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venerdì 1 maggio 2015

L'Avventura


Tempo fa, causa mancanza di materiale televisivo interessante: soliti talent, soliti filmacci e serie tivù, ho rivisto, con immensa gioia, L’avventura, del 1960, il sesto lungometraggio di Michelangelo Antonioni.
Me lo sono tenuto dentro, ne ho riviste alcune scene, altre mi sono sovvenute alla mente dopo, per settimane, senza un perché.
Ecco, questa è un’opera che farei vedere e rivedere a chi pensa che ogni scena all’interno di una narrazione, filmica o letteraria, debba avere necessariamente una finalità, che debba a tutti i costi, si tratti di digressione o flash back, portare avanti “il fatto”, perché la massa possa seguire, pena lo sbadiglio di chi è abituato agli action movie, pena la perdita d’interesse, pena un “consumatore” in meno.
E sono proprio gli esperti quelli che metterei seduti in poltrona, dopo avergli requisito l’aggeggio telefonico, a guardare L’avventura, gli esperti e gli addetti ai lavori, quelli che ritengono che la nostra esistenza non sia fatta evidentemente di pause di riflessione fine a se stesse o di attimi di pura inerzia che, a detta di molti, pare abbia in sé comunque una forza.
E forse per molti, oggi, è così, il loro, forse, è un tempo fatto soltanto di azioni incredibili, giacché limitati dalle continue incursioni sui social network che pongono di fatto, chiunque li frequenti, nella condizione di digitare sempre qualcosa d’interessante.


Perché immaginiamo soltanto per un istante Claudia, la splendida Monica Vitti in attesa che la sua amica Anna scenda di casa con l’amante, attesa prolungata causa effusioni che i due si stanno scambiando, questo almeno è ciò che il regista ci lascia soltanto immaginare, che anziché passeggiare, vagolando in qua e in là annoiata per l’attesa, abbia tra le mani un cellulare.
Ed è un’immagine agghiacciante.
Per prima cosa sputtanerebbe l’amica con tweet del tipo, lei di sopra a godersela ed io al caldo ad aspettarla, oppure con dei lapidari: dovevamo essere già partite, o con sms aggressivi del tipo se non scendete subito, me ne vado.
Invece no, Claudia sorride, si guarda in giro nel sole del mattino senza fare assolutamente nient’altro che aspettare.

La meraviglia dei film di quell’epoca, italiani ma anche francesi o svedesi, erano i tempi distesi, lunghi, la vita che scorreva in fondo senza nessun perché, senza la necessità di arrivare a una definizione della giornata, della gita, dell’istante, di se stessi, come invece siamo costretti a fare noi ogni giorno dall’impeccabile biografia su questi maledetti social network senza i quali, si crede e ci s’illude, non siamo nulla.
Anche la ricerca dell’amica scomparsa sull’isola ha già il sapore dell’attesa inutile, perché la scomparsa di Anna (Lea Massari) resterà insoluta, seppur piena di conseguenze e di disvelamenti chiarificatori. Perché quella scomparsa, e quell’attesa, a causarla è stato forse proprio Sandro, l’amante, un Ferzetti che vibra soltanto se scosso da amori sofferenti e donne imprendibili, ed è quindi essa stessa una protagonista, l’attesa, tra un amore finito e l’altro.
Sandro, che cerca la seduzione e non l’atto.
E sarà soltanto alla fine, dopo uno spazio di bianco e nero denso fatto di sguardi e di parole rare, quando lo spettatore capirà di che pasta è fatto l’amante, che quelle pause assumeranno un significato diverso e ci racconteranno il perché della fuga di Anna e la sua definitiva scomparsa.
Ma bisogna darsi tempo per capirlo.

Il tempo è il vero protagonista anche delle scene sull’isola di Liscina Bianca, il tempo che si fa burrascoso d’improvviso, il tempo nemico che ci lascia immaginare un corpo portato alla deriva, quello della dispersa, o affamato, o assetato chissà dove tra le isole; il tempo, che già si frappone tra Anna e il suo amante che nel frattempo si è accorto dell’altra. Il tempo che scorre poi, e che li lascia troppo a lungo da soli, che lascerà svanire in loro la speranza di ritrovare Anna, che farà sì che s’innamorino ma non per sempre, per un’avventura, appunto, che non vuole troppo tempo, che è densa e indimenticabile.

Il tempo di Antonioni non voleva soluzioni definitive, era un tempo che ci lasciava tutti più liberi: di scomparire per un po’, di non dare notizie, di non dare spiegazioni sul perché avevamo il cellulare spento, di chi e quando ci siamo innamorati.
Quello era il tempo che ci lasciava scampo, quando la vecchiaia non era ancora vergogna, non rottamazione senza se e senza ma, perché uno o più imbecilli hanno deciso che così va di moda.
Il tempo che è prezioso e noi buttiamo via così, nello scegliere l’inquadratura migliore e la battuta più cinica che riveli a tutti, al mondo che deve sapere della nostra esistenza, un aspetto falsato del nostro tempo.
Perché talvolta il tempo è perso per sempre, che digitiamo oppure no qualcosa, seppure il plauso altrui ci lascia la sensazione di aver catturato l’istante, non di averlo irrimediabilmente perso concedendolo agli altri.

Il tempo del silenzio e della meditazione, quello in cui ripensare a certe parole, a un film o a uno sguardo, il tempo impiegato a scalciare un sasso lo abbiamo perduto per sempre, presi come siamo a riempirlo di fantastiche avventure anche mentre siamo in fila alla cassa di un supermarket, per esibirlo, come scimmie ammaestrate dietro un monitor che si dice “libertà” ma si legge “gabbia”.


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