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giovedì 29 agosto 2013

Deriva #32 #derivadellaseduzione: Alla fine non sono venuta.

«Alla fine non sono potuta venire, perdonami», mi affrettai a dirgli dopo averlo individuato proprio accanto allo spazio ristoro dei veterani del PD, lì dove avevamo deciso per l’emozionante appuntamento al buio.
«Ma scusa, non sei tu quella con l’abito turchese?».
«Io? Nooo...» risposi cercando di allontanarmi dal frastuono, lo stesso identico che ascoltava anche lui a pochi passi da me. «E poi perché dovrei dirti che non sono potuta venire, scusa» conclusi falsa ma con voce morbida, mentre mi avviavo al palco dove di lì a poco avrebbe parlato Veltroni. Le disgrazie non vengono mai da sole.
Il tizio in questione aveva postato sul proprio profilo la foto in bianco e nero di quando era ragazzo. Passabile, almeno in quella foto lì, niente di che ma sicuramente un ballerino dal fisico asciutto e non un Babbo Natale in versione estiva e con camicia a fiori grandi e rossi.
Così riagganciai, certa che lui avrebbe capito che, se rimani dietro il monitor è un conto, ma se ci si deve incontrare, un minimo di onestà sarebbe d’obbligo.
La bellezza per me non è un "must". Ho avuto amanti deturpati dall’acne e sovrappeso, alti quanto me (cioè bassini) e grandi quanto armadi grandi, e goffi, o magrissimi, completamente pelati o con riporto.
No problem: di loro mi aveva attratto ben altro.
Però, quando si tratta di appuntamenti al buio non transigo.

Se non fossi nata nell’era del web avrei avuto sicuramente una decina di caselle fermo posta in una stazione ferroviaria polverosa e di provincia.
Ricordo ancora il fascino che avevano su di me le rubriche, proibitissime in casa mia, degli annunci personali. Su qualunque giornale o giornaletto immaginavo vite altrui in attesa di contatto. Solitudini alla ricerca di un’anima gemella, voglia di raccontarsi e ascoltare, di trovare al di fuori delle quattro strade di paese qualcuno che li avrebbe portati via.
Di incontri al buio è piena zeppa anche la nostra cinematografia,“Bello, onesto, immigrato in Australia...” per esempio, o il dolente “La visita”, capolavoro di Pietrangeli del 1963.
L’incontro al buio esiste e viene praticato da sempre. Anche i reali, promessi sposi fin da bambini, si vedevano per la prima volta attraverso ritratti che viaggiavano per settimane intere per l’Europa, per diventare infine capolavori messi in bella mostra nei musei di tutto il mondo. Non sarà così per le nostre foto del profilo. Nonostante l’impegno che ci mettiamo, e la creatività, non saranno mai dei Velasquez.
Così noi, ci ritraiamo nel nostro abito più bello per poi rimanere perplessi davanti allo specchio domandandoci se gli/le piaceremo abbastanza.
È così, è sempre la stessa storia per tutti e non se ne esce.

I social, lo tuittiamo ogni giorno, sono il regno delle beltà camuffate. Colpa della tivù e del cervello in pappa, che ci porta a pensare che per accumulare follouer sia necessario essere splendidi. Come in “Essi vivono” del mago Carpenter, dovremmo avere occhiali speciali per vedere il vero volto di ognuno al di là del monitor. Ma non si può, e allora cediamo ogni volta all’ansia della sorpresa.
I soliti “chiosatori” potrebbero opporre che esiste la video chat, che ci sono gli onesti, che spesso e volentieri è andata bene. Ovvio, ovvio, ovvio!, rispondo io.
Ma questa è una #deriva, e a me non interessa mai ciò che va a buon fine, e arrivati alla numero #32 mi meraviglia che ancora non lo abbiate capito.
Quindi, premesso che chi vuole i cuoricini può anche “cambiare canale”, dico anche che l’incontro al buio è una gran figata in termini d’investimento emotivo.
È come andare a una riunione di condominio convinti di aver pagato tutte le rate per essere presi a esempio, e davanti a tutti, come straordinario debitore. È come recarsi all’ufficio delle entrate e scoprire che il nostro commercialista non ha fatto bene il suo lavoro. Come acquistare una multiproprietà alle Canarie e ritrovarsi in una stia per galline con in valigia un pieno di abiti firmati.
L’incontro al buio uno sport ad alto rischio che bisogna saper praticare. Non è per deboli di cuore. È un gioco tattico da amanti del brivido.
L’incontro al buio deve essere meditato.

Per rimanere in ambito cinematografico, “l’incontro” per eccellenza, e che spero ogni volta di sperimentare, rimane per me quello delle gambe di Angie Dickinson (e i cultori di cinema e gambe sanno di cosa parlo) con quelle di un maschio “x”. Maschio perché insegue e scompare, perché caccia (mi perdonino le femministe toste) e sfugge, perché vuole e si distrae. Rappresenta per me l’incontro per eccellenza, perché è fatto di un sentire che non ha niente comune con la razionalità, perché dura il tempo che deve e non di più, perché avvampa e si fa cenere in un attimo. È perciò che ho eletto il Museo “luogo” di eccellenza per un incontro al buio. Non perché io desideri fare la fine della Dickinson, squartata in ascensore e con espressione sorpresa, no, ma perché c’è gente e privacy allo stesso tempo, un modo di muoversi e parlare che non inganna sulle abitudini e l’educazione di chi si ha vicino. Perché sarà più facile sentire l’odore dell’incontro ancor prima che avvenga. Perché non è detto che in un Museo, tra tele, cantinelle, faretti e leggere pareti divisorie, ci si debba incontrare a tutti i costi.
L’incontro al buio va fissato ovunque e in nessun luogo: Museo Borghese intorno alle quattro del pomeriggio (autunno e inverno) alle sei e mezza d’estate, possibilmente con gonna plissettata di seta leggera.
Sala: non pervenuta. Opera: nemmeno.  Segno di riconoscimento: nessuno.
E da quella PIC benedetta, microscopica e il più delle volte taroccata, i due dovranno ricomporre il vero volto del proprio incontro romantico.

L’appuntamento al buio può avvenire anche in una Basilica, San Paolo fuori le mura a Roma, per esempio, enorme e vicina ad un buon ristorante. L’appuntamento in Basilica è da aperitivo. Perché se lui/lei non è come speravo, me la sbrigo in mezz’ora, se mi piace, si passa a una frittura di pesce al biondo Tevere, e se è fichissimo, il dopocena è garantito.
Si spera. È ciò che ognuno di noi vorrebbe, mentre cerca nell’armadio l’abito che sfina, la gonna demodé ma così sexy che fa tanto “La donna che visse due volte”, e pazienza se lui non è un James Stewart che aspetta con ansia la puttana bruna trasformata in angelo biondo, pazienza se di Kim Novak non ho nemmeno la metà del sex appeal. È il mio incontro al buio e fa lo stesso... ma fino a un certo punto.
L’incontro al buio è un investimento, di pochi attimi o una vita poco importa.

Nell’incontro al buio ci sono ore e ore passate on line a digitare messaggi idioti. Inutili tattiche che spesso sono le stesse praticate dall’interlocutore. Silenzi assensi e silenzi offesi.
In quel pugno di minuti che stanno in un sms: “Ci vediamo alle diciotto da Melbookstore” (altro luogo giusto anche se con luce troppo intensa), ci sono batticuori da reparto cardiologico. Prima di quel timido “domani all’Auditorium sarò alla conferenza di Bauman” abbiamo attuato interminabili raid sulla pagina del Signor “x” in questione, analisi complete degli album di Feisbùc, dove lo/la si vede ritratta così com’è e non come finge di essere: alla festa di fine anno tra colleghi, per esempio, o sullo sfondo di una foto di gruppo in discoteca, un po’ mossa e con ottomila tag.
In quel messaggio, l’ultimo prima del necessario incontro, ci saranno sempre una grande quantità di punti sospensivi (come sempre tre, vi raccomando), e la speranza –ammettetelo spesso tradita- che questo/a sia quello giusto/a.
Sentirsi per telefono prima di decidere, è sempre consigliato. La voce è un elemento essenziale per capire se sarò libera quel giorno o avrò un improrogabile impegno, e pazienza se poi parti e torni a Roma tra tre anni.

In un incontro al buio l’onestà è auspicabile sempre.
L’illusione da evitare più che mai: un paio di tette possono anche essere state elaborate con effetto grandangolo.
L’ironia... è da portare in borsetta in ogni occasione. Il buco nell’acqua è più probabile di un bel goal.  E a questo proposito, mi scuso sentitamente con il corpulento tanguero se l’ho lasciato alla Festa del PD con in mano un panino con porchetta e il dubbio, o forse la certezza, che il suo appuntamento al buio fosse proprio a due passi da lui, quella tipetta mora e bassina in abito turchese che fumava una strana sigaretta e si aggirava da sola tra gli stand.






giovedì 22 agosto 2013

Deriva #31 #deriva della seduzione: Libertina in panne.

Se qualcuno potesse fotografarmi in questo momento, vedrebbe un’espressione sorpresa. Occhi grandi spalancati nel buio. Dalla bocca, lasciata appena dischiusa, si potrebbe proprio dedurre che sono basita.
Parlo di seduzione, o meglio di NON seduzione.
Non apro la parentesi sulla faccenda che chi scrive lo fa per sedurre e bla bla bla... sono discorsi che ormai abbiamo letto su quasi tutti i manuali di scrittura, ascoltato in tutte le salse e rituittato in continuazione.
Io però, non ce la faccio a stare fuori dal mucchio e sparare “sentenze”, non posso che dissentire da chi accusa “gli altri” di essere autoreferenziali, quando già stare su un social network significa andare a caccia di attenzioni dando il meglio di sé.
Ecco il punto: mostrarsi per dare il meglio di sé.
Si può dire che la seduzione sia alla base delle azioni di molti. Delle mie sicuramente, e mi perdonino i detrattori se sul mio blog parto da me stessa cercando di ridare la parola a voi attraverso i commenti, non si chiama necessariamente autoreferenzialità, a volte può essere anche condivisione. Dipende da quanto è grande il nostro naso e se ci consente o meno di guardare più in là.
Comunque, grazie a dio, non siamo tutti così votati alla seduzione e all’ascetismo cronico tipico del narcisista, molti amano starsene in un angolo ad ascoltare gli altri senza emettere giudizi, anche perché, se fossimo tutti così maledettamente egocentrici, ci ridurremmo a misere solitudini nevrasteniche in attesa di attenzioni che non arriveranno mai.
Siamo qui che scegliamo le foto da postare, i più distratti ci propinano anche quelle sfuocate, e le frasi, ciniche secondo i gusti, da digitare senza virgolette come fossero nostra proprietà intellettuale, alla ricerca di qualcuno da sedurre, di qualcuno cui piacere.


Scrivendo Justine 2.0 ho lavorato molto con gli autoscatti (quello postato qui in alto è uno dei tanti).
Ho lavorato in teatro per anni, l’abitudine a cercare espressioni nello specchio non mi è passata. Inoltre, ero a qualche anno da qui, #FB non era un fenomeno di massa e #Twitter non era ancora nato. L’autoscatto aveva quel che di novità e un fascino segreto, a parte qualche "star" un po' trasgressiva, a fare autoscatti  eravamo forse in dieci.
Ogni volta che postavo primi piani del mio viso, arrivavano richieste private di scatti proibiti, più hot e più hard: dai che ce le hai, in fondo che ti costa... una soltanto... . La fantasia si scatenava e il “contatto” maschio voleva guardare più giù e oltre ciò che l’obiettivo gli restituiva.
Nonostante sia una fervente sostenitrice della pornografia, però, ho sempre ritenuto che mostrarla nuda e cruda sia un po’ come arrivare al dolce saltando l’intera cena.
Per me la seduzione parte dalla testa, e su questo, visto che lo tuittate di continuo, sarete d’accordo un po’ tutti.
La seduzione è una questione di tempi, modi e soprattutto luoghi. È la freccia, il famoso dardo lanciato dagli sguardi, il fluido magico è l’odore che l’altro emette, la voce che suona come il canto delle sirene di Ulisse... altrimenti, è soltanto fuffa.
La seduzione on line è attesa, sì, scoperta, sì, batticuore, ma sempre di ciò che l’altro ci vuole mostrare: silenzi compresi.
Ma nonostante lo sappiamo, la seduzione on line è diventata un must, e Justine 2.0 parla anche di questo, e di quanto in definitiva sia una perdita di tempo e soprattutto di “peso”, inviare a uno sconosciuto parti parziali di se stessi, le migliori. Di quanto poi sia rischioso farlo non ne parliamo nemmeno. Di quanto la cosa, quella, la seduzione, perda in termini di tenuta lo saprete anche da voi, e mi rivolgo a chi da dietro un profilo (da moralista o da puttana è lo stesso), invia foto osé ben rimaneggiate a chiunque sia un po’ più pepato o più interessante di altri.
Quanto tempo durano le storie on line? Quante volte si rimane deluse incontrandoli/le, fuori dai social network. Quanto e chi (soprattutto), crediamo di poter sedurre inviando un primo piano nudo e crudo dei nostri organi genitali.
La mia espressione basita si riferisce esattamente a un primo piano che una donna, una ragazza anche bella (e generosa direi, e dolcissima), mi ha inviato alcuni giorni fa pensando di farmi cosa gradita, e dopo aver digitato con me di ben altri argomenti. Di tutto fuorché di sesso.

Ricevere una foto così “intima”, senza averne fatto esplicita richiesta (questo è importante), mi ha fatto balenare nella testa un mucchio di cattivi pensieri.
Mi sono domandata che se io, donna, ho ricevuto in poche settimane ben cinque autoscatti di questo tipo da sconosciute, e non da professioniste del sesso, mi chiedo –e inorridisco a immaginare la risposta- quanti ne ricevono i maschi alfa, rampanti, cinquantenni, ricchi, scrittori, giornalisti, editor, musicisti, bestselleristi, registi, attori, trasformisti, politici, senatori, manager, direttori... presenti sui social media e disponibili al dialogo.
La fica come biglietto da visita dell’era 2.0
Una massa di fiche rasate e disponibili in attesa di ammirazione e plauso.
Vi  infastidisce che abbia scritto fica e non patata o altro? Ecco, è un po’ la stessa cosa che ho provato io aprendo la posta. È successo perché sono una donna? Non credo, fosse stato un bel cazzo duro avrei avuto la stessa reazione. Credo piuttosto che la seduzione non passi da lì, ecco, non solo, non sempre e non comunque.
Posso passare un’intera serata a sedurre qualcuno standogli a due metri di distanza, e senza che vi debba essere alcun seguito. Possiamo sedurre raccontando una storia o commentando un film, possiamo sedurre semplicemente essendo ciò che siamo e non chi fingiamo di essere: femmine mangia maschi pronte a tutto.
La seduzione è una cosa ben diversa dalla ricerca di attenzione. E passa soprattutto dallo sguardo, che se si riempie di dolcezza al pensiero di averlo addosso, il nostro interlocutore, diventa più hot che mille primi piani della nostra preziosa fichetta che poi, non dimentichiamolo mai, è molto più simile di quanto crediamo a quella di tutte le altre, anche se decidiamo di ornarla di piercing e brillantini.

Se, come tuittiamo così spesso, siamo così convinte che la testa seduca più di ogni altra cosa, allora usiamola. Possiamo.

(P.S. e comunque, a me il pube mi piace solo se foltissimo e riccio).


venerdì 16 agosto 2013

Tra moglie e marito non mettere il dito...

Una pallosa elucubrazione non consigliabile a maschietti gratuitamente polemici!

Il vecchio adagio “tra moglie e marito...” che serviva alle famiglie come scusa per voltarsi dall’altra parte di fronte alla violenza domestica di un congiunto, significa anche che le dinamiche interne di una coppia non sono mai comprensibili dall’esterno.
Sta di fatto che questa campagna di sensibilizzazione contro la violenza sulle donne (http://www.jacopofo.com/?q=node/3170) o per lo meno il Post in questione, uscito nel 2007 e oggi riproposto su molte pagine di #FB (qui di fianco), è a mio avviso fraintendibile, se non del tutto sbagliato. L’immagine è servita per raccogliere storie di violenza domestica, e va da sé che è stata concepita in perfetta buona fede, ma ciò non toglie che cambia di molto, e in peggio, il punto di vista sulla violenza domestica.
“Smettila di farti picchiare da tuo marito!” ha per me solo un senso: siamo cornute e mazziate.
Il mio Zanichelli alla voce “smettere” recita così: interrompere momentaneamente o definitivamente ciò che si stava facendo. Se le parole hanno un senso, questa ce l’ha pesantissimo, soprattutto in una società maschilista come la nostra.

Non tutti gli uomini sono violenti, ci mancherebbe altro, e già doverlo puntualizzare ogni volta e a ogni benedetto “tweet” mi da la misura del corporativismo maschile e di quanto poco, il genere in questione ci aiuterà a risolvere questo problema. Affermare poi, come mi è successo di leggere stamattina sulla TL, e sempre in merito al post, che esistono donne che vanno alla ricerca di uomini violenti, non solo non giustifica né risolve questa carneficina casalinga, ma fa della donna la solita “provocatrice” responsabile di tutti i mali del mondo. Come se poi, ed è veramente allucinante, il maschio provocato mancasse del lume della ragione tanto da non poter fare a meno di rispondere a una presunta richiesta di botte, che andrebbe, al limite, compresa e curata da un buon analista.
Continuare a ripetere che le donne non denunciano, significa addossare loro la colpa della violenza subita che, spesso e volentieri, si accompagna di buon grado a quella psicologica (tu non vali un cazzo!) e dal ricatto sul possibile affidamento futuro dei figli (come pensi di farli vivere!).
Smettila di farti picchiare!, significa: hai iniziato TU, adesso smettila! È un po’ come l’annosa faccenda della minigonna, che se te la sei messa meriti di farti violentare. Un punto di vista schifosamente maschilista, e basta. Chi compie l’azione del picchiare è l’uomo, e spero che almeno su questo non ci siano dubbi (spero), è lui “attivo” ed è lui che deve smetterla, la donna, al limite, può NON consentirgli di farlo, il che, dal punto di vista del significato cambia parecchio.


Conosco così bene il problema (non è un vanto), da potermi permettere di esprimere un’opinione in merito, come ho fatto in Justine 2.0, dove racconto il meccanismo grazie al quale si può uscire dal gorgo della disistima di sé. Ma le dinamiche della violenza domestica non hanno niente a che vedere con il sadomasochismo che, come ho più volte sottolineato in altri post, è SSC, ossia sicuro, sano e consensuale. La violenza domestica non passa per la razionalità e non ha nulla a che spartire con il piacere sessuale che deriva da una relazione s/m. Certo, il giorno dopo le botte, il maschio pentito potrà anche tornare a casa con un regalo prezioso o un mazzo di fiori, per domandare scusa e dichiarare che non lo farà mai più il carnefice potrebbe anche cadere in ginocchio (se tutto va bene), ma la dinamica non è mai consensuale o se lo è, non ha nessuna “safe word” che metta un freno al dolore. La violenza domestica crea sensi di colpa da ambedue le parti e, se la donna prova per il marito picchiatore pena e compassione, non conoscerà mai il piacere della dominazione che richiede la piena capacità di dominio su se stessi.

Le donne non denunciano per mille motivi che comunque, vista l’urgenza del problema, non possiamo analizzare. Inoltre, le vittime non hanno sempre gli strumenti culturali per capire che ciò che subiscono è sbagliato, né famiglie comprensive cui ricorrere per avere protezione.
E poi, parliamoci chiaro, cosa pensiamo accada dopo una denuncia?
Un bel niente.
I meccanismi legislativi prevedono l’assistenza psicologica, forse, magari l’allontanamento forzato dal tetto coniugale del partner violento, ma per arrivarci non voglio nemmeno immaginare il calvario attraverso cui alcune devono passare. E se la donna non ha reddito? Chi le garantirà assistenza, un tetto sulla testa e un posto di lavoro per potersi sostenere? Un governo zoppo che non sa nemmeno come pagare i propri debiti?
Ho la sensazione che continuando a parlarne in questi termini non si andrà da nessuna parte. Senza avere alternative possibili alla gabbia coniugale nessuna donna si permetterà di denunciare, visto il rischio di buscarle il doppio. Inoltre, mettendo sulla vittima anche il macigno del senso di colpa che la propria mancata reazione alla violenza avrà sui figli, non faremo che fornire nuovi alibi ai violenti. È per ciò che un Post come questo è così ambiguo, da non essere ammissibile.
Smettiamola di rendere la donna sempre e comunque attiva e sempre e comunque colpevole.
Non devo smettere io di farmi picchiare, è lui che non deve farlo! E se sei un uomo, e sai che il tuo amico picchia sua moglie, evita di giustificarlo e corri a denunciarlo!



giovedì 15 agosto 2013

Nessuno e gli altri (#AnalogicoVsDigitale)

Talvolta siamo così obnubilati dalla “Big Picture”, che nella presente modernità pare essere l’unica cosa che conta, da perdere i particolari, le virgole e le precisazioni.
Ma va bene lo stesso, c’è anche chi cerca di andare al di là del titolo e della lettura trasversale di un articolo, altra pessima abitudine degli umani moderni, tanto da godersi l’ironia di chi sa ridere della propria incapacità di seguire un sentiero di montagna di bassa difficoltà, così easy che anche mia cognata non sarebbe stata in grado di non perdersi. Ma alla fine leggiamo ciò che ci aspettiamo di leggere, è nella natura umana, le parole si trasformano una volta toccate dallo sguardo assumendo l’aspetto che noi vogliamo.
Non mi pare un dramma.
La lettura di questo Blog non è obbligatoria, non faccio giornalismo, esprimo opinioni sulla base della mia esperienza e di cui chiunque può fare a meno. Non sono come certi intellettuali che pensano di avere la verità in tasca e la usano come merce di scambio. L’esperienza di una che non conta, in fatto di ascolti e share, ha pochissima importanza e va messa comunque in discussione, contrastata sulla base del nulla, o peggio di un dogma: io non ho visto per cui non credo.
Peccato! Credendo sul serio agli asini che volano si possono addirittura vederli. Così come pensando di poter toccare il cielo con un dito si può essere veramente felici. Ma se lo dico io, non conta.
Come sì può credere a una che ha amato un clown rumeno senza nome e senza circo, che ha trascorso ore della propria infanzia e adolescenza sul muro di cinta di un vecchio manicomio a conversare amabilmente con i matti e che, ancora oggi, si accontenta di avere una larga stanza per ballare per sentirsi al centro del mondo e dell’universo. Come si può credere a chi non ha un nome che conta veramente, che non sta in tivù, che non fa numero.

Siamo così abituati a guardarci attraverso un monitor da affidare la nostra opinione al numero di pixel che di ognuno possiamo vedere, alle pagine di Google che contiamo digitando un nome. La considerazione che abbiamo degli altri si misura solo con il metro comune della popolarità e del censo, abbiamo un redditometro al posto del cuore non più un muscolo pulsante che riesce a intuire attraverso il calore di una mano.
Eppure le parole più sagge le ho ascoltate da Signori e Signore nessuno, da attori di compagnie di giro scalcagnate costretti a dormire in auto dopo una fulgida carriera tra altri Signori nessuno: perché oggi se fai teatro vali meno di un cazzo. Perché anche i Maestri si valutano in base allo share.
Eppure le parole più incisive sono state quelle di Pablo, che negli anni ottanta soggiornava a piazza Farnese, e di Mary, una puttana bolognese che dopo essersi bruciata il cervello con gli acidi era arrivata a Roma e qui si era persa, persa come i nostri abbracci, che non capisco proprio dove siano finiti o dove si sono dispersi, ridotti a freddi "ola" a distanza di sicurezza.
Dove sono finiti i nostri abbracci? Forse tra un :D e un :* rapido e fin troppo usuale, stretti tra emoticon e punti sospensivi, tra un “LOL” e uno “Yeah” sensuale e un po’ pornografico. Ma ci mancano lo sguardo, lo stringente tu per tu, l’alito, l’espressione assente o quella sincera, le braccia, incrociate o aperte, le postura: formale e rigida, molle e confidenziale.
Ci manca il sorriso “live” che dice sempre la verità.
Lo dico perché lo so e perché l’ho visto: questo dovrebbe bastare.
Invece no, e resto in attesa di chiose.

Per me è arrivata l’ora di guardare in faccia e a lungo le persone cui regalo il mio tempo.
Credere a uno sguardo sincero e all’esperienza di un Signor Nessuno è come presumere di poter volare solo perché abbiamo stretto nel pugno il filo teso di un aquilone, è vero, avete perfettamente ragione. È sicuramente più conveniente e sicuro percorrere vie battute piuttosto che sentieri montani dalle indicazioni ambigue, certamente è più importante il nostro dogma che l’esperienza dell’altro, di un Signor Nessuno. Si mette in dubbio e si replica, non ci si domanda nemmeno per un attimo se, quel punto di vista, può essere accolto e anche compreso.
Io so volare. E poco importa se nessuno mi crede.

lunedì 12 agosto 2013

Refusi d'immagine

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Dei film, soprattutto quelli in bianco e nero, ho sempre prestato maggiore attenzione alle comparse più che ai protagonisti, ai personaggi di sfondo, ai passanti e a coloro che casualmente finivano nella pellicola: un errore visibile ma lasciato comunque lì per evitare un altro ciak. Di loro mi domandavo e mi succede ancora, che fine abbiano fatto, quale sia stato il loro destino, se abbiano poi finito per lavorare nel cinema o da quanti anni sono sepolti sotto terra. Di loro nessuno sa niente. Delle odalische dal pancino prominente e le cosce tornite dei film anni cinquanta nessuno sa se si siano sposate oppure no, se abbiano avuto figli e una vita serena, se magari hanno scelto di studiare per diventare avvocatesse o se la loro strada sia stata più breve, per esempio da Cinecittà al bordo della Salaria. Di ciò che le pellicole registrano amo scovare particolari invisibili, la punta del microfono sulla giraffa, la mano del tecnico del suono, il braccio in tensione del segretario di produzione, il ciak che esce di scena sfuggito allo sguardo attento del montatore. Mi piace cercare nelle foto di famiglia l’amico dell’amico arrivato per il caffè al termine del pranzo natalizio, il tizio di cui nessuno sa il nome e che sta leggermente discosto dai parenti ammassati uno sull’altro per la foto di gruppo. Sono ritagli di esistenze, refusi d’immagine, tentativi di successo andati a vuoto, passanti frettolosi al centro della Piazza o che attraversano una via, automobili in corsa sullo sfondo che contengono esistenze sconosciute, umanità complesse di cui non conosco la storia e che posso definire a mio piacere, dando loro un nome e un destino.
La stessa cosa succederà a me e a ognuno di noi, credo, circondati come siamo da occhi invisibili, che incorporati in telefoni cellulari microscopici catturano immagini ogni istante e con grande facilità, senza nemmeno dover alzare vistosamente il braccio o infilare lo sguardo nell’obiettivo. Sguardi indiscreti rubano istanti di chi non sa di essere stato inserito nell’inquadratura. Migliaia di microscopici obiettivi che, come prolungamenti di ognuno, nelle mani di adulti e bambini, al lago, al mare, sui sentieri di montagna o nei boschi, rubano momenti che vorremmo restassero soltanto nostri, attimi privati e intimi depredati da sguardi sconosciuti che dovrebbero appartenere soltanto a noi e che mai e poi mai vorremmo veder finire nell’album di famiglia di chissà chi. 
Siamo sempre a rischio di finire nel video o nella foto di qualcuno, e non più sul belvedere mentre siamo in posa per il nostro scatto e un po’ sfuocati, ma per strada, in autobus, in aereo, mentre magari fuggiamo dalla nostra stessa esistenza, mentre rincorriamo un sogno o cerchiamo un po’ di benedetta solitudine. Un giorno, forse tra duecento anni, qualcuno si domanderà chi fosse quella donna riccia che rideva a crepapelle mentre cercava di arrampicarsi sulla roccia, si domanderà che fine abbia fatto, se sia riuscita a sopravvivere all’uomo che le stava accanto e cercava di aiutarla ridendo a sua volta. Anch’io diventerò un fantasma, un refuso d’immagine, un errore, e nonostante me. 

domenica 4 agosto 2013

Deriva di Twitter #30 IL TASTO ANTI ODIO

“Il pulsante per la segnalazione di abusi sarà esteso a tutte le versioni di #Twitter”. La notizia, che circolava da alcuni giorni, ora è ufficiale. Già esistente su alcune piattaforme in USA il “tasto” per la denuncia di abusi verbali, sarà esteso a tutte le versioni del più famoso social del mondo.

La prima a sollevare il caso, improvvisamente risvegliatasi all'odio sociale che impera da anni, è stata Laura Boldrini, presidente della camera, poi gli insulti al ministro Kyenge, due settimane fa la storia della signora di Cataldo e la sua denuncia per percosse che ha messo a rischio anni e anni di lavoro dei centri anti violenza e di battaglie, tanto che, soltanto ieri, un’altra donna ha denunciato il suo compagno e sempre tramite Feisbuc. Per non parlare del caro amico che flirta on line dal tempo 1.0 e le cui foto dell’amante vengono inviate alla moglie e con tanto di mail sconce.
A fare da portabandiera a questa follia del “tasto antiodio” o “anti idiota”, è l’attivista Carolina Criado- Perez, cui va la mia stima per quanto fatto fin qui attraverso giuste provocazioni femministe ma che si guadagna il mio totale disappunto per aver promosso questa campagna che, a mio avviso, lede la libertà di chiunque. Eh sì, perché se ci levano anche la possibilità di odiare non so proprio dove andremo a finire.
Si rischia di fare un grande torto (ulteriore) a un popolo le cui istanze non solo vengono disattese ma nemmeno ascoltate, se lo si limita anche la possibilità di urlare –con parole proprie- ciò che pensa.

Un’azione del genere viola qualunque principio di libertà già  abbondantemente violato da tutta la rete e da browser spia come Google. Credo che, per quanti strumenti i nostri Governi hanno già per entrare nel merito delle nostre scelte, e perfino delle nostre storie extraconiugali, non ci sia nessun bisogno del tasto “anti odio”. Siamo già controllati h24 da tutti i Ministeri dell’Interno di ogni nazione. I nostri social sanno cosa venderci e quando, non credo quindi sia così complicato, a seguito di una denuncia per minacce, risalire a chi le ha digitate, per quanto "Fake, Anonimus o Troll". Immagino che chiunque usi la rete per fare attivismo, e di qualunque tipo, debba aspettarsi una reazione anche di protesta: a essere bombaroli senza rischiare il culo sono bravi tutti. Perciò, se non si sanno reggere gli oppositori e se non si sa rispondere in maniera adeguata alle offese, agli insulti e alle minacce, allora credo sia il caso di lasciar perdere la rete e tornare a occuparsi di qualcosa che non implichi nessun pericolo.

È come se io, attualmente disoccupata,  imprenditrice fallita, laureata e con un buon curriculum, potessi sentirmi offesa e gravemente depressa, o spinta al suicidio, per gli abiti che veste la presidente della Camera o un ministro qualunque del parlamento italiano.
Perché no?
Chi può giudicare o misurare l’entità dell’offesa inferta o la gravità della minaccia subita?
Esiste forse un “MINACCIOMETRO”?
Perché non applicare le leggi già esistenti nel mondo analogico, anziché creare questo spauracchio per imbecilli?
È come se (sempre io) dopo aver scritto un romanzo sul sadomasochismo, mi offendessi e mi sentissi minacciata alle mail di uomini e donne che, confondendo protagonista con creatrice della storia, mi domandano di uscire con loro, o di conoscere qualcosa in più su questa pratica, o peggio, di avere rapporti sessuali con me a pagamento. È un rischio che sapevo avrei corso, l’avevo calcolato, e non mi metto certamente in testa di denunciarli. Rispondo garbatamente e faccio capire loro che le cose stanno altrimenti. Se non capiranno farò intervenire mio marito, poi il mio amante, poi li denuncerò alla polizia postale, farò qualcosa che sicuramente porrà un freno alle minacce.

Tutta questa frenesia e indignazione mi pare eccessiva, soprattutto quando migliaia di senza lavoro e senza tetto, ultra quarantenni incazzati neri, che mai rientreranno in un provvedimento o in un disegno di legge che salvi loro la vita, non vengono nemmeno considerati come un problema.
Mi sembra un passo verso la limitazione della libertà di chiunque. Un provvedimento cautelativo che potrebbe trasformarsi in una caccia alle streghe e generare altro odio.
Perché che cosa sarà considerato illecito e cosa no? 
Se userò il termine “puttana” sarò denunciata da tutte le sex worker del mondo?
Se scriverò del piccolo "arnese" di “tizio” e “caio” in un racconto satirico postato su #Twitter sarò ingabbiata per offese contro gli ipodotati?
Se risponderò all’idiozia appena digitata da un giornalista o da un parlamentare, che cosa devo aspettarmi? La frusta?
E se anche l'umorismo venisse scambiato per insulto?
Chi mi legge da tempo sa che detesto la maleducazione e la combatto e che, allevata da una nonna severa ed educata alla maniera antica, potrei anche essere tentata di lasciare qualcuno con le ginocchia sui ceci per una notte intera e soltanto perché ha trascinato la sedia anziché sollevarla dal pavimento. Ma è un mio punto di vista, una mia personale idea della buona educazione. 


È vero, la mancanza di civiltà stanno esacerbando la pazienza di molti, twitstar o common che siano. Credo comunque che il tasto “BLOCCA” già presente su Twitter e FB,  sia più che sufficiente a evitare minacce. Inoltre, faremmo meglio, attivisti compresi, ad occuparci di chi muore per strada, di chi chiede l’elemosina e dorme sul pavimento attorno alle stazioni dei treni, piuttosto che stare tutto il giorno a fare battaglie dietro un monitor. Le provocazioni restano provocazioni, soltanto i fatti, e nemmeno sempre, cambiano il mondo e tutto questo velo politically correct rischia soltanto di coprire ben più gravi disparità tra gente comune e piccole o grandi star.