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martedì 7 luglio 2015

Il BLOG va in ferie e la Bibo pubblica a novembre

Infine ci separiamo, io e questo mio amatissimo blog, ma non per molto, il tempo di terminare la seconda parte del mio sesto romanzo, il secondo da quando ho chiuso i social, di riscrivere "Diario di Lola" - di cui molte parti della prima stesura son presenti qui sopra-, e di pubblicare "Pioggia dorata", un altro racconto stavolta diventato raccolta, e pubblicato per primo qui sul blog.
Da qui http://bibolotty.blogspot.it/2013/11/pioggia-dorata.html, infatti, dopo un numero veramente strabiliante di visite e condivisioni, nacque l'idea, subito scoraggiata dagli addetti ai lavori, della raccolta in uscita a novembre tutta sull'argomento "pissing", pratica proibita nel mondo "hard core", dal Primo Ministro David Cameron.

Dopo tanto penare e contare su "buone amicizie" troppo prese da sé, e conoscenti troppo assorbiti da nemmeno lo so, come sempre senza fare affidamento su nessuno, perché soltanto chi non ha le spalle abbastanza forti riceve aiuto (ed io francamente sono abituata a fare da sola), a novembre avrò due uscite, una per 80144 Edizioni, con "Il Pusher", eroticissimo racconto sulla liberalizzazione della cannabis, in un'edizione molto speciale che la casa editrice presenterà a Lucca, al Festiva del fumetto, e di cui chiaramente non posso svelare nulla, e "Pioggia dorata" che uscirà per GiaZira Scritture, una neonata casa editrice pugliese che curerà la pubblicazione in ogni suo singolo aspetto, dalla copertina alle presentazioni, senza abbandonarmi con sguardo cinico al destino infame degli esordienti.
E con ciò, sottintendo tutto quanto si può sottintendere.

Parlare di "pissing" non sarà facile davanti a platee di sessantenni desiderosi di trascorrere un pomeriggio diverso in libreria, infatti non è di pissing che parlerò, perché Cristiano Marti, il mio editore, è uno dei pochi (e qui l'elenco sarebbe da fare ma è lungo assai), che prima di darmi una risposta abbia letto il manoscritto, e sa che il sesso, infilato nelle sei storie amare al momento giusto, e anche un filo più osé che in Justine 2.0, è una scusa per parlare d'altro o risolvere il thriller che si cela in ogni racconto.

Quindi ci rivedremo a settembre sui social e a novembre in libreria.
Nel frattempo sono anche in finale per "Io scrittore", il più famoso torneo letterario italiano, anche se, forse, non altrettanto ben frequentato.
Insomma il "no social" mi ha portata a essere produttiva, soprattutto a farmene qualcosa dei miei "prodotti", lasciando le illusioni di una pubblicazione per Rizzoli o Mondadori tra i DM sconci di vecchi giornalisti e addetti ai lavori che si sono per così dire "approfittati" del mio bisogno, della mia buona fede e generosità.
Da sole è meglio.
Si può continuare a dire ciò che si vuole, e soprattutto non inginocchiarsi davanti a nessuno.

E dopo alcuni mesi durissimi durante i quali mi sembrava che il mio mondo fosse tutto di là, su Fb e Twitter, e che qui ci fosse soltanto silenzio e nessuna possibilità di riuscita -un maledetto silenzio e un mucchio di tempo vuoto e inutile- ho ricominciato a vivere, a leggere, a lasciar stare tutti, tutti quelli che corrono e mi lasciano indietro, quelli che sono indietro e devo raccogliere, quelli che insultano, quelli che lodano, quelli che non so perché si danno delle arie, quelli che sono qualcuno ma non sanno di esserlo.

Credo che la dipendenza dai social network sia un bestia incontrollabile e che chiunque la sottovaluti sia un idiota patentato. Anche io usavo i social soltanto "per lavoro", ritrovandomi tra i contatti una marea di perdite di tempo.
L'ultima, avuta poco prima di chiudere, è stata per me il colpo definitivo.
Ci ho messo quattro mesi per levarmi la scimmia di dosso e non pensare più a "di là", e non venire più a spiare "di là", a domandarmi "chissà cosa fanno di là".
Quattro mesi durante i quali il tempo si è mostruosamente dilatato.
Quattro mesi in cui mi è parso di non vivere la mia vera realtà.
Ma poi se ne esce, e quel "di là", diventa soltanto un mezzo tra tanti.
Un mezzo da spegnere per un po' di mesi, comunque ci si senta.





domenica 21 giugno 2015

Lo scrittore

Eppure ho amato Marinella. Forse l’unica donna che io abbia amato veramente. Era diversa dalle altre, discreta, poco truccata, vestiva semplicemente. Non mi aveva cercato come facevano tutte le altre. Non aveva finto d’interloquire con me del più e del meno per arrivare al punto più tardi, per sottopormi il proprio manoscritto magari dopo un invito a cena, o dopo ancora, nell’intima penombra della stanza da letto.
C’eravamo incontrati al mercato rionale di via Alessandria, a Roma, mi aveva sconsigliato quelle arance indicandomene altre su un altro banco “più giù”. Rimase a guardarmi con un broccolo in mano finché non mi vide scegliere quelle giuste.
Ci ritrovammo al banco del pesce la settimana seguente, stavolta al mercato di Piazza Vittorio.
Quel giorno pioveva e lei indossava un’impermeabile rosso ciliegia. Anche le sue gote erano rosse e gli occhi, neri, accesi come tizzoni ardenti. La guardai meglio. Aveva l’incedere di una ballerina di flamenco, un corpo armonioso, era bella. Mi portai verso di lei con la curiosità tipica di chi fa il mio mestiere, lei non mi vide finché non la urtai. Finsi una distrazione, raccolsi la mela che era caduta dal suo carrellino e gliela porsi. Lei allora si ricordò di me e delle arance. Disse soltanto «Ah, ciao!» e dopo avermi sorriso si diresse a un altro bancone.
«Lo vedi dagli occhi se sono freschi», mi disse quando le fui accanto, come attratto da una calamita.

Non le svelai il mio vero nome. Della casa, in cui la invitai per un pranzo frugale, il mio attico in via Baccina, dissi che era di umico giornalista che si era preso un anno sabbatico a New York, il mio accento napoletano aggiunse realismo a quella finzione. Quando il tuo nome è in tutte le vetrine e nelle classifiche dei romanzi più venduti, non sai mai se chi ti avvicina lo fa per interesse o per sincera attrazione.
Dissi che facevo l’architetto, quello doveva essere il mio mestiere non avessi mai inviato il mio primo manoscritto, che ero separato e avevo due figlie ormai adulte. Mi è sempre piaciuto vivere vite diverse, e non bastano i miei romanzi a raccontarle tutte.
Non mi domandò come mai in casa non avessi nessuna foto di me con le ragazze. Marinella era discreta.
Passarono tre mesi. La chiamavo io, ero io che non potevo fare a meno di sentirla e di passeggiare con lei sul lungofiume, dopo il cinema o dopo cena, a parlare delle vicende strane della vita, della sua infanzia felice, degli uomini, i tanti che l’avevano tradita, picchiata, umiliata senza pietà.
Mi piaceva perché conservava l’entusiasmo di una ragazzina e la buonafede dei puri, perché possedeva la cultura di chi sa scegliere con la propria testa. Mi piaceva perché non si sentiva onorata a stare con me per il mio nome, ma perché forse le piacevo e basta. Una sensazione rara, almeno per me, costretto a presenziare nei salotti buoni di mezza Italia.

Diversamente da ogni altra volta il bacio arrivò senza calcolo. Fui io stavolta a prendere l’iniziativa, lei si fece morbida tra le mie braccia per mormorare soltanto un supplice “non farmi male”. Volli sapere tutto della sua vita, insistetti per conoscere la sua casa e il suo cane.
M’invitò a cena. Abitava oltre, oltre i Parioli, oltre Corso Francia, oltre la Tomba di Nerone. Un minuscolo appartamento con terrazza in via Gradoli.
Rise, aprendomi la porta di casa, «Non mi fare la solita battuta sul nascondiglio delle Brigate Rosse», mi pregò di non far caso al disordine, correndo poi in cucina da dove proveniva il profumo di brasato.
Mi sentii immediatamente a mio agio.
Aprì un bianco ghiacciato e mi fece accomodare.
Mentre andava e veniva, sbirciai tra i volumi della sua libreria. Tanta letteratura francese, la collezione Einaudi di teatro occupava tre scaffali, e poi saggi di filosofia, religione e ancora teatro.
Lavorava come aiuto regista e segretaria di edizione.
«Preferisco il teatro», mi disse «ma ormai si tratta di fare volontariato più che lavorare. Non paga più nessuno e le platee sono vuote. È frustrante. È triste. Lo faccio per gli amici, quando il progetto è veramente buono». Sospirò pesantemente «Per pagare l’affitto ho la televisione, orribili fiction di cui non rimarrà traccia nella storia».

Avevo notato che, a parte Sciascia, Buzzati e Parise, non c’erano molti italiani tra i suoi scrittori preferiti. Pensai alla stanza da letto, e che magari i suoi volumi preferiti li avesse messi lì. Così domandai del bagno.
«Di là in camera», mi disse affacciandosi dalla cucina.
Notai l’ordine perfetto della solitudine. Il vuoto di chi non ha bisogno conferme dal proprio passato. Soltanto una sua foto da bambina assieme a un uomo che pensai fosse suo padre, e ancora libri, raccolte di poesia in quantità industriale.
Tornai di là dove una candela brillava sul tavolino rotondo accanto alla finestra. Per lo più fu Marinella a parlare. Io avevo la mente occupata ad accarezzare il mio ego ferito.
Nemmeno un volume dei dodici che avevo pubblicato in quegli anni.
M’ignorava. Probabilmente non conosceva neppure il mio nome. E in quella casa non c’era televisione.
Quella sera andai via poco dopo mezzanotte. Perché non ci restasse male le dissi di un viaggio a Milano e un treno alle sette.
Ero ancora in attesa dell’ascensore quando si precipitò verso di me con quello che da subito mi parve un manoscritto corposo.
«Non l’ho fatto mai leggere a nessuno. Ma qui c’è molto di me, forse più di quanto potrei dirti a voce».
La ringraziai per la fiducia e me ne andai con un grosso peso sul cuore e la sua vita in mano.

Passai la notte a leggere quelle parole dense, giuste, sincere. Una storia piccola piccola ma intensa e straziante. Era un romanzo perfetto, sarebbe bastata una minima limatura per farlo diventare un cult letterario.
Non sapevo il perché ma decisi di non farmi più sentire. Ero furente, e basta. Ma preferii pensare a una macchinazione, che lei sapesse tutto di me e avesse giocato d’astuzia. Voleva soltanto un gancio con il mio editore, era chiaro. Una delle tante in cerca di celebrità.
Lei, come d’abitudine, non mi chiamò. Eppure ci pensavo ogni sera, e poi il mattino, quando mi mettevo al lavoro, quando scorrevo a caso quelle righe e la sua esistenza sfortunata: avrei voluto averla io la capacità di guardare le cose in quella maniera, averla io l’indole guerriera.
Così mi decisi. Feci una copia del suo romanzo e glielo rispedii con una breve lettera di congedo. La solita storia delle complicazioni sentimentali che mal si coniugano con una vita troppo piena.
Oggi, dopo quasi vent’anni, davanti al vuoto che mi circonda mi domando cosa è stato di lei. E soprattutto cosa sarebbe stato se io l’avessi aiutata.
A sentirsi Dio, si può anche uccidere.



domenica 14 giugno 2015

Rimozioni

La tempesta si era finalmente acquietata e anche gli amici erano andati via. L’appartamento era immerso nel silenzio nonostante la musica suonasse ancora a tutto volume.
Anna era già di là che faceva le valigie, apriva e chiudeva armadi, sbatteva porte e parlava tra sé di decisioni già prese e ben ponderate, di stanchezza e insoddisfazione, di una fine annunciata e di un inizio auspicato da anni.
Lui era rimasto seduto al tavolo, un ghigno di soddisfazione aggrappato alla mascella larga, si passava tra le mani brandelli di un tovagliolo di carta.
Luca odiava i tovaglioli di carta, tutto qui. Non riusciva proprio a capire cosa le ci volesse a infilare in lavatrice tovaglioli di stoffa. E glielo diceva ogni volta «Annì, però, ‘sti cazzo di tovaglioli!».

Era il suo tono, il tono e basta che le dava sui nervi. Andare di là in camera e ogni volta mettersi a fare quella scena –la valigia, il borbottio e il pianto silenzioso-, le sembrava l’unica risposta possibile.
Non reagiva così perché tutto stava andando a rotoli, di tempo a disposizione ne avevano ancora per raccogliere i cocci di quella relazione e rimetterli assieme, o per realizzarsi, o per cambiare vita. Non si sentiva frustrata perché quell’amore si era disfatto nel giro di due anni, non si accorgevano più uno dell’altro da anni e la gentilezza si era fatta sottile come le pareti di quell’appartamento dormitorio alla periferia di Roma. Ignorarsi a vicenda era un tacito accordo e nessuno dei due dava troppo peso a quello sfacelo.
Era il tono che assumeva Luca che lei non tollerava più, quella frase, che le rimbombava nella testa graffiando il rimasuglio di autostima che aveva gelosamente conservato per gli anni a venire.
Se non sai lavare un paio di tovaglioli cos’altro pensi di poter fare?, sembrava una condanna certa, un marchio a fuoco più che un rimprovero.
E quella sera l’aveva pronunciata di nuovo, tra la frutta e il dolce, pensando forse che quella frase si sarebbe dispersa tra le risate degli amici e le solite battute, “Anna è pigra”, Anna è distratta”, “Anna non bada a certe convenzioni”.

Adesso Anna era di là, immobile davanti alla valigia ricolma di roba infilata lì a casaccio. Meditava, ridicola nella consapevolezza amara di non avere neppure il denaro sufficiente a pagarsi un hotel due stelle, o per un biglietto ferroviario.
In cucina, Luca si era alzato e con metodo da eccellente ingegnere meccanico infilava piatti e pentole nella nuovissima lavastoviglie.
Non se ne sarebbe andata neanche stavolta.

L’indomani avrebbero ricominciato a ignorarsi sopportando ognuno il peso dell’altro con indifferenza, nell’attesa della prossima cena tra amici e del prossimo litigio, unica occasione per guardarsi negli occhi e chiamarsi per nome, per riconoscersi e svegliarsi dall’incanto della quotidiana rimozione di una scelta sbagliata.   

domenica 31 maggio 2015

Lettera a mia sorella

Ti ricordi quando pensavamo che mai avremmo ripercorso i loro stessi passi?, mai seguito le loro orme?, che mai saremmo rimaste con il fiato sospeso in attesa di una risposta e che il mondo, visto da lì, sembrava veramente facile da conquistare?
E un po’ forse ci siamo riuscite, siamo cadute entrambe, abbiamo sbagliato strada qualche volta, io, almeno.
Ti conosco così poco pur avendo seguito così a lungo i tuoi passi, da non sapere chi sei.
Esistere è dato a tutti, saper stare al mondo, invece, è complicato.
Pensi sempre che di tempo ce ne sarà tantissimo. Questa, purtroppo, è una di quelle ovvietà che soltanto il tempo chiarisce del tutto. Come che se l’amore finisce, finisce da ambedue le parti. O che esiste un tipo di amore che invece ci accompagnerà fino alla morte nonostante non lo abbiamo voluto, lo abbiamo tenuto lontano, dandolo per scontato, maltrattandolo un po’.
Anch’io ho provato a imitarti. Hai tantissime qualità che io, invece, non posseggo; la capacità di sorprenderti per tutto, una sorpresa identificabile oggi come allora nel tuo sguardo, in un’espressione che sta al confine tra ammirazione e paura, una sorpresa puerile per il cielo, per le nuvole, per una copiosa nevicata, per un regalo che, se anche non ci avevi mai pensato, diventa d’improvviso necessario.
Sai essere feroce, anche.
Hai un’ottima memoria, io dimentico anche le date degli anniversari più importanti.


Ti ricordi quando giocavamo assieme?
Anche se tante volte fingiamo non sia mai successo mi piacere ripensare ai nostri giochi, quelli scalmanati, quelli di attenzione, quelli creativi. Guardie e ladri, campana, strega comanda colore.
I miei difetti li conosco bene non c’è bisogno che me li ricordi ogni volta con i tuoi sguardi severi, e le omissioni, quei punti sospensivi alla fine di ogni frase.
Li ho studiati per molti anni e sono tanti, i miei limiti, difetti, vizi. Alcuni li ho eliminati, altri me li sono tenuti stretti.
Nessuno mi ha accusato mai di essere presuntuosa, mai guardandomi in faccia, mai dopo avermi conosciuto, al termine di una seria discussione, dopo aver ascoltato le mie storie, così avventurose da sembrare un’intera collezione di romanzi dal finale tragicomico. Cado sempre in piedi. 
Sono ambiziosa.
Mi sono piantata davanti allo specchio che non avevo neppure due anni e da lì non mi sono più mossa.
Ho fatto l’attrice per potermi concedere decine, centinaia di specchi diversi.
Anche questo mi rinfacci, che io abbia abbandonato tutto dopo anni di studi, di successi anche notevoli.

Non mi sono mai integrata nei gruppi, né di studio né di lavoro.
Tu lo sai, preferisco l’isolamento alla dispersiva allegria del gruppo. Preferisco starli a guardare, gli altri, se proprio non posso stare su un palco da sola, cercare di capire come si muovono, magari per imitarli, o infilarli in una storia.
Non è stata la paura a muovere i miei passi fino all’uscita degli artisti, né ho attraversato quella soglia con la superficialità che spesso hai intravisto nelle mie scelte, in certe affermazioni anche gravi, è che volevo andare oltre.
A furia di raccogliere indizi alla ricerca di quel personaggio e di quell’altro (mai quelli che avrei voluto interpretare), me li sono ritrovati tutti dentro, un dentro che ha scelto di esprimersi così, a furia di tentativi, madido di frustrazioni e rabbia.
Ma non posso più tornare indietro.
Ho almeno tre vite da raccontare, di cui pentirmi o sentirmi fiera.
Non mi hai mai domandato cosa farei potendo rimettere indietro il nastro. Forse conosci già la risposta.
Non fossi stata così cieca e non avessi preso tante cantonate, oggi non sarei così vitale, così felice di essere ancora qui nonostante certi sensi unici percorsi fino in fondo, magari in retromarcia, durante un nubifragio.
Poteva andare anche peggio. Per cui va bene. Sono riemersa dai gorghi di Naruto grazie al desiderio di rivedere il sole.
Perché è così bello il corso delle stagioni. Perché dopo tanto tuonare, è di nuovo sereno. Perché mi basta correre ogni mattina sapendo che anche tu sei viva e che il mio lago sarebbe ancora più bello se ci rispecchiasse una accanto all’altra, così diverse.


domenica 24 maggio 2015

Tentativi

Aveva un bel da fare in quegli ultimi giorni, in quegli ultimi mesi, in quegli ultimi anni.
Si guardò nello specchio di sfuggita, s’intravide e andò oltre, verso la cucina, abbracciando un catino pieno zeppo di panni da stendere. Poi si fermò, tentennò, fece un passo deciso e di nuovo si fermò, lasciando il passo sospeso nella pantofola foderata di morbido peluche, troppo leziosa per l’aria dimessa che si portava addosso.
Respirò e si chinò, lasciando poi il catino sul marmo dozzinale, infine si rimise dritta e tornò allo specchio. Guardandosi riflessa lì dentro, si scostò i capelli dal viso e così rimase, un po’ attonita.
Poi prese a guardarsi da ogni prospettiva cercando di cambiare prospettiva e luce. Accese e spense le lampade mettendosi davanti allo specchio in ogni posizione, ma niente.
Le riusciva veramente difficile riconoscersi.
Non capiva dove fosse finita quella di un tempo, la ragazza con velleità di pittrice che aveva perso la testa per un ragazzo che cantava nella rock band della parrocchia.

«Anna?», s’interrogò senza rispondersi.
Che si mettesse lontana, in fondo in fondo al corridoio e controluce, o a un passo dallo specchio a luce spenta l’impressione era sempre la stessa, quella di una sconosciuta terribilmente trasandata e triste entrata chissà come nella sua vita.
E c’era ben poco da fare.
Ben poco da sperare.
La vita di una quarantenne cui i capelli crescano il doppio che alle persone normali può essere frustrante. Non se n’era nemmeno accorta di quella ricrescita abnorme. Né che aveva bisogno di una spuntatina a quelle ciocche dal colore un po’ smorto.

Rise. Poi guardò il catino e i panni da stendere. Si ricordò della pasta frolla in frigorifero e dei bambini da prelevare in chiesa, al catechismo.
Suo marito sarebbe stato fuori per un trasporto a Berlino.
Fosse stato a casa, lui non l’avrebbe comunque notata quella ricrescita. Né il collant smagliato. Né quella tuta grigia e lisa che rattoppava di anno in anno.
Anna pensò che una vita così faceva abbastanza schifo e che non erano mai abbastanza i chilometri che quel poveraccio doveva fare ogni giorno per dare loro la certezza, o una parvenza, di poter continuare a mangiare.
Fanculo la crisi!, pensò, e in un gesto di stizza raccattò il telecomando, spense il televisore sempre acceso sui talk show pomeridiani, e lo gettò sul divano.
Rise ancora, stavolta lasciandosi andare sul pavimento e poi a un pianto dalle lacrime grosse e salate che bevve, come faceva da bambina.
Le piaceva lasciarsi andare alla disperazione per liberarsi dalla cupezza che la sovrastava e per farsi venire le gote rosse, che piacevano, almeno così le aveva detto un giorno lontanissimo tale Giacomo, indiscusso bel ragazzo che lei respinse in favore del marito.
Giacomo, che adesso faceva il giardiniere e che mille volte, incontrandola allo spaccio del paese, si era offerto di rasarle il prato.
Che quell’offerta potesse avere un significato diverso da quello che lei conosceva non la sfiorò mai, nemmeno adesso, mentre quell’idea si faceva ossessione: scappare via da lì anche soltanto per poche ore, pazienza i bambini, pazienza Franco, pazienza quel matrimonio del cazzo!
Fanculo la crisi!
Non vedeva più in là di una sopravvivenza difficile, di malattie incurabili e di una scontentezza patologica.
Non c’era più nemmeno il cinema settimanale.
Fanculo la crisi!, urlò infine in un impeto di rabbia che subito ricacciò dentro.

Corse nella stanza da letto e, con l’entusiasmo di una quindicenne, prese a tirar fuori dall’armadio abiti che infilò in una sacca sportiva.
Doveva far presto.
Doveva risolversi a farlo prima che qualcuno si accorgesse di quella fuga.
Trovò anche un grazioso baschetto rosso che avrebbe coperto quello sfacelo di capigliatura.
Aveva il fiato corto quando si mise al tavolo di cucina a scrivere il biglietto di addio.
Quando la pendola batté i cinque tocchi, la donna si alzò e, come un automa, prese la valigia e si avviò alla porta.
Attese alcuni istanti con la mano sulla maniglia.
Poi tornò indietro, infilò la sacca nell’armadio e tornò in cucina. Appallottolò il foglio che aveva lasciato in mostra al centro del tavolo e lo lanciò nella pattumiera.
I ragazzi l’aspettavano per strada.