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venerdì 10 maggio 2013

Morire di Gioia




Era normale quell'attesa anzi: potrebbe anche non arrivare!, si disse l’uomo ordinando con un breve cenno il secondo drink. Poi ruotò un paio di volte con gesti decisi il posacenere già pieno di cicche, e si mise ad ascoltare il tizio che cantava un intonato medley di pop inglese.
Non la vedeva da oltre un mese, erano passati esattamente trentasette giorni dall’ultima volta che l’aveva incontrata. Dopo, era sparita nel nulla cancellando account su social network –numerosi e dai nickname significativi- e cambiando numero telefono.
Pensare che ci aveva messo una vita a ottenerlo, il numero di cellulare, si disse l’uomo in penombra mentre di nuovo la voce del cantante veniva inghiottita dal rumore di fondo del locale, e lui cercava di riprendere possesso di sé, del suo cuore, almeno di una fetta piccola piccola di quell’organo vitale, che all’idea di rivederla pompava a più non posso.
Da tre anni impazziva per Gioia.
Incredibile!, e scosse la testa per un po’, passando lo sguardo chiaro sulla tovaglia dozzinale e sugli arredi anonimi di quel piccolo ristorante sul mare.
Era incredibile che una donna con quel nome si portasse addosso un carico così importante di sventure: le volte in cui gli aveva sorriso poteva contarle sulle dita della mano. Una volta in barca, quando tirò su una roba bella grossa, sul Monte Bianco davanti al sublime, al Museo d’Orsay davanti a un Manet, e a Viterbo, quando gli concesse di passare la Pasqua assieme e un microscopico bimbetto bruno vestito a festa, durante la processione le aveva abbracciato le gambe scambiandola per la madre.
Per il resto del tempo, Gioia era sempre imbronciata e scontenta. Normalmente spariva prima dell’alba e senza salutare, almeno così succedeva le rare volte che restava da lui dopo il sesso. Nemmeno i viaggi, che l’uomo organizzava senza risparmio di energie e denaro, lasciavano trasparire in lei tracce di entusiasmo, di curiosità, per non dire di gioia.
Gioia. Chissà com’era da bambina, si chiese concentrandosi sul drink e sui cubetti di ghiaccio che si scioglievano sotto il suo sguardo.
Non sapeva niente di lei. Viveva sotto falso nome da sempre. Che poi poteva chiamarsi anche Anna, Antonella, Francesca, Alessia.  Roberta. Cambiava città e abitazione di continuo, look e colore di capelli. Perfino per lui era stato difficile rintracciarla, e sì che di latitanti ne aveva catturati parecchi.
L’uomo diede un’occhiata al display del cellulare come per un’abitudine involontaria, senza ansia né aspettative, cercando di non fermare il tempo con un “non è detto che venga” che l’avrebbe gettato nel panico. Il fatto che fosse anche ritardataria era un buon calmante per il bruciore che già gli infiammava lo stomaco, la ferita che si faceva più profonda ogni volta che entrava in contatto con lei. Anche se non lo ammetteva, passarci sopra e lasciar correre era difficile. Lasciare che quella donna nemmeno bellissima rimanesse del tutto indifferente al suo fascino era del tutto inammissibile.

Fu la vibrazione del cellulare a salvarlo dall’angoscia nascente.
Ma non rispose e mise in mute, così come non rispose alla chiamata seguente e all’altra ancora.
Era sempre lei, la solita, quella di cui nemmeno ricordava il nome e che per una scopata gustosa, ma non irrinunciabile, gli si era attaccata alle ginocchia come una martire e non lo mollava più. Una volta se l’era ritrovata in commissariato con una falsa denuncia di stupro in mano. Urlava che doveva assolutamente conferire con l’Ispettore tal dei tali (ossia lui) altrimenti sarebbe andata via senza firmare. E prese per il culo tutti, psicologo compreso. Gli fece una gran pena vederla in preda a quel vulnus passionale, l’odore acre e lo sguardo temibile, ottuso e impenetrabile, ma d’altra parte lui aveva messo bene in chiaro la faccenda. Ma niente da fare.
Un maschio single, affascinante e oggettivamente bello era ovvio ne avesse a grappoli. Se poi faceva un mestiere misterioso e un’esistenza tutta segreti e azioni pericolose, indagini e pedinamenti... e si specchiò nel display buio del cellulare.
Andava fiero della sua collezione di femmine, come le chiamava solo e soltanto riferendosi all’aspetto più pittoresco del termine, senza malizia o sessismo, anche se poi, in fondo in fondo, non ci aveva mai creduto alla presunta parità raggiunta, e naturalmente sorrise tra sé, mentre, per un’improvvisa accensione del desiderio dovuta forse al collage di sorrisi femminili che gli era passato per un istante nella mente, scorreva con sguardo da profiler le donne sedute ai tavoli.
Era stato per quel desiderio ossessivo di scoprirle prima che fossero nude che aveva deciso di fare l’investigatore. Solo per quella ragione –che anche il padre considerava ottima- aveva preso il massimo dei voti in psicologia. L’idea che bastasse un solo gesto o uno sguardo a svelare la vera natura di un individuo lo mandava in estasi.
Tutta la sua vita ruotava attorno a quell’ossessione, la preparazione atletica (mens sana in corpore sano), la meditazione: camminata, zazen, steineriana, arti marziali e alimentazione.
L’uomo in giacca di pelle nera, che poggiava e sollevava il cellulare dal tavolo facendogli fare casuali piroette tra le dita, curava ogni aspetto di corpo e mente e le donne, facevano parte integrante dell’esercizio quotidiano, incidenti compresi, ossia tutte quelle che non si arrendevano alla realtà dei fatti, e che in guanti di lattice si prodigavano per casa già dopo la prima scopata, assottigliandosi di giorno in giorno per quella brutta abitudine di voler esserci sì, ma senza disturbare.
Invece lui avrebbe dato qualsiasi cosa per trovare una donna che gli fosse di peso, che gli togliesse il respiro, che lo facesse allontanare per un po’ da se stesso a e da quella ricerca costante di perfezione. Avrebbe perfino svenduto la sua collezione di scacchiere per una che avesse il rumore dentro, naturale, potente come la risacca dell’oceano, pur di metter via agenda e telefono, di dimenticare qualunque cosa per un paio d’ore. Per una come Gioia, per esempio, si sarebbe fatto anche ammazzare.
E adesso che quella strana emozione era diventata una leggera ansia, percepì un pericolo imminente uno di cui ancora non conosceva né entità né natura del danno: era l’effetto “ferita” procurato da Gioia, dal suo pensiero e dal suo ricordo!

Prese il telefono con aria accigliata, scrollò un paio di volte il “registro chiamate” e lo rimise sul tavolo, poggiandolo con cura e cercando poi la simmetria con tovagliolo e forchetta.
Domandò il terzo drink e si avviò in bagno.
Si diede uno sguardo nello specchio dalle luci oscene e andò a pisciare. Mentre ascoltava il gocciolio irregolare – il proprio e del tizio nel bagno accanto- immaginò che al suo ritorno avrebbe visto Gioia seduta al tavolo, anzi no, ancora in piedi, abbracciata come sempre a qualcosa di caldo e pesante anche d’estate, e alla sua malinconia, al freddo onnipresente che le faceva tremare appena il labbro. Vestita come sempre in pantaloni classici e camicetta, niente di speciale a parte l’aria da eterna scontenta, lo sguardo diffidente e duro, le labbra piccole e pallide. Niente di speciale a parte quel fragore di onde che lui sentiva risuonarle dentro e che s’infrangeva in uno sguardo per lo più immobile e assente.
In realtà poteva anche essere desiderio, quello.
In realtà sapeva benissimo di cosa si trattava, ma soltanto pensarlo che un giorno Gioia l’avrebbe voluto sul serio, gli procurava un dolore ancora più intenso che la sua assenza. Amava i silenzi punitivi della donna, le parole dure che uscivano dalla sua bocca senza nemmeno assumere un’espressione, un colore, una tonalità appena più alta, un volume poco più forte, come non fosse degno nemmeno di un suo insulto. Era quel senso d’impotenza che lo teneva ancora in vita, che gli dava la certezza di non poter riuscire in tutto, della propria natura fallace.
Solo se si sa di poter perdere si vince, si ripeteva sempre. Forse glielo diceva suo nonno, o il padre, non lo ricordava. O forse l’aveva letto su uno di quegli orrendi manuali del perfetto seduttore.

Domandò ancora un drink che erano passate le undici e venti. Un’ora di ritardo non era un record per Gioia...
Decise comunque che dopo quel drink se ne sarebbe andato. L’ultima stranezza di Gioia era stata quella del numero privato: e fine della discussione, gli aveva detto. Se vuoi è così altrimenti niente!, aveva ripetuto la donna guardandolo da sotto in su come faceva sempre, con lo sguardo annoiato, le gambe accavallate come un maschio e la vittoria già in tasca.
L’ultima volta che ne avevano discusso, aveva un baschetto rosso, che risaltava tra il mare scuro come la pece e i suoi capelli. In realtà era lui che spiegava le sue numerose ragioni mentre lei si limitava a scuotere la testa come una ragazzina cocciuta.
E di nuovo guardò il display del cellulare e il ghiaccio nel drink.
Quando domandò il conto era quasi mezzanotte.
Quando, per eccesso di velocità e alcol, l’uomo sfondò il guard rail per morire sul colpo, era mezzanotte e un quarto.





1 commento:

  1. Un bel ritratto doppio ritratto. Una Gioia tenebrosa e scontrosa (un po' come me) e un investigatore che si dimentica che: "se guidi, non bere"

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