Aveva un bel da fare in quegli ultimi giorni, in quegli
ultimi mesi, in quegli ultimi anni.
Si guardò nello specchio di sfuggita, s’intravide e andò
oltre, verso la cucina, abbracciando un catino pieno zeppo di panni da
stendere. Poi si fermò, tentennò, fece un passo deciso e di nuovo si fermò,
lasciando il passo sospeso nella pantofola foderata di morbido peluche, troppo
leziosa per l’aria dimessa che si portava addosso.
Respirò e si chinò, lasciando poi il catino sul marmo
dozzinale, infine si rimise dritta e tornò allo specchio. Guardandosi riflessa
lì dentro, si scostò i capelli dal viso e così rimase, un po’ attonita.
Poi prese a guardarsi da ogni prospettiva cercando di
cambiare prospettiva e luce. Accese e spense le lampade mettendosi davanti allo
specchio in ogni posizione, ma niente.
Le riusciva veramente difficile riconoscersi.
Non capiva dove fosse finita quella di un tempo, la ragazza con
velleità di pittrice che aveva perso la testa per un ragazzo che cantava nella
rock band della parrocchia.
«Anna?», s’interrogò senza rispondersi.
Che si mettesse lontana, in fondo in fondo al corridoio e
controluce, o a un passo dallo specchio a luce spenta l’impressione era sempre la
stessa, quella di una sconosciuta terribilmente trasandata e triste entrata
chissà come nella sua vita.
E c’era ben poco da fare.
Ben poco da sperare.
La vita di una quarantenne cui i capelli crescano il doppio
che alle persone normali può essere frustrante. Non se n’era nemmeno accorta di
quella ricrescita abnorme. Né che aveva bisogno di una spuntatina a quelle
ciocche dal colore un po’ smorto.
Rise. Poi guardò il catino e i panni da stendere. Si ricordò
della pasta frolla in frigorifero e dei bambini da prelevare in chiesa, al
catechismo.
Suo marito sarebbe stato fuori per un trasporto a Berlino.
Fosse stato a casa, lui non l’avrebbe comunque notata quella
ricrescita. Né il collant smagliato. Né quella tuta grigia e lisa che
rattoppava di anno in anno.
Anna pensò che una vita così faceva abbastanza schifo e che
non erano mai abbastanza i chilometri che quel poveraccio doveva fare ogni
giorno per dare loro la certezza, o una parvenza, di poter continuare a
mangiare.
Fanculo la crisi!, pensò, e in un gesto di stizza raccattò
il telecomando, spense il televisore sempre acceso sui talk show pomeridiani, e
lo gettò sul divano.
Rise ancora, stavolta lasciandosi andare sul pavimento e poi
a un pianto dalle lacrime grosse e salate che bevve, come faceva da bambina.
Le piaceva lasciarsi andare alla disperazione per liberarsi dalla
cupezza che la sovrastava e per farsi venire le gote rosse, che piacevano,
almeno così le aveva detto un giorno lontanissimo tale Giacomo, indiscusso bel
ragazzo che lei respinse in favore del marito.
Giacomo, che adesso faceva il giardiniere e che mille volte,
incontrandola allo spaccio del paese, si era offerto di rasarle il prato.
Che quell’offerta potesse avere un significato diverso da
quello che lei conosceva non la sfiorò mai, nemmeno adesso, mentre quell’idea
si faceva ossessione: scappare via da lì anche soltanto per poche ore, pazienza
i bambini, pazienza Franco, pazienza quel matrimonio del cazzo!
Fanculo la crisi!
Non vedeva più in là di una sopravvivenza difficile, di
malattie incurabili e di una scontentezza patologica.
Non c’era più nemmeno il cinema settimanale.
Fanculo la crisi!, urlò infine in un impeto di rabbia che
subito ricacciò dentro.
Corse nella stanza da letto e, con l’entusiasmo di una quindicenne,
prese a tirar fuori dall’armadio abiti che infilò in una sacca sportiva.
Doveva far presto.
Doveva risolversi a farlo prima che qualcuno si accorgesse
di quella fuga.
Trovò anche un grazioso baschetto rosso che avrebbe coperto
quello sfacelo di capigliatura.
Aveva il fiato corto quando si mise al tavolo di cucina a
scrivere il biglietto di addio.
Quando la pendola batté i cinque tocchi, la donna si alzò e,
come un automa, prese la valigia e si avviò alla porta.
Attese alcuni istanti con la mano sulla maniglia.
Poi tornò indietro, infilò la sacca nell’armadio e tornò in
cucina. Appallottolò il foglio che aveva lasciato in mostra al centro del
tavolo e lo lanciò nella pattumiera.
I ragazzi l’aspettavano per strada.
è sempre bello leggerti, Elena...altro non dico... ciao, Silvano
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