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sabato 12 maggio 2012

Acrobati


Da bambina volevo fare l’acrobata. Anche se il circo mi metteva addosso una tristezza infinita, l’idea di crescere in una famiglia così grande e di stare alla larga dai meccanismi nevrotici del piccolo nucleo in cui stavo crescendo, mi entusiasmava. E poi volevo vivere in una roulotte tutta mia e vestirmi di piume di struzzo e di paillettes anzi, avrei voluto affogarci in tutto quel luccichio esaltato dal rullo di tamburi.
Ero così minuta e agile che per far comprendere ai miei l’urgenza di quel desiderio, m’infilavo in ogni valigia che trovavo a portata di mano. Naturalmente, ci fu la volta in cui mi rinchiusi così bene che stavo per rimanerci, e tutto finì in un mezzo dramma, con mia madre che camminava su e giù per la stanza domandandomi da chi avessi preso, spandendo cenere dalla sigaretta, e mia sorella, che ridacchiava felice per la mia sconfitta.
Forse fu allora che nella mia mente s’insinuò il dubbio che fossi stata adottata.
Bella morte. Talento circense muore soffocato nella valigia di cuoio del nonno.
Comunque, quell’episodio non bastò a cancellare il mio sogno, e ogni volta che ai semafori, signorine in tutù distribuivano volantini del circo, incominciavo a nutrire la speranza di infilarmi in un baule dei loro, e ritrovarmi dall’altra parte del mondo, vestita di tulle e pronta per lanciarmi nel vuoto con un sorriso smagliante.
Col naso all’insù, seduta tra mia sorella interessata solo ai pop corn e mia madre che guardava di continuo l’orologio pregando che tutto finisse presto, mi domandavo come riuscissero, quelle signorine bellissime dagli occhi scintillanti, a volteggiare come trottole e a non perdere i sensi, e mi chiedevo anche se non fosse per amore che le loro mani, si agganciavano con quella sintonia alle mani del compagno di turno che si dondolava sull’altro trapezio. Magari quei due si odiavano, penso oggi, ma a quel tempo questa ipotesi non era contemplata.
Mi si svuotava lo stomaco a vederli dondolare a testa in giù in attesa del momento giusto per agganciarsi l’un l’altra, nel vuoto, così davanti a tutti.
Il mio problema è stato sempre quello: aspettare il momento giusto, o più semplicemente riconoscerlo, come adesso, che quando dimentico gli occhiali chiedo passaggi ai camionisti anziché fermare l’autobus di linea.
Eppure i tempi sono stati sempre la mia specialità.
Nella recitazione i tempi sono tutto. Il tempo di un’entrata in scena, di attacco di una battuta, di un movimento. Perché si può anche snocciolare una frase troppo rapidamente –e anche quella era una mia specialità- ma è l’attacco ciò che conta veramente. È lì che si nasconde il talento, nel tagliare la pausa nel momento esatto. L’arma segreta dell’attore sta nel bucare il silenzio proprio lì, nella giusta frazione di secondo, né prima né dopo. Ed è lì che si trova anche l’intensità, la verità della battuta, nel brivido, nell’impazienza frenata, nell’attesa. E quella roba non si insegna, né si legge su un foglio pentagrammato, si sa e basta. Sono strumenti del mestiere che non si possono comprare, si trovano nella pancia e nel coccige, come la presenza scenica. È la stessa cosa di quando sento che quello che ho davanti è un uomo speciale, e che mi ha già rubato il tempo a venire, forse tutto quello che mi rimane.
Una volta ho conosciuto un tizio che nella vita non aveva avuto che idee geniali, idee grandi e rivoluzionarie, e nemmeno le aveva rubate a qualcuno, erano solo sue, partorite da un testone riccio e messe in opera da mani grandissime e piene di cicatrici.
Mia madre non mi credette quando glielo raccontai. Mi disse, naturalmente con dolcezza affinché la delusione non fosse troppo aspra, che se quel signore aveva avuto idee geniali non doveva trovarsi lì, a un angolo di strada, vestito di abiti che sapevano di marciapiede e con un fiasco di vino mezzo vuoto e qualche cicca come unico avere.
Fu in quell’istante che compresi che genialità e realizzazione devono coincidere, altrimenti non sei niente.
Ma gli occhi di quel tizio, che aveva la sua casa di cartone proprio all’angolo di una grande banca dai gradini di marmo, avevano qualcosa di scintillante e indimenticabile, e non mi rassegnavo all’idea che la sua realizzazione fosse andata altrove, che si fosse persa e piangeva per strade sconosciute in cerca della genialità che le corrispondeva.
Sì, forse l’aveva perduta, pensavo, forse gli era passata accanto mentre era occupato a costruire la sua idea fantastica, e non l’aveva vista. Consumai giorni e settimane, a chiedermi se quella realizzazione avesse trovato un’altra idea con cui coincidere alla perfezione, come le mani degli acrobati, o se ancora vagava in cerca del tizio e del suo talento.

A quel tempo, quando mi dondolavo a testa in giù dal ramo del grande gelso, in attesa che il mio circo passasse, non avrei mai pensato che potesse esserci un’altra via. Non avrei mai ipotizzato, allora, che le realizzazioni si fabbricano in serie, si possono comprare o duplicare a piacere. A volte si incontrano a cena, casualmente, quando proprio non ci si pensa, altre volte si scambiano con ciò che si ha, che sia prezioso o meno non importa, e nemmeno importa a nessuno, se quella realizzazione ha da qualche parte un’idea geniale o un vero talento che le corrisponde alla perfezione, e che ancora la sta cercando. 

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