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giovedì 26 dicembre 2013

Justine e la politica (Tratto da "Justine 2.0)

Justine 2.0 Pubblicato da INK Edizioni

Fissò lo sguardo sul monitor. Il Politico S. stava lì, fermo nella sua icona, da mesi. Le gambe atletiche accavallate, immerso nella lettura di un quotidiano e incorniciato dal cielo terso, azzurro come la sua camicia e, nonostante battutine, autoscatti, doppi sensi e sottintesi, se ne stava lì da mesi e non la guardava.
Al di là di certe tiepide e-mail, la donna non leggeva alcun segno concreto, dato di fatto, modificazione di stato, nuova amicizia, quiz, causa o nota, che le desse la misura del suo umore da single.
Justine respirava profondamente, sorseggiava caffè nero e intanto fissava le linee di quel viso.
La nascita radical-chic le aveva concesso il lusso di frequentare la politica sin da bambina. Parte del sistema educativo cui Justine era stata sottoposta consisteva, infatti, nella visione integrale delle tribune elettorali e delle discussioni – sempre civili – che si accendevano subito dopo tra gli amati genitori. Ricordava bene quelle trasmissioni noiosissime in cui signori in bianco e nero – un po’ bruttini – parlavano usando un eloquio pacato e composto distante mille miglia dal protagonismo di cui tanti sembravano malati, dall’onnipresenza sui social media e in tivvù e dalle affermazioni offensive con cui ammorbavano l’aria.
«Un politico è un politico», ripeté a Yang, che imprigionata in una lama di luce la guardava dal marmo cremisi del pavimento.
«Ma cosa fa un politico?».
Sapeva di non essere l’unica a interrogarsi sulla questione e a ridursi a certe fantasie. In effetti, tra stagiste, veline, meteorine ed escort minorenni, i pensieri peccaminosi degli italiani e di chi li governava stavano consumando gli ultimi litri d’aria della nazione, eppure non poteva proprio fare a meno di farsi venire certe idee ogni volta che li vedeva parlare e muovere le loro mani curate e potenti sui divanetti dei talk-show.
E subito, ovunque si trovasse, sentiva l’eco dei gemiti di piacere rimbalzare sui muri dei larghi e solitari corridoi parlamentari, percorsi da tappeti pregiati dove s’immaginava prona, gli occhi e il viso pieni di lacrime e onorevole sperma. Oppure, riversa sui divani damascati e comodissimi, le gambe fasciate da calze di seta e stivali di morbida nappa, mentre guardava l’uomo senza volto che le ordinava di servirlo a dovere.
E così si vedeva sulle enormi poltrone di pelle e sulle immense scrivanie, circondata da guardie del corpo con i membri in mano, grossi, duri e pulsanti, la schiena curva, il viso arrossato da buffetti e sputi, sudato, premuto con forza sul legno pregiato, le braccia sottili imbrigliate dietro la schiena da cravatte eleganti, legate fra loro e tenute con forza da un polso grosso e abbastanza peloso, abbracciato teneramente da un polsino chiaro, abbellito da un gemello prezioso e discreto seguito da una mano elegante e perfetta. Una mano che non tocca.
E ancora, sul punto di venire, immaginava la voce ferma di quell’uomo senza volto che le sussurrava frasi indecenti una dietro l’altra, senza stancarsi mai, e che con veemenza e scherno la chiamava cagna e le urlava troia, puttana, latrina, mentre con una mano tirava con forza la briglia e con l’altra i capelli di lei che gemeva, ancora in sé, ma per poco.
E, non ancora soddisfatta, immaginava nemici pubblici e pubblicamente ostili che se la passavano l’un l’altro, fraternizzando in un’orgia titanica sugli scranni del Parlamento, tutti insieme, godendo infine in un collettivo orgasmo allo scampanellio che annunciava l’inizio delle consultazioni.
Mani destre e sinistre, e membri, la frugavano da tempo durante le sue lunghe digressioni notturne, distanti anni luce dalla scandalosa, squallida e assai più prevedibile realtà, che le procurava sgomento anziché plurimi orgasmi.

“Un politico è un politico, certo”, pensò dando un’occhiata al suo curriculum e cercando di crederci almeno un po’.

L’ultima volta che Justine e S. si erano connessi era stato una settimana prima, venerdì sera, in chat, durante uno dei rari slanci “sentimental-parasessuali” del parlamentare cattocomunista.
Era uno dei tanti tredici febbraio tristi della sua vita, ma lei ride- va pensando a quell’uomo, di là dal monitor, in un’altra parte della città, magari in pantofole e calzini, che chino sulla tastiera e completamente avverso alla tecnologia, si dava da fare con il delicato trackpad del suo portatile nuovo di zecca. Sigaretta sul posacenere, l’uomo cercava goffamente di star dietro alle dita allegre di Justine che, veloci come il suo pensiero e aeree come la sua indole, digitavano concetti per lo più complessi.
E mentre lei trascriveva citazioni scartabellando interi volumi di filosofia, il Politico astigmatico tirava fuori dei semplici «è vero» e dei brevi «sì, hai ragione» che comparivano sul monitor, poco incisivi, al termine di estenuanti attese. Paziente, la nostra eroina si era costretta a rallentare per sapere di più, per indagare e capire chi fosse, ripiegando su discorsi piani, semplici e banali le cui risposte potevano anche essere dei brevi sì o no: «Sei sposato?», «Hai la donna?», «Eri in Fgci?», «Ah, Dp?», «Dove abiti?», eccetera.
Il ticchettio frenetico delle dita forti di Justine sui tasti luccicanti e retroilluminati, fece da colonna sonora a quella triste domenica invernale. Frasi oscene e digressioni fantastiche si specchiavano nel nero degli occhi di Justine; orge e scambi di coppia, che lei immaginava svolgersi nelle dark room più permissive dell’Est europeo, venivano descritte al Politico e con dovizia di particolari. Finché i «Sì» dell’uomo si fecero ripetuti e continui, insieme a degli «Ancora» e a molti «Dai». Nella sua casa da maschio single, perfetta e lucida, lo immaginò lavorare di mano finché un poco onorevole «Se continui così...» precedette un più eloquente silenzio, seguito da “faccina sorridente”, seguita da “due punti e asterisco”, seguita dall’accensione della sigaretta di rito e da una breve chiacchierata in chat.
Al termine di quell’amplesso virtuale – durante il quale si era divertito solo lui – la nostra protagonista non aveva potuto far altro che deprimersi ascoltando lo stesso brano melenso almeno venti volte e facendo fuori un intero pacco di Osvego con burro e miele.
Quelle storie non l’avrebbero portata a niente di buono e lei, nemmeno tanto in fondo, lo sapeva. Ma di alternative ce n’erano poche.
Malinconica e quasi alle lacrime postava sulla sua pagina My Funny Valentine, Love for Sale e tutto il repertorio di ballad tra le più romantiche, concludendo quella conversazione virtuale, solitaria e univoca, con una più esplicita Should I Stay or Should I Go dei Clash.

mercoledì 18 dicembre 2013

Consulenza legale

L’avvocato le andò incontro in sala d’aspetto e le strinse la mano. La donna si alzò nella speranza di poter conferire al più presto, ma dopo che lui ebbe dato uno sguardo all’orologio facendole capire che mancava ancora un po’, si risedette. L’uomo si allontanò con aria indaffarata dopo aver prelevato un paio di faldoni che la giovane in tailleur grigio perla aveva già preparato per lui.
Nella sala d’aspetto, che si trovava esattamente davanti al frontdesk, regnava un silenzio sordo.
La donna si avvicinò alla finestra e guardò fuori, un interno qualunque con una palma, che l’amministratore di condominio aveva deciso di lasciar morire, la distrasse per pochissimi istanti. Poi, preso dalla borsa un taccuino dalla copertina nera scrisse qualcosa e lo lasciò cadere sulla morbida poltrona di pelle sulla quale aveva appoggiato cappotto, sciarpa, e cappello da uomo, anch’essi rigorosamente neri.
Faceva un caldo tropicale e così si sfilò il maglione, nero, slacciando un paio di bottoni della camicetta, in tinta. Prima di lasciarsi cadere rassegnata sulla poltrona, tirò su i capelli lisci e bruni infilandoci dentro una matita.
Dopo alcuni minuti d’inattività forzata, trasse dalla borsa alcuni fogli che prese a leggere muovendo le labbra come una scolaretta i primi giorni di scuola.
L’orologio diede cinque tocchi, lei si voltò verso le segretarie che insieme le sorrisero.
Al termine dei sei tocchi l’uomo comparve dando ordini alle due assistenti e, prendendo una chiamata evidentemente di lavoro, le fece strada fino allo studio.
Infine sollevò la cornetta del telefono fisso, un vecchio pezzo anni settanta, mise il cellulare in mute, abbassò le luci e si mise seduto al proprio posto, finalmente pronto ad ascoltare.

«Si sieda», le disse affabile dopo averla squadrata tenendosi il mento tra due dita. «Allora mi dica», concluse in tono professionale.
Lei guardò in alto, e dopo essersi sistemata la gonna longuette, iniziò a raccontare procedendo in maniera evidentemente affettata e poco naturale, come un’attrice al suo primo provino.
«Ho ucciso mio marito... avvocato... sì... gli ho infilato il coltello in mezzo al petto... quel porco... era un porco... sì... lo giuro... avvoca... ».
«Ma nooo... nooo... », la interruppe lui riaccendendo la luce e puntandogliela sull’ovale perfetto.
«Ricominci daccapo, la prego, così non andiamo da nessuna parte! Riprenda con ordine!».
«Va bene, riprendo! Aspetti che le racconto tutto dall’inizio».
Finalmente, risollevato il viso dopo circa mezzo minuto di concentrazione, la donna esibì un’espressione contrita, lo sguardo illuminato da autentico pentimento. No, anzi, era vera angoscia quella che chissà quale ricordo era riuscito a evocare.
L’avvocato sentì un movimento sotto il pantalone.
«Sì, continui così, sì, vada a ruota libera, mi dica, l’ascolto, son tutto orecchi».
La donna accavallò le gambe, lunghe e fasciate da calze fumo di Londra, e prese a fargli un resoconto, il più dettagliato possibile, di tutte le violenze subite, delle torture cui il marito l’aveva sottoposta per anni. Gli disse dei risvegli notturni, di quando tornava ubriaco dalla partita di calcetto, dei tradimenti con “porche baldracche e puttane”, cui quel “lurido bastardo, figlio di puttana e impotente” la costringeva ad assistere e spesso anche a partecipare, passando per tutti i possibili attacchi alla dignità femminile che le venivano in mente e che sciorinava in un italiano artefatto, che di tanto in tanto raddoppiava consonanti, scivolando sempre più spesso in un dialetto musicale e verace.

L’avvocato, che nel frattempo si era alzato dalla comoda poltrona, le girava attorno cercando il momento più giusto per mettere fine a quella confessione sopra le righe e a quella storia che faceva acqua da tutte le parti.
«E il coltello? Dove ha nascosto il coltello? E l’auto? Perché ha preso quella di suo marito? E chi l’ha aiutata a portare giù il corpo? Aveva un complice? Era il suo amante? E quale sarebbe il fiume dove l’ha gettato che qui in città non c’è nemmeno una pozzanghera? Il lago? Dove? Ma se il mare è a trecento chilometri da qui? Ma che dice? Non si contraddica. Chi ha chiamato dopo? E la polizia? Se è successo tre giorni fa qualcuno avrà notato di certo la sua assenza dal lavoro. E le impronte? La pistola? Quale? E dove l’avrebbe presa? La corda? Quando mai ha parlato di corde?».
La donna, sotto quella raffica di domande, appariva sempre più smarrita e tremante, disperata affondava le unghie rosso brillante nei morbidi braccioli della poltrona, dentro cui tentava disperatamente di rannicchiarsi e scomparire. Annichilita, rispondeva balbettando, si guardava intorno alla ricerca di un appiglio, di risposte plausibili e di vie d’uscita.
Lui non le dava tregua, riempiva l’aria di gesti ampi ed esclamazioni spaventose, quelle che gli avvocati usano di norma prima di presentare la parcella, quando vogliono lasciar intendere al cliente che senza il loro prezioso intervento gli spetterebbe soltanto il carcere duro, che si tratti di una multa o un omicidio non fa differenza. Dei “hummm... “ pensosi, che anticipavano vigorose negazioni del capo, rimbalzavano sulle pareti di legno, brevi risate nasali, che preludevano a sarcastici “lei crede”, numerosi “dica dica pure” che già denigravano la soluzione, ovvia, che la cliente gli sottoponeva, le venivano snocciolati sul viso ormai pallidissimo.

«Perché in giurisprudenza non c’è niente di ovvio...  signora» disse quasi in un sibilo al termine di una lunga pausa, durante la quale si era slacciato la fibbia di metallo della cintura di cuoio pesante.
«Arrivate qui pensando che la legge sia chiara come una lista della spesa» aggiunse guardando di sbieco la donna il cui labbro inferiore aveva preso a tremare leggermente, ancora in sé, nonostante la lunga performance, ma ormai svuotata e stanca, vinta da quel rimbombare di punti di domanda e termini astrusi.
«Perché nessuna via, tra quelle che a voi umani appaiono plausibili e giuste, sono per noi legalmente percorribili... » e con un elegante cenno della mano la invitò a spogliarsi, mentre per primo le mostrava con fierezza il corpo ben fatto, asciutto, l’ampio petto ancora memore di numerosi anni di nuoto agonistico, depilato e abbronzato da lunghe vacanze all’equatore.
«Noi ci nutriamo di vizi di forma, di virgole posposte, di codicilli e prassi, di norme e sentenze» disse porgendole la cinta.
«Perché se a volte percorriamo scorciatoie, spesso ci adagiamo in lungaggini. Noi valutiamo, rimandiamo, ci assentiamo... » e si sfilò i pantaloni eleganti. «Presentiamo istanze, rigettiamo sentenze, ricorriamo in appello, in cassazione, all’alta corte. Evochiamo l’indulto» disse ancora mostrandole la schiena larga e muscolosa.
«Ricorriamo al tribunale della Libertà», e si distese a braccia spalancate sulla solida scrivania, lasciando cadere, in quel gesto liberatorio, faldoni e agenda, telefono e cellulare.
«Noi lavoriamo duramente perché chi ci paga possa dormire sonni tranquilli» e allargò le gambe muscolose.
«E adesso la prego, in nome dei cinquecento euro che le darò in nero e cash, per tutto ciò che non ho fatto perché la giustizia trionfi, e per ciò che ancora non farò, la prego, mi punisca duramente e con tutta la forza che ha», e con la mano destra afferrò il suo membro in evidente erezione.
Rimase una splendida luce da lettura, un vecchio pezzo da museo, a illuminare il suo sguardo appagato, che a ogni colpo di cinghia si chiudeva sul blu cobalto dei suoi occhi.

Qui il mio romanzo http://www.inkedizioni.com/justine-2-0/


domenica 15 dicembre 2013

E poi c'è il mare.




Ho odiato la scuola sin dall’asilo.
L’abbandono delle bambole al buio del cesto e della stanza dei giochi. Il freddo bianco latte che ghermiva il paesaggio. La direttrice truccata da maitresse con tanto di unghie spaventose. Il plesso scolastico dai pavimenti grigi, cosparso qua e là da segatura che copriva i resti della colazione del più timido, del meno studioso che chiamato alla lavagna s’impallava miseramente davanti all’addizione più semplice.
Le attenzioni della maestra da dividere con i compagni, come l’onore di strappar via il foglietto dal calendario, i canti corali anziché da solista, il grembiule, che sotto il blu elettrico nascondeva tutti i colori.
L’interrogazione, cui ho resistito come un’agente della CIA anche dopo, negli anni del liceo, quando mettevo in atto la tecnica appresa già nella culla, la minaccia di un crollo emotivo simulata attraverso il lieve tremolio di mento e labbra, e l’immediato illuminarsi dello sguardo di un luccichio sinistro.
Nulla era più vile per me che dover essere costretta a mostrare alla classe le mie qualità.
Non c’era niente di meglio durante quelle ore di ozio, mentre i compagni si davano da fare a primeggiare, che contare sotto il banco figurine, leggere grandi classici fuori programma, rincorrere con lo sguardo, in cortile, le rare foglie che si staccavano dai rari alberi, o il pulviscolo danzante, che si rifugiava nei raggi di sole per finire sul mio banco e tra le mie dita.
Consideravo vanagloriose le energiche alzate di mano e gli acuti “io, io!” che rimbombavano in classe, ridicolo, il tentativo di ognuno di dare la risposta più giusta.
A che pro, mi domandavo, stare a tu per tu con sussidiario e libro di lettura quando fuori succedeva il casino, mentre fuori si sparava e ci si menava di brutto.
Comunque, ricreazione e cambio ora hanno sempre rappresentato il mio riscatto. Finalmente libera facevo propaganda distribuendo prima figurine e miniflex, poi volantini o idee, cercando, sia prima che poi, il mio futuro ragazzo, con parvenze fiabesche se possibile, anziché da cartone animato.

Tutto il resto era ansia o noia mortale. La scuola era confronto, la presa d’atto dolorosa che per essere la più brava dovevo gareggiare, alzare anch’io il braccio, strillare più forte e, soprattutto, conoscere la risposta giusta.
Tra le peggiori frustrazioni di quel tempo grigio, che sapeva di mandarino e banana sfatta, le galoche che mia madre non volle comprami, salvo poi scoprire di aver costruito un dramma esistenziale su un fatto inesistente, grazie alla missiva anonima di un ex compagno di classe.
Cara amica, nei mie sogni mi ritrovo bambino con te che scendevi le scale vestita così: mantellina di loden, passamontagna rosso, galoche rosso brillante bordato giallo canarino.
Mai attribuire ad altri il merito della propria indole ribelle.

La decisione di non indossare più il grembiule fu il mio primo atto sovversivo allo stato di bambina.
Indifferente allo scherno dei compagni e alle occhiate gelide delle altre mamme, andai fino in fondo, fino all’umiliazione di venir esclusa dalla foto di fine corso. In segno di sfida, quel giorno indossai un maglione rosso.
Distratta da ciò che c’era fuori, e viveva, fissavo il mondo degli adulti con sguardo attento. Il vigile urbano, esempi di maschia virilità i suoi gesti autoritari e i baffi, la divisa inamidata e le scarpe lucide. Il ragazzo che consegnava i fiori, un Paul Newman del sud dallo sguardo verde petrolio e il jeans aderente, alto in vita e consumato proprio lì davanti.
E non fissare la gente!, mi diceva l’adulto di turno.
E non fare linguacce!, esibite magistralmente solo in risposta alle provocazioni del mostro della macchina accanto, anche lui messo di dietro come un pacco postale, ignaro anche lui della destinazione ultima di quello che mi sembrava sempre un viaggio misterioso, pieno di sorprese e soste, come quelle alla stazione di servizio, dove giovanotti in tuta gialla, mi fecero conoscere, inserendola direttamente nella cinquecento, la prima (ma non ultima) sostanza stupefacente.
Fuori da quel plesso grigio era tutto più bello. Tutto assai pericoloso, stando almeno alle raccomandazioni degli adulti cui comunque non ho mai creduto.

Nemmeno oggi che sono donna fatta (non solo in termini anagrafici) presto ascolto agli inutili moniti.
Si possono vivere più vite in una sola esistenza, grattare più fondi di barile e prendere decisioni che si sentono giuste soltanto nella pancia. Anche se sarà uno sfacelo andrà bene lo stesso, è sempre il nostro viaggio.
Non ho mai creduto che il talento valga poco, né voglio indossare la divisa da perdente.
Non so dove sia il traguardo della nostra esistenza, né chi abbia deciso di fissarlo esattamente in quel punto lì.
Non dipendono dagli altri le mie letture o il mio ottimismo.
Scelgo io stessa dove inerpicarmi. Non uso guide turistiche per attraversare le città, mi lascio trasportare dalle voci o dal silenzio, dal movimento della notte, da un passo che mi richiama all’amore.
Fuori c’è il mare. Coppie di anziani passeggiano, giovani in gruppo, uomini soli e donne guardano l’orizzonte assieme a me, ma in perfetta solitudine.
Non c’è soltanto chiasso, il primeggiare a forza di alzate di braccia, l’affermazione di sé a ogni costo.
C’è anche la ricerca fine a se stessa.
Il compimento di un’opera che sia allo stato dell’arte.
Prima c’è il viaggio. Un dove recarsi. Ci sono altri cieli da toccare e mete diverse.
E poi, per affermarmi dovrei prima sapere qual è risposta giusta, e per fortuna, non credo proprio di conoscerla.

(In libreria: http://www.inkedizioni.com/justine-2-0/)

domenica 8 dicembre 2013

Subway

Tra i viaggiatori che l’umanità la ignorano, tenendo gli occhi su tablet, cellulari, giornali e libri, quelli che la evitano, cercando un posto defilato, saltellando da un sedile all’altro, alzandosi ogni volta per spostarsi un po’ più in là, c'è chi tra gli altri ci sta a proprio agio, che tra gli altri si sente al caldo, affine e complice.
Io appartengo a questa specie, quella curiosa che si perde tra i dettagli, unghie, capelli, pulizia e grana della pelle, che ficca il naso nei libri altrui, che origlia discorsi, accenti, intenzioni e ritmi, che prova a ipotizzare, tra le pieghe di una gonna, un passato da ginnasta o da ballerina, che sulle dita delle mani conta anelli, intuisce età, fatica e indole.
Metto in allarme i miei sensi, tutti e sei, per scatenarli nel vagone come radar sensibili, alla ricerca di uno svago, il mio, sempre a caccia di esistenze sulle quali indagare per ingannare il tempo, quello, il solito, fuggevole e disonesto.
Tra tutti mi soffermo su un vecchio elegante che il passato glorioso ce l’ha nelle spalle, fatiche disegnate dal tempo, abitudini e vizi, la tristezza della perdita –o di molte- scritta a caratteri cubitali nello sguardo. Ormai a un passo dalla fine certa ha negli occhi un’ombra di terrore, lacrime che, in quei crateri infossati e lividi, si sono fatte laghi. Sopravvissuto al proprio passato e comunque sia vincente. Che sia stata una vita gratificante o meno non ha importanza, ciò che vedo mi basta.
Il loden ben spazzolato, custodito con cura ogni anno come se fosse l’ultimo e poi rindossato, come per un miracolo, una grazia, o forse una condanna. Il cappello in tinta, regalo rituale di qualche nipote per un Natale che non riserva più sorprese, e che anzi crea disordine, un caos insopportabile in una quotidianità tutta abitudini. La sciarpa di cachemire odora di lavanda. Unghie pulite, mani come sentieri accidentati. Il polsino, fiero di essere mostrato al mondo, inamidato e lindo, come il colletto della camicia attorno al collo esile, un tronco di salice che si accascia su un prato. Il naso consunto solcato da occhiali.
Porta due fedi all’anulare. Tira fuori dalla tasca un fazzoletto bianco con iniziali e asciuga l’eccesso di nostalgia che gli ha appena tolto il fiato.
Ecco la sua fermata. Scende. La folla lo trascina via, risucchiandolo di nuovo in un futuro di cui io non saprò nulla.


Foto by Valery Titievsky

sabato 7 dicembre 2013

Deriva #42 #derivaditwitter: Aridaje con la Tweetstar

“C’era una volta il Barone Lamberto... ” è una deliziosa fiaba di Rodari che insegna come, parlandone, si accresca il valore, supposto o meno, guadagnato o costruito sul nulla, di chiunque.
Ecco, forse, se la finissimo di parlarne, le tuitstar non esisterebbero.
Io, che la televisione non la guardo se non per spararmi un film a fine serata, non so nemmeno chi siano certe boccolose dalle labbra a canotto che su twitter hanno più di trentamila fan, così come non so chi siano certi orrendi tipacci dalla risposta a fior di polpastrello che frequentano gabbie e tolcsciò.
Siamo noi che li riempiamo di orgoglio, come in questi giorni con il cane Dudù.
Perché oggi ha più voce lui che un imprenditore sul lastrico, perché parlare di Dudù avrà sicuramente un maggior numero rituit.

Le tuitstar non rispondono! Le tuitstar cancellano le interazioni manco fossero la peste bubbonica! Le tuitstar se la tirano! Le tuitstar defollouano! Le tuitstar si fanno #FF a vicenda!
Ecco, se la piantaste di seguirle, le tuitstar non avrebbero più ragione di esistere.
Ma così non sarà. Sempre per la famosa legge che premia la popolarità e non il successo, un paio di tettone e non un timido sorriso, la battuta lapidaria e non quella sottile, le tuitstar saranno sempre sulla cresta dell’onda.
Allora perché lamentarsi?
È come andare a Cortina e sorprendersi ogni volta delle tizie in minigonna e tacco dodici. Se vai a Cortina lo saprai bene che ci sarà anche l’orda di barbari venuti a omaggiare Montezemolo anziché fare escursioni.
Il famoso “aridinghede aridanghede” di tuitter, che può essere giardino silenzioso pieno di magnolie o un corso di paese chiassoso e pieno di luci psichedeliche. Dipende da chi si sceglie di seguire. Lo dico sempre, ognuno ha la TL che si merita.
La ragione per la quale seguo qualcuno è se i suoi tuit vanno al di là dei luoghi comuni che già leggo sugli E-zine, sulla posta di Libero, e ormai anche sui settimanali più importanti. Tutti vogliono stare sulla notizia e, come bambini a corto di parole, si passano le news fino a esaurirle, riducendo anche i temi più scottanti, in povere banalità.
Delle funzioni intestinali del mattino personalmente m’importa poco, così come del servizio meteo o se il bambino ha avuto il rigurgito.  


Su come diventare tuitstar hanno scritto già in tanti, e in parole spesso poverissime, quindi non dirò che per esserlo basta avere tantissimi follouer e pochi follouing, oltre a un numero esiguo di tuit.
Ma le tuitstar non sono tutte uguali.
Ci sono quelle di nome, quelle di culo e quelle di merito.
Su quelle di nome ho già scritto, alcune meritano e se seguirle ha un senso, fatelo, su altre ho molti dubbi, per cui poche moine, se non vi piacciono defollouatele e senza tante storie.
Quelle di “culo”, invece, sono la vera gramigna di tuitter.
Per la maggior parte blogger dell’ultima ora dal giudizio caustico (come se già non ce ne fossero a iosa), hanno la battuta facile e cavalcano l’onda del #TT e del luogo comune, sfornano ricette di vita e d’amore e ci accolgono con PIC straordinariamente originali, spesso con il medio alzato, e con bio salaci. Lo spirito di patata a ogni costo, quello da liceali dell’ultimo banco che niente ha a che vedere con l’ironia, lastrica la home delle suddette sempre (per carità) coperte da anonimato. Sono quelle che non fanno che rintuzzare le tuitstar di “nome”, tanto per accumulare follouer. Il loro atteggiamento sfrontato dice: io sò io voi nun sete un cazzo. Prima o poi pubblicheranno qualcosa, un manuale di sopravvivenza metropolitana che parla di gruppetti di giovani senza futuro ma dai grandi ideali messi al margine dalla società che non li vuole.
Insomma, sono geni incompresi che sanno come far girare il mondo e ancora non si sono accorti che dovrebbero prima far girare la propria vita.
Vanno d’insulto e si nutrono degli errori altrui. Piacciono ai propri simili che, vi garantisco, sono tantissimi.

Infine le mie preferite, le uniche che abbia senso seguire: le twitstar di merito.
Agili di dita, scrivono tuit esilaranti e si guadagnano i propri follouer con tempo e fatica. Hanno bio esilaranti ricopiate a iosa dai meno creativi. Fiori di campo, sono visibili come nontiscordardimé nel prato delle banalità 2.0. Spiritose ma anche romantiche, raccontano di sé includendo sempre il prossimo, sono taglienti, molte destinate al successo (che non è sempre popolarità) hanno accumulato follouer a forza di testa non di tattiche. Non tuittano di continuo perché si danno da fare, leggono, lavorano, studiano e scrivono. Usano tuitter per avere visibilità ma anche rapporti umani, anche se in questi ci credono poco. La maggior parte delle volte fanno giochi di parole e inventano storie deliziose in centoquarantacaratteri, quelle che pensi: ecco, questa l’avrei voluta scrivere io. Non hanno mai più di ventimila follouer e anche un buon numero di follouing, sono “star” di nascita e tuittere per caso. Scrivono di politica e tecnologie, di economia e musica. Sono generose, attente ai propri simili, interagiscono il giusto. Non seguono i #TT, li creano.



(P.S. io non sono una tuitstar ma cancello sempre le interazioni. Detesto scorrere una TL piena di emoticon e conversazioni. Cancello anche i tuit con poco senso, quelli che il giorno dopo li leggo e mi domando: cosa ho scritto?)

domenica 1 dicembre 2013

Deriva #41 #derivaditwitter: La donna dei Pixel

Finché sono le signore a digitare frasi melense posso anche chiudere un occhio e scorrere rapidamente la TL, ma il morbo del romanticismo sintetico si è diffuso anche tra gli uomini, rituittati a iosa dalle stesse, sempre all’imbrunire, mentre aspettano che il minestrone (surgelato) sia pronto da servire.
Le versioni maschili dei saccenti in amore, quelli che sdoganano ricette infallibili, sono per lo più mezzi profili o labbra forti, piani americani un po’ sfuocati o mascelle importanti. Completamente OUT mani e piedi, quando invece, una PIC con scarpa inglese fatta a mano potrebbe raccogliere molti più consensi, ma si sa che se non hai capelli e sei grasso non rientrerai mai tra i cosiddetti Machi papabili.
I profili più comuni si arrampicano sugli specchi del consenso femminile cercando originalità a tutti i costi attorno a due parole, cuore e amore, che intinte nel sangue e nel dolore, fanno ancora una volta rima con tumefazione e rianimazione.
Braccia che stringono fino a spezzare ossa, assenze che tolgono il respiro e pelli attraversate da brividi, labbra febbricitanti e membra tremanti.
Il più rituittato, mago delle banalità a portata di polpastrello è “Uomo d’altri tempi”, trentacinquemila FAN su Faccialibro e prossima tuitstar, almeno stando ai rituit che riceve. Trattasi di un barbuto figaccio di cui si scorgono l’occhio malinconico e un naso maschio e di cui s’intuisce il capello folto e lungo con bocca dura seminascosta da barba. Anch’essa assai virile.
Ho una cotta per la mia mente... e non solo!” è la sua bio che, tanto per cominciare mette l’accento (per una volta giusto), sulla propria autostima, merce assai rara oggigiorno.
Le virgole sono per lui un optional, il punto fermo, una necessità.
Le frasi, semplicissime, sono tutte in seconda persona singolare.
Come un noto politico italiano in odore di elezioni, anche lui si rivolge a Francesca, Maria, Marta e Luciana. 
Per non perdere pubblico e agguantare chiunque, dedica molte delle sue attenzioni alle “donne belle dentro”, che già basterebbe a mandarlo a fanculo “per sempre”.
Le foto che posta sono tramonti, donne bellissime che guardano tramonti, abbracci infiniti al tramonto e labbra (bellissime) che si sfiorano appena davanti al tramonto e che accompagnano frasi di questo tenore: “Sfido chiunque a non voler essere al primo posto di una persona speciale. Perché questo accada c'è bisogno di impegno. Nulla sarà regalato” roba che nemmeno l’I Ching oserebbe consigliare. Ma anche “Quelle cicatrici che solo tu potrai placare dal dolore lancinante con la tua immensità di donna” oppure “Essere tutto per qualcuno significa essere anche il poco, il niente, l'assoluto”, insomma roba da fare invidia a Umberto Tozzi e ai Cugini di Campagna, ossimori improbabili e sintassi traballante che riceve “Like” spropositati e condivisioni tali che, se dovesse proporre un romanzo, potrebbe anche arrivare tra i primi in classifica.

Altro vezzo dello pseudo romantico 2.0 è la definizione di donna o l’immagine che di essa ha.
La sua donna dei Pixel è chiaramente bellissima, superiore a ogni altra e misteriosa. La Mata Hari che lo incatena al monitor non è la moglie, che in cucina smadonna perché nessuno le da una mano, e nemmeno la tizia che si affanna a star dietro ai compiti dei bambini. La “cucciola” che lui vuole è quella dalla PIC sgranata in bianco e nero, quella che di sé mostra nuca o labbra prese a prestito da una modella svedese, quella che si fa cercare, che sospira una necessità di amore “grave”, “urgente” e “siderale”.
La sua donna ideale è estensibile all’infinito, in grado di far provare “Un amore che come il sole finisce dentro di lei”, rendendola perciò galassia, che "brucia al fuoco di un amore spento di già", che è "capace di sopportare il dolore". La donna che lui brama è colei che sa sorprenderlo attraverso l’attesa infinita.
Per il romantico uomo dei pixel la donna dei sogni è femmina ma anche no, puttana ma non troppo, sa essere madre, moglie e amante e sempre su tacco dodici –contrariamente alla martire che l’ha sposato, costretta a stivalacci con para o a galoche che le permettano di portare i figli a scuola senza scomodarlo dal computer.
Il romantico 2.0 viaggia veloce coperto da nickname e sdogana ricette per chiunque.
Lui sì, che sa cosa sono l’amore, la sua mancanza e l’ardore.
Il nostro amato macho digitale impugna la spada del buonsenso e del luogo comune perché sa che “nessuno cercherà un’altra donna se TU non gliene darai motivo”. Poco importa se nel frattempo devi cercare lavoro dopo che ti hanno licenziata dal call center. Perché “è da un bacio che si capisce l’evoluzione dell’amore”, e che minchia gliene importa a lui, se dopo quel primo incontro magico sul lungomare di Civitavecchia lei è ingrassata di venti Kg e tu non sei in grado di darle dei figli perché fumi tre pacchetti di Marlboro al giorno.
La donna è composta da molti mondi che la rendono universo, e questo è verissimo: quello del lavoro, della spesa, del pranzo, della palestra, della suocera e, in gran parte, del conclusivo “smadonnamento” serale.

Ma il nostro romanticone non si cura della comica tragicità del nostro viver quotidiano in un rapporto a due rattoppato e claudicante, lui è il sogno che ha bisogno del nostro coraggio per incarnarsi. Lui è l’autostima che ci manca, quella che ci abbandona ogni giorno di più e non soltanto davanti allo specchio, quella che ci spinge a fingerci qualcun altro anche quando cerchiamo tra gli annunci di lavoro mentre, incredule, leggiamo: Max venticinque anni, bella presenza, obbligatorio allegare foto. Perché lui forse non sa, che essere belli dentro, oggi, non serve proprio a un cazzo.




domenica 24 novembre 2013

Serva di scena


M. era un regista. Un regista di buon calibro e in possesso di una certa dose di ironia che ben nascondeva paure, insicurezze infantili e compulsioni. 
Se per intellettuale intendiamo chi abbia una cultura forte, grande capacità di parola e di analisi, posso affermare con certezza che M. era un intellettuale. Un intellettuale un po’ “gigione”, come si dice in gergo per indicare l’attore che ammicca verso il pubblico, che tira l’applauso anche forzando la battuta e che ama trattenersi sul palco il più a lungo possibile, soprattutto in proscenio, per gli applausi. L’avevo sedotto per ottenere un bel ruolo in un dramma, uno Strindberg tenebroso e lentissimo che fu invece assegnato a una bruna algida.
M. nascondeva i suoi sessant’anni in un corpo pingue ma agilissimo e in una faccia tonda un po’ clownesca. Non aveva particolari vezzi, a parte quello di rendere il proprio interlocutore il centro del mondo e dell’universo.
La sua forza si propagava dal palco per arrivare fino all’ultima poltroncina in galleria mentre la sua sensualità, infiammava lo sguardo di chiunque lo ascoltasse recitare. O parlare.
È la magia del teatro, questa entità astratta, che riunisce attorno a un tavolino solitudini piene di contraddizioni e ipocrisie, che analizzano e rendono credibili altre umanità, ugualmente poco chiare e interpretabili in mille modi diversi.
M. parlava a ognuno con il linguaggio più congeniale. Con molti era carezzevole come il velluto del sipario, con altri, me compresa, era ruvido come le tavole del palcoscenico.
Poiché attrice giovane, e sempre nel rispetto della tradizione teatrale, io ero quella da educare.
Così, M. iniziò la sua opera di diminuzione del mio già fragilissimo “io” dandomi il ruolo di aiuto regista senza paga. Tanto per tenermi di più accanto a sé, così mi aveva mormorato nel buio della platea passandomi la mano bollente tra le cosce, mi propose di aiutare l’attrezzista e infine: cortesemente sempre che per te non sia troppo oneroso, quello assai più umiliante di vivandiera.
La paga per tutta questa fatica era essere l’amante di M., ossia vitto gratis nelle osterie più alla moda del centro, ingressi in tutti i teatri della capitale, contatti con attori e registi di grido.
Mai stanco di montare spettacoli, M. montava con una furia da ventenne qualsiasi donna gli capitasse a tiro, che se anche non fosse stata disponibile nell’immediato, si sarebbe arresa al suo divano in poche ore e soltanto perché sfiancata e ormai debole, schiacciata e ormai prona davanti alla sua dialettica circense.
Io restavo a guardare, in senso metaforico, e a fare la guardia al suo preziosissimo attico con vista sui fori imperiali.

M. aveva una fantasia sessuale fuori dal comune.
La sua perversione consisteva prendermi con con foga mentre interpretavo un ruolo possibilmente drammatico, meglio se al culmine della scena. Mi domandava di recitare –orgasmo compreso-, spesso proprio in teatro, magari dopo la prova, meglio se sotto i riflettori, auspicabile se con un po’ di pubblico, perfetto se davanti al macchinista o al direttore di scena.
Da brava allieva facevo l’impossibile per mostrargli talento e capacità interpretative, che M. commentava in seguito, prendendomi per strada, in piena notte, nella speranza che qualcuno ci vedesse, e che qualcuno, se possibile, gli domandasse di partecipare al banchetto di cui M. non sembrava mai sazio.
Mi domandava di servirlo anche durante le cene a casa sua –ti prego, dai, vieni solo un attimo di là-, per tornare poi dai suoi ospiti, spettinato e con l’espressione soddisfatta.
Nonostante il mio possibile talento si fosse trasformato agli occhi di molti addetti ai lavori in qualcosa di più prosaico, amavo M. di un amore sempre più profondo. Disperato e stupido.
Assecondavo quell’urgenza egoista in ogni modo: per paura che mi lasciasse, che lui non fosse più il mio posto giusto.
Era sempre all’erta, mai fiacco, nemmeno dopo un estenuante viaggio in auto dal Piccolo al Biondo con debutto in serata.
Dormiva niente ma era sempre lucido. Se in piena notte gli avessi domandato i nomi dei protagonisti di tutto l’Ubu Re e per ordine di battuta, lui me li avrebbe elencati senza sforzo, anche dopo una cena bagnata da abbondante vino. Salvo poi, una volta sveglio, doverlo ascoltare chiacchierare di massimi sistemi, del prossimo spettacolo, o dell’etimologia dei fiori, passione nata dopo la regia di un Lorca. 

Così gli perdonavo tutto. Anche le altre, tante e invisibili, erano parte integrante di quel contratto che significava abnegazione e totale dedizione al Maestro.
Come non restare in ginocchio, in proscenio, alla luce fioca della lampadina da lettura a pendere dalle sue labbra che seguivano linee morbide, che tracciavano caratteri irrequieti o allegri, bonari ma con un pizzico di alterigia e sarcasmo. Come evitare di seguire il suo sguardo che raccoglieva l’immagine da ridare, il più possibile integra, nella battuta. La sua voce, che si piegava per poi impennarsi in uno scatto d’ira che aveva già in sé l’ombra del pentimento. Le mani, che gli si allungavano e dimagrivano nella tensione del gesto misurato ma forte. I passi, sempre motivati, mai casuali o timidi.
M. era per me un grande cono gelato dal gusto deciso e il retrogusto ambiguo. Era cioccolato fondente unito a gelso bianco con una punta di amarena. M. era il mio ottovolante, che più lo guardavo, più non resistevo a saltarci sopra, selvaggia o languida, impaurita ed eccitata al tempo stesso.
M. era un prestigiatore e un incantatore di serpenti.
Le ore di lavoro estenuante che passavo con lui erano legati alla rivelazione di un segreto, o di un trucco.
È la magia del teatro e di chiunque ci sta dentro fino al collo. La nevrosi che andrebbe curata s’incancrenisce e cresce, infine si esalta, diventando un pregio.
E davanti a un Maestro o si è servo o si è suo pari.
Io fui la sua serva finché un giorno, uscita dall’ingresso degli artisti, non vi feci più ritorno. Ricordo che era il giorno della prova generale. Fuori pioveva.




Se vi è piaciuto questo racconto: http://www.inkedizioni.com/justine-2-0/ 

giovedì 21 novembre 2013

Deriva #40 #derivaditwitter: L'uomo dei Pixel

Dopo un anno e mezzo sono giunta a questa conclusione: l’uomo che tutte invocano sulle nostre TL è uno solo, è sicuramente un maschio meraviglioso e vive tra i pixel.
Ma facciamo un passo indietro.
Vi siete mai trovati a tuittare di sera, verso l’imbrunire? O più tardi, quando gli hashtag maggiormente digitati sono quelli dei “tolcsciò”? Bene, se fate attenzione ecco che tra un tuit d’indignazione e un anatema, spuntano, come fiori tra i cardi, poetici richiami d’amore spesso così originali da far accapponare la pelle: sguardi che penetrano, occhi che scavano, cicatrici che si palesano, amori che dilaniano, mani che graffiano e che, più che frasi romantiche, sembrano referti del Pronto Soccorso. Perché si sa che più fa male più piace, che va tanto di moda, e che anche se l’abbiamo sul divano, il nostro amore con la fede al dito, mentre armeggia non con una cinghia robusta, ma con il telecomando e una fetta di panettone, serve a poco, giusto a pagare l’affitto.
O no?
Eh sì, perché non fosse che cinque minuti prima, la gentil donzella dalla foto conturbante ha postato il proprio amore supremo per il “nano” di casa (altra definizione detestabile tra le tante), allora non ci sarebbe niente da ridire. Ma suona strano l’appello reiterato al maschio alfa sconosciuto se digitato da mani così materne. Una dicotomia che stona, che soprattutto instilla nella mia testolina un po’ curiosa, una serie di domande: che siano tutte single? Che il messaggio sia rivolto proprio a chi se n’è andato lasciandole lì su tacco con zeppa, culo di fuori (come nella PIC) e bimbo in braccio?

Da buona libertina mi piace la coerenza, che pensiero e parola siano quindi ben sintetizzati in azioni concrete.
Immaginiamo allora che l’uomo dei pixel, sadico sicuramente, seducente come nessuno mai, bello, come solo un maschio alfa ideale può essere, si manifesti in carne ed ossa nella vita ogni tuittera che digiti frasi smielate in seconda persona singolare. Che, richiamato da certe dichiarazioni d’amore si materializzi alla porta di casa esattamente come ognuna l’ha immaginato.
Che cosa accadrebbe nella vita delle super disinibite femmine digitali?
Come uscire dal guaio?
C’è quindi da augurarsi che:
1)  L’ignaro marito sia fuori per lavoro.
2) La nonna sia disponibile per un babysitteraggio improvviso.
3) Abbiano nell’armadio l’armamentario millantato così apertamente.

a)    Guepiere o reggicalze
b)   Scarpe sexissime
c)    Piedi splendidi
d)   Culo da urlo
e)    Tette da sballo

E no, perché se così non fosse, e dopo averlo evocato per mesi notte e dì, l’uomo dei pixel potrebbe anche infuriarsi!
Immaginatelo alle prese con una ragazzotta tutt’altro che disinibita, o una quarantenne che non indossi nemmeno il perizoma per infantile pudicizia e che certi argomenti un po’ luridi li ha letti soltanto sulle riviste femminili arrossendo come una scolaretta. E non che ci sia nulla di male, anzi!
In fondo io sono una cattivona.
Sicuramente, la superdonna che digita certe frasi da horror, sensualità così avvolgenti e claustrofobiche, in grado di mettere in fuga qualsiasi maschio dotato di buon senso, abita un attico da single con tanto di terrazza panoramica, veste solo Prada, indossa costumini da playgirl anche mentre cucina, e ha un corpo perfetto. Da come la stessa addita giornalmente le altre donne e il loro cattivo gusto, non posso dubitare che abbia un guardaroba da top model.
Perché è ovvio, e non dovrei neanche dirlo, che la wonder-tuittera mangia uomini ha così tanti bei fusti da amare, che sta su twitter solo per insegnare alle altre come ci si comporta, come gettare ami e prendere pesci belli grossi.
Sono io che sbaglio a immaginare “sodomia81” in ciabatte e vestaglia cinese di pile, mentre alle prese con l’aspirapolvere che non funziona, rivolge lo sguardo colpevole alla foto del giorno delle nozze e poi digita “fa che non sia il tuo rimpianto” a qualcuno che non esiste se non nella sua mente. Non è vero che “sonotua79” al ritorno dal lavoro, e mentre si sfila un paio di gambaletti color carne, cerca di fare colpo solo su se stessa, digitando “Ti succhierei come un Calippo”, o “Voglio guardarti dal basso, in ginocchio, gli occhi rigati di lacrime di piacere infinito”.
Non stanno certo lì a fare il loro amorevole mestiere di mamme rimestando semolini e pastine, mentre sognano che l’uomo dei pixel possa tendere loro la mano attraverso un DM inaspettato: sono qui, sono io quello che cerchi, vieni, vediamoci domani, incontro al buio, hotel Pincopallo ore 17:00. Fatti trovare nuda.

Un incontro al buio è qualcosa di travolgente. Una roba che toglie il sonno, un punto di domanda martellante.
Parlo di un incontro al buio vero, senza un preliminare “tu per tu” al bar della stazione ma in una stanza d’albergo sul mare (immagino), con un uomo mai visto prima e che potrebbe essere splendido o mostruoso, osando anche il massimo, facendosi trovare nuda e per di più, bendata. Niente parole, soltanto sesso. A occhi chiusi ma stavolta sul serio, come digitato mille volte e come mille volte immaginato.
Se fossi un uomo, andrei in fondo alla faccenda. Per come sono fatta, punterei la tuittera più disinibita (in TL) per metterla alla prova.
Vogliamo scommettere che farei soltanto buchi nell’acqua?

Sì, i sogni sono belli e certe dichiarazioni d’incondizionato amore fanno anche tanta tenerezza, ma sono convinta che per l’85% siano soltanto un gran mucchio di fandonie. Non c’è nessun completino in latex per l’uomo dei pixel che, se tutto va bene, vedrà arrivare alla porta “sodomia81” trafelata e senza trucco, in un chiassoso abito da casa blu elettrico a fiorellini fucsia.

(Ah, anch’io in questo istante indosso una tuta, ma in tutta franchezza cerco di mettere un po’ di distanza tra me e l’immaginario uomo dei pixel, almeno una buona dose di divertimento).

domenica 17 novembre 2013

Pioggia dorata

(Foto: Tatiana Zigar)

La storia con G. è stata diversa. La storia con G. è un antico segreto.
L’avevo conosciuto in via di Campo Marzio al termine di una divertente serata a casa di un vecchio attore malandato e marxista.
Uscita dal portone, mentre camminavo sorridendo e ripassavo le parti salienti di quella serata di taglia e cuci tra colleghi, gli ero finita addosso facendolo cadere rovinosamente.
Scusa, perdonami, cazzo che imbecille!, continuava a dirgli la mia bocca impastata di vino mentre lo aiutavo ad alzarsi e mi davo da fare per togliergli di dosso la polvere che era rimasta sull’elegante giacca scura. Nonostante continuasse a scuotere la testa in un “non importa non mi sono fatto nulla” insistetti per offrirgli il bicchiere della staffa.
Luca il vinaio (chissà perché i miei osti si chiamano tutti Luca) si lasciò convincere ad aprire una bottiglia di bianco californiano che, contrariamente a quanto stabilito, buttammo giù per intero.
Nei pressi di piazza Navona gli confessai che mi scappava la pipì e che se mi avesse fatto da palo, avrei preferito farla lì anziché arrivare a casa. Sorrise e annuì voltandosi mentre io mi accovacciavo dietro una BMW nuova di zecca. Gli dissi ridendo che provavo più gusto a farla su un’auto del genere e che, fossi stata un maschio, l’avrei fatta proprio sullo sportello del guidatore, sulla maniglia: un gesto di rivolta proletaria!, conclusi mentre le sue spalle magre si stringevano in una risata silenziosa.

Senza dirci una parola arrivammo in via dei Banchi Vecchi e dopo un’amichevole abbraccio lo lasciai sotto il portone.
Roma è una grande città che si restringe come un paese se fai lo stesso mestiere e abiti dentro le mura.
Così rividi G. due settimane dopo al teatro Argentina, così, decidemmo di andare a commentare lo spettacolo da Luca e così, al ritorno, G. mi rifece da palo, stavolta alle due del mattino, in via Panisperna, mentre io mi liberavo del vino tra una cinquecento d’epoca e una super cafonal Toyota.
Che poi cosa ce l’avranno a fare certe auto se vivono in città!, mi disse mentre il fumo del sigaro gli formava un’aureola dorata attorno ai capelli bianchi e foltissimi.
Perché io ci pisci sopra!, gli risposi ridendo.

G. scriveva. Scriveva per il teatro.
Per me ogni incontro deve avere una ragione che vada ben al di la di cazzate come l’amore, il sesso e la passione, che non sono che mezzi per toccare traguardi diversi, conoscitivi, intellettivi, semplicemente speculativi. E G. era un pozzo senza fine di storie che m’incantavano, quelle della vecchia scuola attoriale italiana, dei metodi, dei grandi attori, dei loro vizi e delle loro virtù, delle compagnie di giro, dei produttori fuggiti con l’incasso, della fame. La fame, lui me l’aveva preannunciata ben prima che ne sentissi i morsi. E i racconti, che la sua voce rauca elargiva con nostalgico buonumore, erano quelli di un ragazzo di provincia pieno di sogni che ruba libri in biblioteca, che ruba i soldi al padre per fuggire a Milano, e poi Parigi, e poi Londra in cerca di fortuna. Infine, la sua fortuna furono il matrimonio con una donna molto più grande di lui e la sua morte prematura.
G. era un artista dalle abitudini maniacali, sposato a una solitudine pagata a caro a prezzo.
Citofona!, mi disse inaspettatamente, sfiorandomi la guancia con l’indice giallastro di nicotina. Quando passi di qui vieni a salutarmi, dai, mi trovi quasi sempre in casa, lo sai.
Così, tra una data e l’altra, nei periodi di prova a piazza della Pollarola, o nell’umidità dei sottoscala e dei “ridotti”, che direttori di teatro illuminati e niente affatto rampanti lasciavano usare a noi ragazzi, giovani speranze di un teatro che di lì a poco sarebbe diventato sempre più per di elite per poi sparire tra reality e talent show, andavo da G. a respirare la sua aria cinica e disincantata.

Mi sentivo una privilegiata a poter passare tante ore ad ascoltare G. restandomene in poltrona con un volume in mano mentre lui, nascosta ogni espressione e l’impressionante magrezza sotto la folta barba fumo di Londra, ticchettava sulla sua vecchia Olivetti.
Talvolta mi appisolavo, cullata dal lieve fruscio della carta copiativa, tra mormorii, battute, titoli, sinossi e trame, che le sue labbra sottili e un po’ sbiadite sillabavano.
A casa di G. mi sentivo al riparo dall’umanità frenetica, dalla chiamata del regista che non arrivava, dal responso del provino, dalla vacuità del mondo che  aveva già corrotto la mia anima ragazza.
Fu in un gelido pomeriggio di gennaio che G. mi chiese un favore. 
Ricordo che non fece troppi giri di parole per arrivare al punto, e nonostante avesse quarant’anni più di me, non c’era nessuna vergogna, nessuna incrinazione pudica nella sua voce a quella richiesta fuori dal comune.
Potrei disegnare la sua sagoma a occhi chiusi, lì, immobile nell’imbrunire, tra la cucina e lo studio di cui, sgombri da libri e carta saranno stati a occhio e croce due metri cubi, i piedi lunghi e magri e le mani saldamente allacciate all’esile cintura di spugna dell’accappatoio liso.
Pisciami addosso, piccolina.
Nella semioscurità allargai gli occhi.
Lo hai mai fatto?, mi domandò restando immobile.
Lo guardai sbattendo le palpebre e domandandomi se per caso stessi ancora sognando.
Potrebbe esserti utile un giorno, è una pratica molto in voga presso i vecchi impotenti. E pagano bene!, aggiunse venendomi incontro per mostrami il suo corpo nudo, vecchio, un cristo condannato a risorgere in eterno e in eterno a morire per il bene di un’umanità cieca e sorda.
In realtà sono mesi che penso di domandartelo, continuò con voce carezzevole, credo dal primo giorno, quando ti ho ascoltato svuotare così generosamente la tua vescica di giovane donna del sud sulla ruota di quella BMW, disse sedendosi accanto a me sulla larga poltrona e carezzandomi la mano che a quel punto era diventata gelida per l’ansia di non saper bene cosa fare.
Devi soltanto far finta che io sia una di quelle automobili e lasciarti andare.
Immagina che io sia quel tale che non ti ha fatto lavorare. Oppure, disse infine vedendo che certe argomentazioni non mi convincevano, fallo per amore.
Ecco, sì, per amore lo potevo fare.
Era forse tutta la polvere accumulata tra i libri a impedire che la modernità entrasse tra quelle mura scrostate al terzo piano di una via del centro, era la sua fede nella disumanità a far sì che decidessi di lasciarmi andare a quel rito magico e a ripeterlo ogni volta che potevo. 
Per G. sceglievo l’abito più bello, improvvisavo danze mute sul suo corpo nudo disteso sul marmo gelido del bagno, affinché la seta frusciasse a lungo sul suo viso, prima di sollevarla e tenerla tra le mani, prima di lasciarmi andare a quell'amplesso unico e per lui così speciale.

LA CONCLUSIONE DI QUESTO RACCONTO RISCRITTO PER L'OCCASIONE, LO TROVERETE AL TERMINE DELLA RACCOLTA  "PIOGGIA DORATA- SEI STORIE AMARE" IN USCITA A NOVEMBRE. 


mercoledì 13 novembre 2013

"Justine fa marchette in Ateneo" - Justine 2.0 - Elena Bibolotti- INK Edizioni

Justine lo ascoltava incantata e stupita. Dal basso e dalla sua prospettiva le sembrava grande, grandissimo, anzi enorme. Era lì che arringava la folla e non la degnava di uno sguardo mentre lei, dai suoi sedici anni e dalle troppe curiosità adolescenziali, non staccava un attimo gli occhi dai suoi baffi, certamente profumati di tabacco, e dalla sua pelle dura e usata dalla vita.
La ragazzina dedicava ogni ora libera e capacità creativa all’arte del travestimento, al pedinamento e allo studio attento della vittima designata. La scelta non era mai casuale e, confortata dalle sue letture e da ciò che in psicoanalisi viene chiamato “pensiero magico”, le sue preferenze andavano verso tutti quelli che avevano molte buone ragioni per dirle di no. Abilissima nell’attaccarli di sorpresa, sapeva che bastava solo una goccia a far traboccare il loro personale vaso d’amarezza e che, riversato in lei ogni liquido, sarebbero stati tra- volti da sensi di colpa tardivi e imbarazzanti. Allora, nel momento del pianto e del pentimento, l’adolescente accarezzava loro i capelli – radi – baciava le loro palpebre – cadenti – sibilando al loro ego – adulto – le disonorevoli defaillances sessuali, meccaniche e automatiche, di cui si erano macchiati. In questo modo, la piccola erede del Marchese De Sade otteneva tanti soldi e cieca sottomissione. I vecchi, infatti, una volta arresi, diventavano molli come meringhe appena sfornate e così remissivi da darle la nausea.
Comunque, in quel mattino di aprile c’era il compito in classe di greco e Justine non era preparata, e poi c’era il sole, e di lì a poco non ci sarebbe stato altro che il mare. Così entrò nell’ateneo. Spingendosi fino al termine del lungo corridoio, e infilata la testa riccia in un’aula affollata e densa di fumo che volteggiava azzurro-grigio verso i finestroni, lo vide. Il Professore e i suoi baffi erano in cattedra.
Andò a sistemarsi assieme all’ingombrante vocabolario di greco nel posto più visibile dalla cattedra. Mentre la voce profonda del Prof. occupava la parte razionale di Justine con i suoi significati, significanti, relazioni, sistemi, segni e strutture, quella irrazionale lo studiava. Lo fissava con sguardo obliquo, ripetendo fra sé dei “Voltati bastardo”, talmente insistenti che, infine, il Professore la guardò. In tutto quel parlare di segni, il segno arrivò.
“Oddio”, pensò Justine innamorata.
Mille volte gli aveva allungato il piede sotto i tavoli malfermi della festa dell’Unità, e mille volte ancora gli aveva porto bicchieri di vino attenta a non versarne nemmeno un goccio, servizievole e obbediente aveva sfregato per lui milioni di fiammiferi, bruciandosi sempre la punta delle dita, senza ottenere nemmeno un grazie. Ma quel mattino il Professore ebbe forse una visione diversa della ragazzina, avvolta nella luce chiara disegnata da volute di fumo, e del suo sguardo complice, la guardò da un nuovo punto di vista che gli impedì per un attimo di parlare, costringendolo a un’espressione che aveva già in sé tutto il senso di un’oscenità appena iniziata.
Al termine della lezione, le domandò – severo – perché non fosse a scuola. Lei ci pensò su appena e lo sorprese con un: «Avevo cose più interessanti da fare». Attraversato il muro di voci che li circondava, quell’aggettivo, emesso da labbra infantili nel tono molle e lento del sud, arrivò forte e chiaro alle orecchie del Professore che la guardò con stupore. Justine aggiunse che era sola, senza soldi e aveva molta fame. Fu così che lui le appoggiò una mano, calda, sulla spalla e la guidò deciso verso le scale. Forse la spinse anche un po’, ma non ricordava bene e nemmeno importa a noi.
Nello studio giacevano un vecchio divano di pelle, un tappeto malconcio, il Presidente Pertini e il crocefisso.
«Siediti che chiamo il bar», fu l’incipit del Professore, pronunciato mentre Justine sgambettava allegra verso le finestre.
Adesso, fuori dall’aula, a guardarlo versarsi roba forte mentre teneva fra spalla e orecchio la cornetta del “rotellone” grigio (come veniva affettuosamente chiamato il vecchio telefono a disco), il Professore sembrava più umano, un uomo normale.
L’attenzione della ragazzina fu subito catturata dalle cataste di libri che, gettati lì in un antiestetico saliscendi, occupavano gran par- te dello spazio già esiguo. La luce che filtrava zebrata dalle persiane socchiuse stagliava a beneficio del Professore il profilo armonioso e le labbra della liceale che sussurravano titoli e autori al cospetto di quel- la gigantesca libreria, florida di volumi carnosi e profumati di carta ingiallita, marchiati da impronte indelebili di dita sbiadite mentre, rapide e nervose, le dita di Justine slacciavano i bottoni dell’abito che ancora si ostinava a separarla da lui. Sapeva già cosa fare.
Il Professore si voltò per riagganciare e quando tornò a guardarla vide quelle piccole labbra allargarsi in un sorriso che suggeriva il sapore di una mandorla acerba: un piccolo cuore bianco ancora liquido, proibito, protetto da guscio e drupa. Allora si disse che no, quella “bambina” non avrebbe dovuto trovarsi lì fra quei libri impolverati, in quella luce che la tagliava a pezzi illuminando tutto ciò che lui avrebbe preferito non vedere. E soprattutto, pensava il Professore, lei non avrebbe dovuto star lì con quelle intenzioni, con quello sguardo in grado di travolgere qualsiasi oggetto animato, non con quel corpo capace di fermare il tempo e confondere gli spazi.
Non così e non ora, pensava il Professore. «Per carità, Justine!», le disse convinto e con voce ferma.
Ma Justine non credeva a quel “per carità” così commosso e confuso: ne aveva già sentiti tanti. Sapeva che le sarebbe bastato niente per far cadere l’ultima goccia in quel vaso colmo di noia, di abitudini, di vacanze sempre uguali, di odori stantii, del solito letto su cui ripassava le fatiche quotidiane e le perplessità esistenziali, mentre cercava tutt’intorno qualcosa di nuovo, utile a scaricare rabbia e infelicità.
«Professore?», e Justine fece due passi verso di lui.
Il Professore iniziò a farfugliare qualcosa e, con le mani messe così davanti agli occhi, le sembrò proprio Saulo nel deserto.
E lui riprese a dire che non poteva, che era solo una bambina, che non era il caso, che le avrebbe fatto del male, che era bellissima, sì... e ancora, e con foga, ripeteva le stesse frasi, identiche a quelle che Justine avrebbe riascoltate mille volte, pronunciate da altre bocche con toni e modi diversi, ma sempre uguali nella sostanza.
Eppure era impossibile, non sarebbe mai riuscito a resistere a quella ragazzina che gli slacciava la cintura con le piccole dita macchiate d’inchiostro e lo guardava sorridente, in ginocchio, felice.
Il Professore tenne duro e chiamati in soccorso i suoi filosofi, cercò di distogliere lo sguardo da quel corpo, da quegli occhi, da quell’offerta del tutto inaspettata e insensata.
Justine si sollevò, e senza staccargli di dosso gli occhi neri, prese il bicchiere di liquore che, nella foga, l’uomo aveva abbandonato sulla scrivania. Ne bevve un lungo sorso e inalò aria dalla bocca dischiusa scoprendo appena la lingua che si era fatta incandescente. Poi abbassò lo sguardo e allungò il braccio tintinnante di bracciali porgendogli il bicchiere, in segno di pace. Lui non lo prese e rimase imbambolato a fissarla.
«Vuoi?», e gli avvicinò al viso il bicchiere. «Dai», e si passò la lingua sulle labbra. Una, due, tre volte. Eh no, nemmeno il ragazzo del bar – entrato in quel momento – riuscì a nascondere l’idea che si era fatto della scena. I due amanti si guardarono. Justine saltò a sedere sulla grande scrivania, e il Professore prese a muoversi per la stanza di nuovo sicuro di sé. Però, i suoi occhi azzurro chiaro seminascosti da folte sopracciglia avevano cambiato espressione, cancellando dal viso un po’ lungo l’aria impaurita di qualche istante prima.
Appena il ragazzo chiuse la porta dietro di sé Justine, percepito il cambio di registro, si ritrasse nell’ombra e ritrattò l’offerta, facendo- gli domande a raffica senza nemmeno lasciargli tempo di risponderle.
L’uomo, infatti, non aveva intenzione di farlo e avanzò deciso verso Justine che, rapida, si mise in cerca di nuovi argomenti e appigli o, più semplicemente, vie di fuga.
Prese a parlare della scuola, raccontò che detestava il greco e che era stata sospesa, che amava leggere in latino e non aveva nemmeno comprato il libro di matematica...
Ma il Professore le stava addosso.
Justine puntò al ribasso, alla prestazione meno dolorosa, alla mediazione.
«Dai, che per cinquantamila te lo succhio » balbettò. «Per venti te la faccio toccare» assicurò. «Ti faccio una sega e mi lasci andare» pregò. Lui non rispose: stava già ansimando su di lei, ora distesa sulla scrivania. Mentre il suo braccio penetrava con forza sotto la schiena inarcata della ragazza, rovesciò il succo di frutta e l’acqua portati dal fattorino, distruggendo qualsiasi cosa lo separasse da lei.
Justine aveva paura. Justine si sentiva soffocare. Justine non poteva ritrattare. Lui si sollevò un istante. “Oddio”, pensò la ragazzina che a vederlo così sofferente, lo trovava bellissimo. Il viso lungo segnato da rughe d’espressione le ricor- dava Robespierre sulle barricate ritratto sul libro di storia: coccarda sul petto e un grande sasso in mano.
In un moto di compassione sincera per quel grande dolore che l’aveva trasfigurato, la ragazzina si sollevò e gli accarezzò il viso.
A quel gesto, l’uomo chiuse le palpebre sull’azzurro intensissimo delle sue iridi e, prendendole la mano, la condusse a sé. Lei sentì sotto le dita i peli duri della barba e le labbra sode e forti, la lingua calda e ruvida, e il fiato che si era fatto tangibile.
Solo allora capì la misura dell’urgenza e spalancò le gambe.
Lui rientrò in sé e fece l’unico gesto prevedibile, le strappò le mutande e la penetrò con forza.
Lì, in quella fessura di carne proibita, in quel nero segreto, l’uomo aveva messo tutto se stesso assieme alla sua voglia e ora le faceva così male e bruciava così tanto che le pareva di morire.
La mano di lui impedì il pianto a quegli occhi sedicenni. Justine era trasfigurata da un’espressione di rassegnato dolore, col corpo sottile riverso sull’orrenda scrivania, abbandonato. Immersi in quel senso d’impotenza e di vuoto, rimasero così alcuni istanti, uniti, in ascolto.
Justine sentì il cuore di lui rimbombare, le dita forti incise profondamente nella sua pelle infantile.
Lui annusava l’odore inconfondibile di un sudore che profuma di giovinezza e che, a berlo, lo faceva sentire improvvisamente rapito e intrappolato in un tempo lontano, un altrove dimenticato.
«Ti prego Professore non fermarti», dicevano la bocca piena di lacrime, il viso arrossato, lo sguardo impaurito.
Lui si ritrasse, e basta.
Lei non parlò; attese alcuni istanti così distesa e poi, lentamente, si ricompose. Allacciato l’abito primaverile, la ragazzina intrecciò i capelli mettendoli sulla spalla magrissima. Raggiunse il divano senza mai sollevare gli occhi rigati di kajal e prese il vocabolario. Si voltò verso l’uscita: stava andando via senza salutare.
Quando il Professore la fermò era già sulla porta. Doveva aspettare un attimo ancora. E lei aspettò, aspettò qualcosa che potesse contrastare il male che la svuotava da dentro, che potesse giustificare almeno un po’ la gravità di quell’errore.
L’uomo finì di sistemarsi, e si aggiustò la cravatta spiando quella creatura bizzarra che, a vederla adesso, mentre frugava nello zaino accovacciata in terra, sembrava proprio una bambina. La richiamò con un cenno e le porse ciò che restava di un paio di slip con su stampato il nome di un giorno della settimana.
«Ma oggi è mercoledì», le disse. Lei non rise e infilò il venerdì nello zaino. Lui se la portò al petto e la trattenne il tempo necessario per do-
mandarle scusa senza parlare. «Non mi piace farlo Justine», disse avviandosi alla scrivania. Sem-
brava incerto, come se a ogni passo desiderasse tornare indietro. Fino a un’ora prima, però. Meglio ancora fino a ieri sera, quando aveva pensato fosse meglio mandare il suo assistente a tenere la lezione.
«Preferirei regalarti un bel braccialetto o una collana», continuò il Professore, e poi non disse altro. Solo, le mise in mano due banconote da cento. Era così facile liberarsi di lei.

La ragazzina chiuse le banconote nel pugno continuando a non guardarlo. Parole che oggi non ricordava più, la raggiunsero quando già aveva oltrepassato la soglia. 
Justine non si voltò nemmeno.

La mia Justine, come la Justine di De Sade, è una ragazzina che ha subito numerosi abusi. Cresciuta negli anni ottanta, periodo in cui politici craxiani usavano fare festini al Raphael il più delle volte con ragazze giovanissime, non è consapevole della violenza subita, anzi, si sente semplicemente diversa, più matura e intelligente delle altre. Più "figa". Una considerazione che le salverà la vita. Nel romanzo, che racconta la presa d'atto di una "slave", ossia la donna più passiva tra le donne passive,  c'è il tentativo di capire attraverso quale meccanismo, una vittima riesca a sentirsi carnefice e di come, per superare l'imprinting di quel tipo di "amore" si possano fare scelte di vita particolari e diverse. 


http://www.inkedizioni.com/justine-2-0/

giovedì 7 novembre 2013

Deriva#39 #derivaditwitter:Twitto meno più che posso

Non mi piace competere. Faccio il tifo per l’ambizione non per l’arrivismo. Gli spiriti liberi qui sembrano tanti ma poi, fuori, non sono mai abbastanza. Per non parlare dei romanticismi, dei silenzi eloquenti e delle attese snervanti, esibizioni di animi affranti, assai servizievoli e già in ginocchio.
Valuto attentamente chi seguire, leggo bio, TL e Blog. Sono per il piccante e il pepato, per i frutti aspri e le olive amare.

Sono un po’ di giorni che tuitto meno e leggo molto.
Certo, nessuno mi obbliga a stare qui tutto il giorno, si può anche scegliere di tuittare ogni tanto, di vivere questo social con l’atteggiamento e il distacco di chi, affacciato alla finestra, guardi la processione del santo passare di sotto.
Ma non è così, scorrete la vostra TL: l’ansia da rendimento ci toglie tempo, privandoci della nostra preziosa libertà.
La conta dei follouer e il paragone con l’altro, quotidiano o casuale, sono linfa vitale per la labile autostima generale che, considerando le incredibili biografie, non stento a credere sia piuttosto sofferente.
Che Twitter rosicchi gli attimi di ognuno in modo che, sommandosi, diventino ore e giornate intere è un dato di fatto. Che per ottenere follouer e visibilità –da molti chiamata “amicizia”- sottraiamo alle nostre quotidiane meditazioni una quantità di minuti preziosi, è provato, anche se continuiamo a negarlo.

Twitter è diventato per molti, nativi digitali e non, un termine di paragone e uno specchio.
Ma non si possono misurare le proprie qualità in base ai numeri, quantificare un talento è da imbecilli, da VIP televisivi, non da talent scout. Il talento si nasconde nella roccia, come il diamante. Così come non si misura il fascino o l’effetto di un nuovo abito al riscontro di un passante, del primo, e solo perché si volta a guardarci.
Non mi va di domandarmi perché la tizia con il medio alzato e la biografia che pare un Nobel abbia più follouer di me. Devo rassegnarmi all’idea che le banalità –comprese le mie- siano le più rituittate.
Ha ragione @AzzetaZeta è tutto già codificato, è tutto già deciso, anche il meccanismo che ci mette gli uni contro gli altri per un nonnulla.
È ormai risaputo, è “alla strada” come diceva la mia snobissima nonna, che la discussione su twitter faccia audience, conosco persone che hanno ottenuto migliaia di follouer in pochi mesi attaccando e rintuzzando personaggi più o meno noti.
È perfino calcolabile il punto di rottura, che qui si verifica facilmente per come il mezzo è strutturato, tra due follouer che nemmeno si piacciono granché. Causa l’incapacità di molti a non andare oltre il consentito, di evitare, ogni stramaledetta volta, di digitare ciò che si pensa realmente, di volere essere sempre più incisivi spingendosi ben oltre le proprie reali capacità e competenze.
Voglio mantenere la calma, ho troppe cose da fare!, mi dico quando un’interazione mi da noia, alla famosa ed evitabile “chiosa” del tutto fuori posto mi guarda, sotto il mio bel tuit a lungo pensato, sentito, lanciato nella rete perché venga condiviso e non necessariamente commentato.

Cerchiamo tutti l’apprezzamento, la mancanza di biasimo da parte degli altri che è come il cielo azzurro di una fredda mattinata invernale.
Che cosa c’è di male nel cercare incoraggiamento e sostegno? Lo facciamo tutti, che si postino autoscatti o frasi filosofiche, articoli di economia o gatti.
Siamo tutti in cerca di un “like”.
Perché continuare ad avvolgerci nell’ansia da umiltà, quando calpestiamo da anni un palcoscenico digitale, illuminati dall’occhio di bue che gli altri, quanti più possibile, ci puntano addosso.
Abbiamo bisogno di condividere e abbiamo lo strumento per farlo, eppure continuiamo a precisare che l’autoreferenzialità è da condannare e che l’ego del vicino è sempre più grande.
Il centro della vita è ciò che gli altri pensano di noi, ed è l’approvazione degli altri che crea dipendenza, così come l’illusione di sapere che qualcuno la pensa proprio come me, e che se ci sarà una rivoluzione saremo tantissimi. A parole, ognuno al chiuso della propria gabbia. A “spot”, e che vinca il migliore.

Più rituit ottieni più sarai rituittato.
È una nuova droga. Carezze virtuali in un mondo che ci considera numeri. La panacea che contrasta la solitudine globale di un mondo che è tanto qui e sempre meno off line, di persone cui diciamo di voler bene e che forse non incontreremo mai o con le quali prestissimo litigheremo: per niente, a causa di centoquaranta caratteri troppo ironci, sfrontati o critici. (Per quella volta che hai tuittato una battuta su qualcuno senza menzionarlo e ti ha pubblicamente smascherata).
Tuitta @AlbertHofman72 “Certe volte mi stupisco di quello che scrivo qui. Io che non do mai confidenza a nessuno. Io che scrivo la mia vita a degli sconosciuti”.
L’approvazione degli altri è troppo importante in un mondo che rispetta sempre meno l’individuo e le diversità, in una società dove il lavoro è perfino inutile cercarlo visto che nessuno risponde nemmeno con una mail di default.

Essere anonimi con migliaia di follouer è la rivincita possibile sul mondo ottuso e crudele, sul marito stronzo e tutto ciò che c’è e non basta mai. Avere un dove recarsi, un chi, probabilmente on line e disponibile a chattare, è il modo migliore per non trovarsi a tu per tu con i propri mostri. Avere referenti che non conoscono le nostre reali sconfitte e tutti quei “non sarai mai all’altezza” che ci hanno piegato, è pura felicità.
È il cuore che batte.
Lontani dai fallimenti che stanno a un passo da noi, e che riusciamo a tenere distanti con la breve gioia di aver catturato l’attenzione dell’altro -di uno qualsiasi anche solo per un breve istante-, ci rassereniamo.

Se abbiamo la scimmia da social sappiamo che nasconderci tra i pixel non serve a niente. Alla fine si torna sempre a dove eravamo rimasti: alla cena sul fuoco, ai soldi da trovare, alla tizia che ci toglie il sonno, ai silenzi imbarazzanti e veramente eloquenti che dicono: è finita.
Per affrancarsi dal giudizio e dall’approvazione degli altri però, è sempre meglio cominciare con l’affrancarsi dal proprio giudizio, o rassegnarsi ad affrontarlo.
Tuitto meno finché ci riesco.
Tuitto meno più che posso.