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venerdì 24 febbraio 2012

Diario di Lola, decimo giorno, stanze


(Foto di Brooke Shaden)

Una volta Max mi portò in un albergo triste. Girammo a lungo per il litorale in cerca di quello più giusto, che avesse per lo meno luci fredde e un portinaio scortese e brutale che Max potesse riservarsi di tirar fuori come minaccia o premio finale, per punirmi una volta per tutte e farmi passare quella certa voglia che non lo faceva dormire.
Non negare.
Anche a tua moglie hai legato le mani, magari una volta sola e forse soltanto nella tua immaginazione, al buio, mentre pregavi che il respiro le si facesse in fretta più pesante, perché il suo sonno ti tenesse al sicuro quel tanto che bastava per stare da solo ad ascoltare, per una volta, cosa si prova a sentirla urlare e domandarti perdono.
Hai pensato di punirla, confessa.
Magari in albergo, quella volta lì che ti è piombata in camera senza avvertire, violando la tua sacrosanta privacy, distruggendo il progetto che avevi per la serata, la cena con i colleghi, una bevutina solitaria e un po’ di zapping tra thriller e hard core. Anche uno come te, ne sono certa, con quella faccina da adolescente un po’ invecchiato, può essere in grado di immaginarla legata al letto, nuda, anzi no, uno come te la vuole in guepierre, generosa e grata come non è mai stata.
Sì, lo so che quella sera ci hai pensato, quando il suo profumo è arrivato fin troppo nauseante al tuo bel naso regolare e dritto già all’apertura dell’ascensore. Hai guardato automaticamente la spalliera del letto e poi le cravatte, che libero dall’assillo casalingo dell’ordine, avevi lasciato sulla spalliera della sedia, in fila come soubrette fasciate di seta al bancone di un american bar. E c’è mancato poco che non le mettessi le mani addosso quando, ancora sulla porta, ha messo su una chiara espressione di disgusto e anziché baciarti, si è avviata rigida verso le tue scarpe, che tenendo con due dita il più possibile distante, ha messo fuori, sul davanzale della finestra.
A me non devi mentire, lo sai.
Può capitare a chiunque di avere certi pensieri.
Capita anche in un freddo pomeriggio invernale di derby domenicale.
Tua suocera è appena andata via – e magari sta lì a due passi da casa tua, forse al piano di sotto, sempre pronta intervenire-. Ha appena chiuso la porta salutando a gran voce, e a gran voce e per la centesima volta le avete risposto entrambi, tu con gli occhi sul giornale e lei su un romanzo che sta lì da anni e ancora non si decide a finire.
Ti senti sazio per il pranzo e per la stretta di mano che vi siete scambiati a messa, in segno di pace. Le hai anche fatto il caffè e come massimo segno di gratitudine per quel perdono, hai messo sul piattino un paio di lingue di gatto al cioccolato, comprate per lei la sera prima, dopo aver sostato a lungo con lo sguardo sul seno bianco della ragazza che sta in panetteria e che avrà sì e no vent’anni. Ma questo particolare, forse, ti è sfuggito di mente.
Ora sei di là in sala da pranzo, sulla poltrona imbottita. La stanza sa ancora di pasta al forno e involtini.
Sì, anche stavolta ha esagerato con l’aglio, da buona pugliese, ma da buona pugliese ti ha anche versato un paio di volte il liquore fatto da lei.
È in bagno magari, per godersi la domenica di riposo e leggere con attenzione la posologia di tutti i campioncini di creme che è riuscita a recuperare o forse, anche lei come me prova a resistere al mugolio insoddisfatto che non è ancora pianto. Forse ha appena visto la traccia evidente che una vita senza picchi lascia agli angoli della bocca, e si domanda perché, e se quelle creme riusciranno a spianarla.
È vero che non ci si guarda mai sorridere, ma fino a quel pomeriggio lì si era giudicata felice.
Frottole, si chiamano quelle che racconta alla madre, alle amiche e alle zie, bugie, cazzate, invenzioni, fandonie, menzogne: sono anni che non la guardi a quel modo.
E tu lo sai che lei è di là che brontola, come te di qua, che con il vassoio ancora tra le mani, pensi che è splendida e che non ne potresti fare a meno, eppure vorresti avere ancora vent’anni -solo per i prossimi novanta minuti- e lei fuori dai coglioni.
C’è silenzio. Hai il televisore in “mute” perché quella è l’ora della pubblicità con le belle fighe dalla pancia piatta che da lì ti sorridono ma non te la daranno mai, è l’ora della pubblicità delle auto che contengono la famiglia perfetta, il bambino che non potete ancora permettervi e la serenità che, ne sei certo, non vi permetterete mai.
Di tanto in tanto senti delle voci per le scale e ti ricomponi ravviandoti i capelli, come se qualcuno potesse bussare da un momento all’altro e coglierti in fallo: anche questo si chiama senso di colpa, ma anche a questo non hai pensato.
Ancora non ti ha domandato se la aiuti a piegare le lenzuola o se porti giù il cane, il tuo, ribadisce un paio di volte andando in sovracuto, tanto per alzare il cartellino giallo.
Ci pensi un po’ su e lo guardi. Solo lui ti è veramente necessario. Scuoti la testa e incroci le gambe affondando ancora un po’ nella poltrona.
Ma poi eccola in accappatoio, quando l’acqua ormai si è confusa con le lacrime, ma le mani le tremano un po’ mentre si versa qualcosa di forte e siede davanti a te, di tre quarti, rannicchiata sulla sua sedia a dondolo.
Non ti guardo, non ci sono, stai tranquillo, pensa lei.
Ha portato con sé anche il libro per sancire definitivamente la conclusione delle ostilità, eppure sembra dire: vediamo se sei capace, su!, e adesso tiene il ritmo di quella provocazione muovendo le gambe nude per far andare la sedia in su e in giù.
Sei capace?
Forse saresti capace di usarle violenza, sì, ma non di farla godere.
Come tanti tu confondi la sottomissione consapevole e consenziente con la violenza gratuita e frustrata. Sei uno dalla buona cultura scolastica e niente di più. Sei passato dalla casa di mamma a quella della tua donna senza nemmeno passare dal via. Come avrei voluto fare io. Sei una persona ordinaria, come una volta diventata sposa speravo di diventare anch’io.

Di Max, ho soppesato la lealtà e il coraggio, poi, ho misurato la voglia di sfidarmi e la capacità di vincere.
Di te non so nemmeno come muovi le mani, come apri un’aragosta o se canti mentre fai la doccia.
Mi ricordo che stavi in ginocchio davanti al mio corpo disteso. Ti ricordo piangermi addosso e domandarmi perché l’avessi fatto. E adesso ti racconto di me, senza motivo, e non so bene neanche quando è cominciata, né so più dov’è il mio ora o il mio qui.
Comunque era un pomeriggio ancora freddo, quello.
Max aveva stipato nel bagagliaio tutto l’occorrente compresa la telecamera. Per giorni era andato in cerca di qualcosa che normalmente non avrei indossato e che nemmeno immaginavo esistesse.
Io me ne stavo rigida sul sedile sempre in procinto di dirgli qualcosa. Mentre guardavo scorrermi accanto la campagna dormiente, abbozzavo pensieri del tipo che no, che bastava, che forse era troppo per me ma d’altra parte, forse, sì, ecco... non sapevo bene fin dove mi sarei spinta, e quanto profonda fosse la mia ferita.
La sua l’avevo suturata da tempo.
Gli aveva dato coraggio il mio chiudere la laurea in un cassetto e giocare a essere la sua bambina ammalata da accontentare in tutto.
Ci eravamo da poco scoperti entrambi pieni di ferite, quelle profonde che nel tempo della meraviglia ci si sono tatuate per sempre addosso, così privi di protezione e filtri, e quelle più superficiali, un po’ inutili, come la paura del futuro e della morte.
Aveva deciso per un appuntamento al supermercato. Quello di quartiere, il solito.
In certe cose  è il prima che più conta, è la preparazione lunga e puntuale, la curiosità che cresce, l’eccitazione che abbonda e diventa acquolina.
Non era scontato che da lì sarei uscita con lui, o da soli, o in compagnia. Il gioco è aperto in certa roba così. Le regole di base sono l’imprevisto e la sorpresa, il perno attorno al quale girare è l’incertezza, l’ipotesi del fallimento l’unico ingrediente che dà sapore, che non lascia dormire, che impedisce al desiderio di esaurirsi, assieme alla forza vitale.
L’Aurelia era dritta e già rossa di tramonto.
Stazione di servizio. Lola alzati la gonna!, di più!, mi ordinarono il suo sguardo e la sua mano, sì, fino ai gancetti del reggicalze... sì, così, mi disse la sua espressione di approvazione.
Uscì dall’auto e domandò a un ragazzotto italiano, magro e dall’espressione pessimista, di pulire il vetro.
Attesa, il ragazzo era anche distratto, e lui da lì, dalla giusta distanza, lo guardava soffermarsi, dopo un iniziale moto di sorpresa, nella pulizia del vetro.
Salito in macchina non disse nulla. Al ragazzo aveva lasciato dici euro di mancia.
Guardammo ancora un po’ il mare e infine trovammo l’albergo. In realtà ho sempre pensato che Max sapesse già dove portarmi.
Mi sembrò di tornare bambina in quella hall dalle poltrone a cubo anni settanta, le applique optical smaltate marrone e arancio come la moquette e le tende.
Mi sentivo Ursula Andress in mini abito nero e le calze rosa shocking. Max poi mi confessò che il premio era andato tutto agli stivali rossi al ginocchio.
Anche questo fa parte del gioco e della sorpresa.
Per giocare non basta un baby doll di gran marca. È scontato, è loffio come una festa di carnevale andata deserta.
Voleva tirarla per le lunghe e anch’io, e allora ordinò una bottiglia di champagne. Ridemmo sadicamente in ascensore al pensiero che il titolare avrebbe mandato di corsa qualcuno, sicuramente un figlio schiavo, alla disperata ricerca di una bottiglia, e delle migliori.
In camera mi ordinò di sedermi sul letto e iniziò a disporre luci e telecamere.
Aveva anche disegnato lo storyboard.
Eccola la ferita. Sentirsi costretto a lavorare in banca anziché cercare storie e raccontarle, era la cicatrice profonda e antica del mio Max che da lì, dal copriletto di ciniglia blu notte e arancio che stringevo tra le dita, mi sembrava veramente bellissimo.
Max diceva che trovare una buona ragione per punirmi era sempre un casino, diceva che ero bravissima, e che presto, mi avrebbe potuto prestare ad altri.
Invece non è mai successo.
Era già finito quel tempo quando ho deciso di provarci ancora e di farlo con te.
Lo sentivo che quel pomeriggio dovevo andare io a fare la spesa. Avevo anche discusso con Milena per questo. Volevo uscire, volevo incontrarti. E ti cercavo, e spiavo, tra tutti, in cerca d’indizi: la mano che accarezza un rotondo melone, le dita che tastano, sapienti, pere o zucchine.
Una sola bottiglia di bianco, eri solo.
Anche il pane casareccio, un solo quarto, era un buon indizio. Il fatto che non avessi la fede al dito non significava nulla, ci sono in giro plotoni di quarantenni divorziate che per una cena e una scopata si farebbero mordere da una tarantola.
Le tue mani me le ricordo bene, tutto il resto no, forse la tua voce scolorita e lontana che mi dice di parlare e di dirti di me.



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