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venerdì 11 maggio 2012

Diario di Lola, diciassettesimo giorno, abitudini



No, non mi abituerò mai a questo tempo immobile.
Tu ripeti il mio nome e non lasci che la memoria di questa esistenza, breve e inutile, sbiadisca. Impazzirò.
Ieri, Lalama mi ha accompagnata a casa in perfetto orario.
Alle quattro ero al portone.
Durante il tragitto, all’andata così pieno di tensione erotica, non sono riuscita nemmeno a guardarlo con la coda dell’occhio. Avevo paura che mi rivelasse il suo volto più vero: una maschera di sangue o carne putrescente.
Di tanto in tanto accennava, con tono pacato e gentile, il solito, al fatto che devo dare ascolto a lui e ritrovare la fiducia perduta perché nessun altro mi aiuterà  a venir fuori da questa assurda storia.
Ho annuito un paio di volte ma solo perché la smettesse di parlare e di trattare “la faccenda”, come la chiama lui, come fosse l’acquisto di un’auto usata.
Ha parcheggiato con calma e ha fatto rapidamente il giro della vecchia BMW per aprirmi lo sportello. Non gli ho dato la mano e ho lasciato che il suo affettuoso –ci vediamo- scivolasse tra auto e marciapiede.
Nemmeno ci ho provato a salutare il portinaio che si dava da fare a lucidare vetri e ottoni e sono salita su per le scale.
Ero al quarto piano quando ho sentito un pianto di donna. Accucciata su un gradino, una brunetta si teneva il viso tra le mani. Si lamentava come se quella fosse una consuetudine, come un’attrice che recita la parte senza espressioni né pathos, come al termine di un’estenuante tournèe davanti a un pubblico poco partecipe.
Sentendomi arrivare si è fatta da parte per lasciarmi passare, io, invece, mi sono fermata per chinarmi su di lei.
Lasciando il viso tra le mani piccole mi ha sgarbatamente urlato di andare via.
Non so se mi abituerò mai a tutto questo.
Sono così numerosi, troppi, i disperati che si aggirano smaniosi per le strade dei vivi in cerca di un’uscita.
Quando mi sono accucciata accanto a lei, il sangue ha cominciato a scorrerle sulle braccia sottili e tra i braccialetti di plastica colorata.
Le ho tolto le mani dal viso e due grandi occhi azzurro mare mi hanno guardata interrogativi.
Chi sei?, mi ha domandato, Non ti ho mai vista qui, e alzandosi si è ricomposta muovendo la gonna rosa confetto, da cui fuoriusciva un lembo inamidato della sottogonna bianco latte. Ai nostri piedi, il sangue aveva già formato una pozza amaranto.
Pare che tutti sappiano cosa mi sta succedendo visto che anche lei mi ha detto di fare attenzione, e me l’ha ripetuto un paio di volte, calcando le parole, con un’espressione seria, come se fossi una bambina che stenta a capire.
Poi ha avvicinato la mano insanguinata al mio viso per sistemarmi una ciocca ribelle dietro l’orecchio. Non ho fatto a tempo a domandarle altro perché subito si è voltata ed è scomparsa su per le scale.
Le ho urlato di tornare da me e poi ho lasciato che almeno la mia supplica la raggiungesse, prima di sedermi lì su un gradino in attesa del nulla.


La porta di casa era aperta.
Sul tappetino, il sacco della spazzatura e l’ombrello rosso aspettavano Milena che si affrettava a passare la cera sul parquet.
Sono rimasta lì a guardarla per un po’, mollemente appoggiata allo stipite come dopo una lunga giornata di lavoro, finché si è voltata ed è venuta verso di me annusando l’aria, ha chiuso la porta ed è rimasta imbambolata a cercare il perché di quella sensazione.
Si sentiva osservata.
Quasi in ipnosi è andata in salone e ha preso il vaso dei lilium. In cucina ha tagliato con cura i gambi, ha cambiato l’acqua e ha lasciato che un quarto di aspirina si sciogliesse nel vaso, il mio preferito, quello scelto da Olimpia per i Potus. Ha sistemato i lunghi steli con cura, esattamente come le avevo fatto vedere decine di volte domandandomi se avrebbe mai imparato.
Li ha riposti sul trespolo di bambù e osso vicino alla finestra, accanto alla mia foto, quella da cui sorrido al mondo.
Prima di vestirsi e scappare via, ha dato a un’occhiata frettolosa al salone e ha sistemato i cuscini del divano.
Generalmente restavamo a parlare sedute in cucina davanti a una tazza di caffè. Mi raccontava del marito senza lavoro e che faceva il cretino con tutte quelle che incontrava, e arrossiva ogni volta, allora cambiavo discorso, e ci soffermavamo sulle solite cose, quelle che affliggevano entrambe allo stesso modo, le noiose incombenze quotidiane e le rinunce, i gesti abituali, quelli che adesso, visti da questo pomeriggio in bianco e nero, mi sembrano irrinunciabili. Come le persone, e tutte le parole che avrei ancora da dire ma che non potrò mai far arrivare nemmeno sin lì, a un passo da me.
Tutto rimarrà così come l’ho lasciato: l’orlo che dovevo ricucire, la gonna nera che aspetta ancora sulla sedia ottocento, ripiegata con cura nella busta, l’orologio di Max che ho portato a riparare, l’abbonamento a teatro che avrei dovuto confermare una settimana prima di perdermi. E così sarà anche per gli appuntamenti che non ho rimandato e per le persone che inutilmente hanno atteso una chiamata e un perché.
Non potrò più rientrare in casa e lasciare le chiavi lì, sul comò, né aggiustarmi la frangia su un lato guardandomi allo specchio mentre mi sfilo il cappotto, lanciare da qualche parte scarpe e vestiti per infilarmi sotto la doccia, ungermi di crema, infilarmi calzettoni e tuta e accendere la radio per sdraiarmi sul divano con un libro. Noiose incombenze come fare la spesa, preparare per cena, o travasare l’olio, mi sembrano adesso vitali e irrinunciabili.
L’orologio ha suonato sei rintocchi.
Max chiama sempre alle sei per sentirmi e dirmi quando rientrerà. Nessuna sorpresa. È un abitudinario. Mi chiama per il saluto al volo prima dell’aperitivo con i colleghi, l’happy hour di cui sono sempre stata gelosa. Chiama per sapere se mi serve qualcosa, se ho voglia di stare in casa a guardare la tivvù o uscire. Chiama, anche se conosce già la risposta, lo fa per avere conferma che nulla è cambiato nell’ordine abituale delle cose.
Quello squillo che tante volte mi sembrava seccante, ora mi pare la cosa più preziosa al mondo. Quello squillo, e la sua voce, e lo scontato –ciao amore- ora potrei sentirlo di continuo senza stancarmi mai.
In bagno ho fatto qualche inutile tentativo di accendere la luce ma il muro sembrava molle come un budino appena sfornato.
Volevo passare in rassegna le mie cose, le creme che avevo comprato prima di svegliarmi a quel maledetto incrocio dai semafori spenti, in questo limbo infernale senza tempo. Volevo sentire le fragranze dei profumi, quello di Max, del suo sapone.

Passando davanti alla finestra ho visto la donna scomparsa che appena ha incontrato il mio sguardo si è animata, come la ragazza sulle scale e l’uomo all’autogrill.
Mi ha fatto cenno di aspettare ed è sparita per alcuni secondi. Quando è tornata, sul viso pallido aveva un’espressione allarmata e ha cominciato a dire lentamente qualcosa.
Sulle labbra sottili e livide ho letto un altro –stai attenta Lola-.
Conosce il mio nome.
Le ho subito domandato a cosa devo stare attenta e a chi, e come mai conosceva il mio nome. Quel gesticolare mi ha fatto sentire un po’ ridicola.
Lei ha abbassato la testa. Forse, come Lalama non poteva dirmi di più. Invece, ha sollevato lo sguardo con un’espressione rassegnata, e dopo essersi guardata attorno, ha confermato ciò che già temevo.
Devo stare alla larga da Vince, ha detto che le cose per me sono complicate, e che forse, è il caso che io vada da lei al più presto, al secondo piano del palazzo di fronte.
Chissà perché, come facevo con le amiche quando stavamo al telefono, appena ho sentito Max armeggiare alla porta, le ho fatto cenno che ci saremmo riviste ma che dovevo andare.
Chissà perché sono andata incontro a mio marito e istintivamente ho provato a baciarlo.
È rimasto fermo per qualche istante e poi, come se si fosse ricordato all’improvviso di qualcosa, si è voltato verso la porta e poi di nuovo nella mia direzione. Ma no, non era niente, una nuvola passeggera, una lieve carezza sul cuore.
Ha scrollato il soprabito bagnato di pioggia leggera e lo ha lanciato sulla piccola poltrona accanto al tavolino. Un’abitudine che mi faceva imbestialire.
In camera e si è spogliato con l’aria di chi sia sopravvissuto a un’estenuante giornata.
L’ho seguito in bagno e sono rimasta a guardarlo farsi la doccia. E stavo dietro di lui mentre davanti allo specchio percorreva le linee forti del viso per trovarsi stanco, e invecchiato.
È il dolore, amore mio. Ma io sono qui e non ti lascio Max, gli ho detto con un filo di voce, per paura che potesse sentirmi e morire di terrore.
Forse però lui mi sente comunque, perché ha aperto il mio profumo e dell’anta della specchiera ha preso uno a uno i vasetti di crema per aprirli con delicatezza avvicinandoli al naso sottile.
Quando ha spento la luce, è rimasto immobile nel buio per un po’ e poi ha appoggiato le mani al lavello e ha lasciato che il pianto lo scuotesse a lungo percuotendo la sua schiena, le spalle forti da nuotatore e tutto il suo metro e ottanta di carne. Allora mi sono adagiata su di lui, aderendo alla sua anima fragile. Assieme, abbiamo sentito le gambe che ci sostenevano a fatica, lui e la sua disperazione, io e la mia.
Ha pianto finché il telefono non ha squillato e lo ha lasciato squillare.
Poi è andato in cucina. Era già tutto pronto e ha dovuto soltanto mettere su un piatto dell’arrosto di tacchino e insalata poco condita, poi è andato di là, alla scrivania. Ci ha piantato sopra le braccia per restare ad ascoltare il silenzio e  quando gli è parso lo stesso di sempre, ha acceso il computer. Credo che aspetterà che il vecchio Mac muoia di morte naturale: gliel’ho regalato più di un Natale fa.
Max detesta la carne, ha un’indole vegetariana nonostante sia un bancario. Ne ha mangiato controvoglia due pezzi prima di far scivolare il piatto in fondo alla scrivania.
Mi sono seduta sul bracciolo della poltrona lì accanto e sono rimasta a guardarlo.
Ormai non ho più niente da fare e posso respirare il suo alito vitale e nutrirmi di ogni suo gesto, per non dimenticarlo, per poterlo cercare tra miliardi di altri gesti e ritrovarlo, quando sarò anch’io confusa tra l’umanità senza nome né memoria.
Le mani lunghe digitavano numeri su un foglio di calcolo per andare poi su e giù per il viso e tra i capelli troppo lunghi, di tanto in tanto digrignava i denti e stringeva gli occhi. Max li sbatte un paio di volte in sequenza, un tic nervoso che conosco bene e non so perché amo tanto.
Sembrava riflettere e spesso si perdeva altrove, osservava il medio leggermente storto, la fede all’anulare, la peluria chiara sulle nocche, le unghie -anche quelle troppo lunghe.
Ha messo in stop il computer e ha preso il quaderno nero e stilografica. Sulle pagine ho scorso alcune righe e la sua scrittura scomposta e infantile. Quasi su ogni rigo compariva il mio nome, tra alcuni “ospedale” e “neurologo”.  
Ha sbattuto di colpo i pugni sulla scrivania lasciando che la penna disegnasse qualcosa senza senso sul foglio bianco e sulla sua mano, poi, e ha cominciato a chiamare inutilmente il mio nome.



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