovo.
È urgente, è successo qualcosa di grave.
Che c’è?, la incoraggio a parlare.
Stringe gli occhi come per una fitta di dolore e s’incupisce. Ha anche smesso di masticare la gomma.
Poi tira su un bel respiro e prova a dire.
No, niente, conclude delusa prima di riprendere in mano lo smalto trasparente.
Scuote la testa un paio di volte. Rimproverandosi forse per l’ardire.
Lalla è contrariata nonostante ci sia il sole. Perché lei è meteoropatica. Così dice quando prova a giustificare il suo cattivo umore.
Dare la colpa al tempo è un buon modo per passare oltre, un diversivo, un trucco per evitare di scavare a fondo in un malessere che da passeggero può diventare cronico. Malinconia che nasconde disamore, noia, scontentezza, infelicità esistenziale.
“Chi siamo, cosa facciamo e da dove veniamo”, sono domande fuori moda. Lo so bene.
È più importante apparire e mostrarsi che guardarsi dentro, farsi domande, in silenzio.

Ogni volta che la guardo, quando passo un po’ di tempo con lei nella sua minuscola stanza da estetista, mi sento vecchia. E non sono la consistenza della sua pelle giovanissima o il collo lungo e liscissimo a fare la differenza. Sono piuttosto le sue affermazioni ingenue, lo sguardo di sincera meraviglia a ogni storia che le racconto. Le domande sui viaggi, sul teatro, sull’amore. Lei che non si è mai spostata dall’Aurelia. Che se l’ha fatto è stato per arrivare a via del Corso. Lei che dell’amore sa poco e niente e afferma che nemmeno le interessa.
Che dell’amore si sa sempre tanto e mai abbastanza, però, non gliel’ho detto.
E nemmeno che in questo caso specifico la teoria si sposa poco e niente con la pratica. Che quando ti trovi davanti il tizio che ti corrisponde a pelle, non ci sono scuse che tengano. Che hai voglia a dirsi “non darla, non darla”, ci si ritrova sempre supine, spesso, prone. Pronte ad accorrere a ogni chiamata, fosse pure col sabato sera già organizzato.
Non le ho detto nemmeno che la fedeltà è una grande cazzata. Né le ho parlato di lealtà, è un concetto che devo anch’io approfondire.

Lalla è afflitta come non l’ho mai vista prima. Neppure quando la collega le sbagliò tinta. O quando la sua amica del cuore si rivelò un’infida, portandole via il ragazzo.
Nemmeno quando sentendo per radio Sarah Vaughan, mi domandò chi fosse quel cantante così bravo.
La incoraggio ancora a parlare.
Allora lascia cadere lo smalto e cerca un’idea, per aria, tra la doccia abbronzante e l’orologio a muro.
Si tortura le mani, come una bambina timida in procinto di recitare la poesia.
Non so... balbetta. Non lo so dire... ripete un paio di volte ancora, spazientita. Poi sbuffa, vinta da qualcosa che sa, e che è dentro, cui non riesce proprio a assegnare un nome.
Si tratta di amore? Di lavoro, di salute?, domando.
Lalla scuote la testa, i capelli liscissimi, lucidi, brillanti, un’aureola castana.
Problemi di soldi?, la incalzo.
Di droga? (Da annoverare sempre, con gli estranei poco più che maggiorenni, come una roba da cui stare sempre alla larga).
Arenata sull’ultima spiaggia della tossicodipendenza, torno al mio fantastico settimanale di gossip.
Lalla mi sorride.
Se mi viene, te lo dico!, mi fa rassicurandomi, e riprende il lavoro.
Come sempre concentrata, la bocca grande mastica una gomma anziché il rosario.

È la mancanza di parole che ci fa restare inermi. Che non ci consente di progredire. L’incapacità di leggere ciò che sta fuori e ciò che abbiamo dentro che banalizza tutto. Che fa che le storie restino fatti e non esperienze.
Prova a dirmelo!, le chiedo ancora una volta, allegra, come le proponessi un gioco, una caccia al tesoro di concetti astratti.
Cerca di mettere una parola accanto alla sensazione che provi. Misurala, pesala. Suggerisco. Prova a vedere se corrisponde come colore, come suono.
Mi guarda come per dire: no, dai, tanto perdo.
Ma provaci!, insisto.
Vabbeh. Mi risponde col sorriso.
Ma prima scegli lo smalto!, propone.
Sceglilo tu!, mi affido a lei.
Decisa, punta il dito su un grigio scuro.
Approvo.
Lalla ha esteso la propria cupezza ragazzina alle unghie dei miei piedi.

Mi annoio, dice.
Ora?, ti annoi adesso?, qui?
No, dice allarmata, il lavoro mi piace, il lavoro mi fa stare bene. Si scusa.
Allora?
È la vita che mi annoia. La mia vita, che non ha senso.
Ecco, l’ha detto, e si fa di nuovo scura in viso.
Bel casino, penso. Ma è solo un attimo, perché io ce l’ho la soluzione, io la trovai prestissimo la via di scampo. E non basta dirle che è giovane e che passerà. Perché così non sarà. Perché è la mancanza di parole a toglierle la visuale, a negarle l’infinito che tutti abbiamo a disposizione e che spesso non sappiamo vedere.
Leggi. Le propongo.
Leggi!, le dico di nuovo, senza pensarci un attimo, senza aspettare risposta, con entusiasmo, rivivendo in un istante solo la meraviglia provata la mia prima volta, quando nascosta tra la poltrona di pelle di papà e il termosifone, in un noioso pomeriggio invernale, lessi di Jo March e il suo primo istante d’amore, sulla neve.
Leggi!, le dico ancora, rispondendo al suo sguardo diffidente.
Leggendo puoi viaggiare, conoscere, sapere. Puoi essere altrove senza doverti mai spostare, puoi essere sempre diversa restando così come sei.
Leggi, ti prego Lalla, vedrai che sarà come camminare in un sogno infinito. Sarà come salire i gradini di una scala che porta su nel cielo. A volte anche all’inferno, sì, ma pazienza, può capitare. Sarà come aprire porte che svelano paesaggi sempre nuovi.
Poi, anch’io non trovo più parole.
Guardo il lavoro che ha fatto ai miei piedi. È perfetto.
Mi lascio andare al vuoto che le nostre parole hanno prodotto. Mi domando se uscendo dal lavoro Lalla entrerà in libreria.
Conosco la risposta, ma stavolta ho già la soluzione. È in borsa.
Un bel Romanzo d’amore, per iniziare.




martedì 4 marzo 2014

Arbusti.

Dopo tre anni di silenzio mi ero decisa. Ero capitata lì per caso, se proprio si vuol credere che il caso esista. Non lo avevo nemmeno avvertito, come facevo di solito, inviandogli una e mail che annunciava la mia visita. Stavolta avevo soltanto consultato gli orari delle lezioni e poi, casualmente, mi ero ritrovata in zona, proprio durante la pausa pranzo, dopo aver sbagliato fermata della metro.
La facoltà era sempre lì, sotto l’ombra degli alti platani, al termine del vialetto di lavanda ombreggiato dal salice frondoso.
Qualcuno deve averli pur piantati quei cespugli di lavanda, gli dicevo ogni volta, ma lui preferiva scuotere la testa, negare, pensare che ci fossero sempre stati.
Che differenza farebbe, gli dissi una volta, cosa ci sarebbe di strano se qualcuno li avesse piantati lì proprio per te.
Nessuna, rispondeva, ma non è così, e si alzava dalla panchina dove normalmente ci fermavamo a chiacchierare del tempo, dell’amore, del programma di studi, e dell’ultimo saggio pubblicato da un collega.
Intorno a quelle piante di lavanda c’era un segreto che non mi voleva svelare. Ogni volta che sollevavo l’argomento, il suo sguardo si animava di una strana impazienza.

Come un vecchio abitudinario, il professore era seduto lì anche quel giorno. Sulla nostra panchina, il solito pezzo di pizza bianca triste tra le mani e la cartella di cuoio, sempre quella, appoggiata allo schienale, aperta.
Sembrava ancora più esile, consumato dagli anni come il loden che portava addosso.
Non aveva mai dato peso all’aspetto esteriore, credo anzi di non averlo mai visto con pantaloni diversi da quelli, o forse, avevo sempre pensato, li comprava in serie. Come le camicie e i pullover, grigi, marroni e neri, mai un rombo o una riga. Una vita a tinta unita, una calma apparente che nascondeva chissà quante passioni clandestine.

Come stai?, disse allargando le braccia in un gesto di accogliente meraviglia.
Professore, feci io, lasciandomi andare commossa al suo abbraccio.
Professore sto bene, sussurrai alla stoffa del suo cappotto, alla pelle ruvida e olivastra che sapeva di talco e di colonia inglese.
Dove eravamo rimasti?, mi disse poi, prendendomi per mano e conducendomi a sedere.
Eravamo rimasti al tempo che si ferma quando sono con te, ai segreti che non mi hai mai svelato, a tutte quelle domande che mi avevi giurato avrebbero trovato risposta, al senso della vita che sta nelle piccole cose, negli affetti che non si esauriscono mai, negli amori, che se non consumati ardono in eterno. Eravamo rimasti al cane che volevi adottare, al figlio che non hai mai avuto, alla realizzazione che non hai mai cercato.
Eravamo rimasti a Therry e al tuo viaggio a Parigi!, disse invece lui, battendosi la mano sulla coscia e sul pantalone di velluto a coste.
Così gli feci un riassunto di quei tre anni a Parigi, della nuova casa in periferia, della mia nuova vita, della mia famiglia e di quella di Therry, del lavoro, delle traduzioni, delle mode letterarie.
Ma tu, come stai?, insisté scorrendo con l’indice, alla ricerca forse di un indizio, la mia guancia arrossata dal freddo.
Vuoi una risposta di circostanza o una risposta vera?
Io voglio sempre risposte vere. E mi sorrise, mettendosi in attesa.

Sono infelice, professore. La realtà non è quella che tu mi hai insegnato a leggere e ad amare. Non esiste, tra tanti punti di vista, quello che corrisponde al mio, nemmeno uno, che gli assomigli almeno in parte. Mi sento isolata, inascoltata e triste.
No, non gli avevo detto tutto, non gli avrei mai confessato che la vita che avevo scelto era soltanto un ripiego, che mio marito era una persona splendida che però non amavo, un’occasione presa al volo per tamponare la ferita, un modo rapido e indolore per andare via dall’Italia e scappare lontano da lui.
Non è facile per nessuno, disse ripiegando con cura i lembi della carta in cui era avvolto ciò che rimaneva della pizza. A nessuno viene regalato niente.
Non ci credevo, e con un lieve gesto di stizza gli mostrai il mio dissenso.
È così, insisté lui, o almeno devi provare a crederci, per non soffrire, e per non smettere di sognare.
Per non smettere di sognare o di illudermi?, ribattei con tono leggermente polemico.
Non rispose, come faceva sempre per non ferirmi, per non dirmi: hai ragione, la vita si svolge ai piani alti e a te vengono lanciati soltanto gli avanzi del banchetto.
Vuoi saperla proprio la storia della lavanda?, voleva cambiare argomento.
Lo guardai felice.
Prese tempo.
Su quaranta specie qui ce ne sono soltanto tre. Negli anni sembrano essersi confuse tra loro, ma a guardarle da vicino sono molto diverse. La lavanda ha radici forti, più terra le dai più ne prende, e cresce a dismisura. Un po’ come l’amore, che è meglio tenerlo alla larga quando non si è certi di averne dentro abbastanza. Se non si è convinti di poterne dare via a sufficienza, senza sentirsi completamente nudi. Parlo dell’amore passionale, egoista ed esclusivo.
Al contrario dell’amore la lavanda non va curata, è un arbusto che cresce spontaneo, è indipendente, basta a se stesso. La lavanda ha proprietà curative, mentre l’amore il più delle volte ammala, soprattutto quando è diretto a un cuore arido, o a un vecchio ed egoista professore di filosofia.
Guardò l’orologio.
È ora di andare, ho lezione tra sei minuti, disse alzandosi dalla panchina.
Lo accompagnai fino all’ingresso dell’Istituto, poi lo seguii su per le scale, fino all’aula, dove fu subito circondato dai suoi studenti. Provai invidia per loro, forse una punta d’odio.
Mi strinsi nel cappotto e feci per andare via.

Viola!, mi sentii chiamare. Mi voltai e vidi la sua mano ampia salutarmi sopra delle teste dei ragazzi.

sabato 1 marzo 2014

Veglioni tristi, interpreti e strade obbligate.

È sempre stato così il cielo del mio Carnevale. Incerto, a tratti piovoso, sempre freddo, tanto da costringermi alla lunga mantella che nascondeva la maschera.
Meglio così, pensavo, infilata in un costume che non avevo scelto e non avrei mai voluto indossare. Quello da margherita, per esempio, una tutina di nylon verde con tutù bianco e giallo definito da una corona tutta petali che mi torturava le tempie, o quello da ungherese, da olandesina, da zingara, con almeno la gonna lunga e il bustino nero. Travestimenti che mi facevano impallidire accanto alle leziose damine del settecento, da me invidiate e a me proibite perché troppo viste. Perché indossate dalle figlie del giornalaio, sicuramente acquistate con i proventi delle migliaia di figurine che io stessa compravo.
Credo di aver iniziato a fare l’attrice solo per poter mettere addosso uno di quegli abiti pieni di pizzi e trine, turchesi, color cipria o scarlatti, e infilare una parrucca piena di boccoli. Impresa riuscita solo in parte e soltanto un paio di volte, più adatta come indole al dramma primo novecentesco, e a fare grandi casini. Come accadde per un Pirandello diretto da Camilleri, quando mi assegnarono un abito “Tirelli” sotto cui infilai un paio di mutande della mia trisavola, salvo poi trovarmi, a un minuto dall’andata in scena, bloccata nel minuscolo bagno del teatrino dell’Accademia, a sbrogliarne i legacci.
Ho sempre cercato di entrare in parte. Sin da bambina. Sin da giovanissima sono stata ossessionata dal voler essere qualcun altro.

I veglioni di Carnevale mi hanno sempre messo addosso un'immensa tristezza.
Le uscite pomeridiane nel buio incombente. L’incontro forzato con bambini sconosciuti e urlanti. Autorizzati per l’occasione a comportarsi peggio del solito.
Poco autentici i pantaloni di velluto a zampa d’elefante che fuoriuscivano dai costumi di Mary Poppins, Biancaneve e Cenerentola, triste il dolcevita che s’intravedeva sotto la giacca del soldato secessionista o del Principe Azzurro.
Il mio istinto mi suggeriva già allora che indossare una maschera significava interpretare, essere dentro, pensare e agire come il personaggio di cui vestivo i panni.
Perciò mi riusciva odioso essere un fiore, troppo vago, niente affatto interessante.
Dall’angolo in cui ogni volta mi rifugiavo per non essere inclusa nei giochi, pensavo che Biancaneve con occhiali e capelli corti non era Biancaneve, com’era del tutto fuori parte Cenerentola bruna. Che i Cow boy non potevano correre per la sala con la maschera di Zorro e la spada, i Pirati, erano incoerenti con il ruolo se mettevano le piume da indiani sulla testa.
Ho sempre odiato il carnevale e la sua finta allegria, le frappe, lo zucchero a velo che macchiava gli abiti. Il chiasso e le facce arrossate dalle corse, i giochi a premi, la maledetta “pentolaccia” che non riuscivo mai a rompere, troppo minuta perfino per arrivare a toccarla. I coriandoli tra i capelli, le stelle filanti, le trombette che squillavano a pochi centimetri dal mio orecchio. Le urla dei più scalmanati che finivano ogni volta col rompersi qualcosa. Mia madre che tardava ad arrivare e io in attesa sulla sedia, nella sala vuota e tristemente silenziosa.

Arrivò anche il Carnevale molesto e le armi di distruzione, fialette, inchiostro simpatico, uova e farina. Anche se poi, all’uscita di scuola, essere rincorsa da gruppi di ragazzini diventò un gioco di seduzione, perché tornare a casa ricoperta di farina era un chiaro segno di stima. C’erano bambine che se la portavano da casa, lanciandosela addosso non viste, per mostrare al mondo almeno un po’ di quell’apprezzamento che era loro negato. Perché i bambini sono crudeli.
Più in là, le feste si trasformarono in una gara di creatività. Facce colorate, abiti riadattati da madri e nonne, feste a tema, ricchi premi e cotillon, e il solito pianto a dirotto, chiusa a doppia mandata nel bagno, per il ragazzino che si negava, che faceva il filo a un’altra, quella con il seno più grande e l’aria più adulta.
Ma il Carnevale per me è durato poco. A sedici anni finalmente vestivo gli abiti di Donna Rosita, usavo trine e pizzi come oggetti di scena, andavo per mercatini alla ricerca di abiti usati da riadattare a Colombina.
Volevo un Carnevale che durasse tutta la vita, o per lo meno un paio di stagioni.
La mia stanza dei giochi è sempre stato un palcoscenico, e la mia infanzia tutta una favola. Delle storie che imparavo a memoria, interpretavo ogni ruolo, ascoltando e riascoltando il disco finché ogni passaggio non mi fosse chiaro, imitando di ogni personaggio esitazioni e inflessioni, e le espressioni, che vedevo sul libro e provavo davanti allo specchio, fecero crescere in me la convinzione di potere essere altro e altrove.
Questa idea, a tratti ossessiva, mi è stata addosso finché non l’ho esaudita, come se dall’altra parte, in una vita passata, chissà quando, dove e nel corpo di chi, non avessi fatto a tempo a portare a termine quel desiderio.

Un brandello di Karma, passato attraverso il “non tempo” della morte, e che ho dovuto necessariamente concludere.