Pagine

domenica 4 marzo 2012

Diario di LOLA, undicesimo giorno, acqua


Foto di: Brooke Shaden

Lo so che così ti faccio male.
A volte sono brutale e asciutta, molto più spesso sono solo distratta, inciampo e me la prendo con il tappeto che proprio non doveva trovarsi lì.
Come me la prendo con le unioni bianche e afone, con le mani che si abbandonano mollemente anziché stringersi più forte.
Comunque, la donna dell’appartamento di fronte non la vedo da giorni.
Sto lì in finestra a braccia conserte per delle ore ma di lei nessuna traccia.
Come Vince mi ha suggerito, tengo macchina fotografica e binocolo a portata di mano. Li ho messi su un tavolino di legno e osso, una perfezione decò trafugata da casa di mia madre e che mi ricorda un suo sguardo compassionevole, forse l’unico del repertorio, rivolto a una splendida orchidea ammalata di non so cosa.
Stanotte l'ho sognato, ho sognato Lalama.
Lo vedi? Quando pronuncio, penso, o come adesso scrivo il suo nome, le luci cambiano e prendono il colore della notte e di un night club. Esattamente uno di quelli in bianco e nero con il barman baffuto e i clienti con il “solito” in mano e la sigaretta tra le labbra, come l’uomo del bar che parlava con mio padre e come Vince.
Anche il silenzio s’interrompe e un blues ovattato si compone nella mia mente.
Ma nel sogno, però, non eravamo in un bar, no, c’entrava la mia auto anzi, le lamiere della mia auto.
Sentivo già l’odore pastoso del sangue, che misto a carburante e olio, esalava dall’asfalto ancora bollente per la folle frenata di cui, messa così e con la faccia schiacciata per terra, vedevo ancora i segni.
Vedevo anche la mia mano immobile, e i polsini della giacca chiara macchiati di sangue scuro, il bottone gioiello che penzolava attaccato a un filo sottile e io che ne seguivo il moto lento e costante. Destra sinistra, destra sinistra, destra sinistra.
Era un sogno in bianco e nero non fosse stato per le luci gialle dei semafori che, a intermittenza, risucchiavano la notte per pochi istanti. Buio luce, buio luce, buio luce.
Sentivo il cigolio delle lamiere, un gleng gleng circolare e stridulo, solcare uno strano silenzio, quello che solo la morte produce, e la neve. Mi trovavo nell’istante esatto della sospensione agghiacciante in cui chi guarda, si porta le mani alla bocca o spalanca gli occhi, o entrambe le cose, che vanno sempre bene prima dell’urlo.
Ma l’urlo non veniva perché nessuno, forse, spalancava gli occhi. Da lì non potevo capire nemmeno dove mi trovassi.
Finalmente mi raggiunse una voce concitata e poi subito un’altra più forte, e poi un rumore di passi, una corsa anzi no, due, passi raddoppiati che si avvicinavano al mio orecchio gelato dal sangue. Poi delle ombre e una forma più chiara, un paio di scarpe lucide e calze verde petrolio, una mano ampia che si avvicinava al mio viso e che profumava di lavanda.
Signora? Signora?, domandava la voce più chiara.
Perché lo hai fatto, Lola?, domandava l’altra, che però mi sembrava assai lontana.
Mi sono svegliata boccheggiante come dopo una lunga resistenza, al centro della notte e della mia stanza. Vivo quasi ogni notte questo stato da annegata. Ho percorso il profilo della stanza illuminata dai lampioni e lentamente il respiro si è calmato per restituirmi al sonno. Max e il suo respiro calmo erano di là, in studio.
È che qui, e ora, vedo tutto in chiaroscuro.
Continuo a domandarmi quand’è che il cielo ha assunto questo colore grigio e i colori tonalità sanguigne. Quando è stato che il mondo ha smesso di guardarmi e ha preso a passarmi avanti se sono in fila alla cassa, e a non servirmi con garbo quando entro in un negozio per fare acquisti. Mi domando quando è stato esattamente che il mondo ha smesso di rispondere al mio saluto. Io non lo ricordo.

Stamattina, Max è rimasto a lungo abbracciato al mio cuscino. Stavo dietro la porta ad ascoltarlo sussurrare il mio nome in un lamento, e sono rimasta lì ad arrotolarmi i capelli tra le dita per controllarne distrattamente le punte. Un’abitudine adolescenziale dura a morire quella di passare sui cadaveri degli altri e torturare capelli.
Pronunciava il mio nome sorprendendosi ogni volta. Lo-la, Lo-la...
Non potevo certo interrompere quell’ammissione così inaspettata e interessante.
Quando è comparso in cucina, fingevo un umore distratto e disegnavo con le dita smaltate rosso carminio, cerchi ed ellissi. Poi ho spostato il mio peso da una finestra all’altra per simulare un’impegnativa verifica sulla buona riuscita delle tende nuove e infine, e sono rimasta a osservarlo, in piedi tra la finestra e il tavolo.
Anche un cucchiaino tra le dita di Max acquista un che di necessario.
Prima lo guarda, lì poggiato trasversalmente sul piattino e inerme, poi lo prede per soppesarlo a lungo -anche se è quello di sempre, di ieri e di domani-, lo tiene con cura tra i polpastrelli sottili e lunghi e poi lo immerge delicatamente nella tazzina per iniziare a girare, raschiando appena sul fondo, con ritmo regolare: dlink, dlink. Dopo aver verificato se è ben zuccherato, non troppo caldo e non contiene cianuro, porta la tazzina alle labbra e butta giù con un unico sorso deciso, come se quella lunga preparazione lo avesse stremato. Infine, si guarda attorno soddisfatto per riprendere subito tazzina e cucchiaino, e tirar su fino all’ultimo goccio di caffè denso di zucchero.
Finita l’operazione, mi ha letto gli appuntamenti in agenda ed è andato a prepararsi.
Sull’ingombrante scrivania c'era una bottiglia di bourbon aperta accanto a un libro di economia sottolineato con la solita precisione.
Il tratto certo e l’insindacabile giudizio sono da sempre la sua stampella, come per me la distrazione.  
Il computer era in stop e non c’era password.
No, non voglio alimentare questo dramma borghese andando in cerca di lettere e di parole sicuramente identiche alle mie ma solo scritte da un’altra. No, non ci ho guardato, ho solo lasciato che la scritta a intermittenza m’ipnotizzasse per un po’.
Anch’io non riesco mai ad andare al di là di quel “ti amo” incisivo, pur sapendo che prima o poi, lo dovrò declinare al passato.  
Non capisco mai per tempo, o non me ne ricordo, che della storia –il cuore, l’amore, il dolore- resterà solo quel ti amo immobile e ingombrante.
Nell’emozione di quell’attimo non voglio pensare che la camera buia, il suo braccio nudo illuminato solo dall’abatjour, i piedi lunghi che tradiscono nella penombra l’intenzione a muoversi -e a farlo presto-, il fremito che lo attraversa e cerca spazio -e deve trovare presto un’uscita per non esplodere-, si sono già dileguati, perduti tra oggetti, storie e facce, che ingombrano il mio e il suo passato. Un passato così prossimo da essere a un minuto di distanza da me, eppure già dimenticato.
Anche la sua voce non è più la stessa, le parole si sono scambiate di posto e confuse tra loro, e tutti quei vieni qui, aspetta, arrivo, da promesse e inviti si sono alterati in acidi ammonimenti quotidiani.
Da qui, non si torna più indietro, lo so.
Chiederò presto il divorzio.
Anche stamattina sono stata sul punto di farlo, quando prima di uscire è rimasto sulla porta a fare l’elenco di ciò che non poteva dimenticare: portafogli, telefono, uno o più “I” qualcosa, compresse per l’emicrania, ombrello e sciarpa, chiavi di casa e della macchina, telecomando del garage, deodorante e preservativi. Sì, è da un po’ se li porta dietro e la sera li lascia in bagno bene in vista, accanto ai rasoi a lama, in fila sula marmo e in ordine di grandezza, puliti e lucidi come quelli di un killer seriale.
Ho provato a dirgli qualcosa anche mentre aspettava l’ascensore, il viso reclinato in basso e lo sguardo concentrato, la mano lasciata sulla maniglia, impaziente di dare il via alle consuetudini quotidiane.
Ci ho provato anche dopo, quando l’ho chiamato, ma forse non c’era campo perché non è riuscito a sentirmi.
Qui c’è silenzio e questa umida penombra invernale mi deprime.
Voglio un orizzonte rotondo e ampio laggiù, voglio un altrove dove ci siano solo cielo e mare, e piccoli uomini e donne in fila indiana, ordinati e vestiti di bianco, che cantano e bruciano incensi agli Dei.
Voglio un “laggiù” che depone tutto nelle mani di qualcun altro, dove la beatitudine risiede nelle piccole cose, nel gesto fine a se stesso, dove si ragiona solo in termini di fortuna, e non di volontà, di punizione giusta e di cieco affidamento.
È sempre stato così. Qualcuno mi ha concesso un libero arbitrio di cui non so che fare.
Non voglio più essere io a decidere e a lottare.
E un giorno, Max ha tracciato una linea, perfettamente diritta, tra ciò che per lui è giusto e ciò che non lo è.
Voglio dormire tranquillo!, mi aveva urlato.
Voglio dormire tranquillo io, e non voglio che mia moglie vada in giro con un collare, come una cagna!
Si prese una lunga pausa, doveva deglutire e pensare.
Io guardavo fuori un sole settembrino appena pallido, avevo ancora il soprabito addosso e, agganciato alle dita, il manico di raso di una busta elegante con dentro un paio di scarpe nuove dal tacco così sottile da ferire al primo sguardo. 
Ancora piena dell’incanto di una giornata felice, di un lungo vagabondare per le strade del centro alla ricerca di me stessa riflessa ovunque, non riuscivo a guardarlo.
Le avevo cercate a lungo le scarpe giuste per trovarle in un negozio da cubista, uno di quelli dove quando ci entri si fa improvvisamente notte, uno spazio angusto illuminato da luci psichedeliche, la musica sparata al massimo e i commessi che parlano tra di loro urlando qualcosa d’incomprensibile e inutile masticandoci assieme una gomma.
Voglio stare sereno!, mi urlò di nuovo per lasciare che quel “lo sai”, aggiunto dopo avermi puntato l’indice addosso, mi si tatuasse bene in mente.
A quel punto era scomparso anche il ricordo del mio sorriso nelle vetrine, e il raso cominciava a segarmi le dita: il peso inutile di quelle inutili scarpe era come piombo.
E anche quel giorno ci accomodammo pigramente in un silenzio assenso cambiando d’improvviso sguardo e discorso.
Io e Max siamo animali della stessa razza.
E alla fine non arriva mai il momento di mandare tutto a puttane. Ciò che abbiamo costruito vale molto di più che inscenare certe fantasie, mi ripeto da quando ho memoria.
Allora rimando a domani perché è un casino rivedere e dividere, svuotare librerie per riempire scatoloni, mentre la musica di quel cd riempie la stanza -quel maledetto cd finito come sempre in un’altra custodia impolverata-, e io mi lascio inebetire da un ricordo, uno che se non era finzione non assomiglia neanche un po’ al dolore che sento adesso. Quello ieri che se non era un sogno non ha nulla della paura che sento ora, appesa a una rupe, ferma immobile in attesa di un’idea qualunque pur di salvarmi, e alla fine, mi dico che restare qui va bene lo stesso. Me lo dicevo senza fiato all’inizio, quando solo a guardarlo il mio ricominciare daccapo mi girava la testa. Ora, il “va bene lo stesso” me lo ripeto aprendo gli occhi ogni mattina, voltandomi dall’altra parte di notte, per non sentirlo, mentre come me, si ripete le stesse identiche parole.
Le ombre hanno già divorato la stanza e io non ho voglia di accendere la luce.

Nessun commento:

Posta un commento