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domenica 7 novembre 2010

L'anniversario


Quando fermò la sua corsa a metà del grande viale alberato, Alessandra vide riflessi per primi i suoi orecchini.
Non era importante che quelle splendide gocce di acqua marina e brillanti le avesse scelte e acquistate lei stessa il giorno prima, firmando anche il biglietto a nome di lui.
Non era nemmeno così importante vederlo arrivare al ricevimento in disordine e a suo dire in ritardo a causa di una lunga riunione: aveva ancora addosso l’odore acre del sesso, ma anche quel particolare fu messo da parte.
Era stato altro che l'aveva resa cieca di rabbia, forse quel suo sorriso felice e un pò stupido.
Poi il finestrino di un’auto le restituì un’altra immagine, quella di uno sguardo assorto ma anche un poco inquieto, come di chi fa e rifà i conti di un resto sbagliato, incapace di ammettere una fatale distrazione, evitabile.
Si voltò verso la strada e pur di scappare da quell’espressione stupida fu sul punto di attraversarla senza guardare, come quando lasciava correre le sue lunghe telefonate fatte di brusii e risate sommesse, o le continue trasferte.
Una scia di automobili in corsa le sollevò appena la gonna turchese, giusto un lembo, quel tanto che bastò a farle riprendere la corsa, a farle capire che non sarebbe andata lontano, che sarebbe arrivata, come sempre diceva lui, solo alla fine dell’isolato.
Quella sera la cena l’aveva organizzata sua madre, lei non ne aveva voglia.
-Cosa fai eh? Annunciamo il nostro divorzio il giorno del nostro anniversario? Quest'anno dovevi evitarla- 
 le aveva detto il marito un settimana prima lanciando sul letto l’invito stampato di fresco, infastidito.

Non aveva cambiato idea si disse Alessandra, ma pensò anche che forse c’era tempo e prese a dire qualcosa mentre lui, senza aspettare risposta, uscì chiudendo la porta con calma, ma solo per buona educazione.
       Quella sera aveva trovato l' abito turchese già adagiato sul letto, come un morto in attesa di degna sepoltura, e il pacchetto degli orecchini lì accanto.
Davanti a sua madre aprì la busta – per una vita felice amore mio, insieme- era sempre la stessa frase, quella di vent’anni prima pronunciata sottovoce, urlata poi e taciuta adesso.
- Ma te la senti?- le aveva chiesto sua madre preoccupata da tutta quella calma, incredula di fronte a quel far finta di nulla e andare avanti.
Lei non rispose, scrollò le spalle magre e si infilò sotto la doccia bollente.
Impietrita sotto una la massa d’acqua pensava al viso di lei, a quella ragazza rotonda e assai bellina che lo aveva affabulato con l’idea di una relazione nuova, con i suoi giochini che fra una riunione e l’altra, fra un’assemblea e un brain storming avevano risvegliato il suo “cinquantenne” ormone stanco, incapace di rassegnarsi alla futura e certa impotenza senile.
Cancellò dal viso pianto e dolore cercando di tirare su gli angoli della bocca, delusi e imbronciati, e li nascose abilmente dietro in un ghigno di falsa gioia e uno sguardo più che meravigliato, incredulo.
Davanti allo specchio strinse più che poté la cintura alta attorno alla vita sottile e mise ai piedi le scarpe più giuste.

Correva ancora quando si accorse che l’auto della polizia le stava dietro e tirò fuori dalla tasca un grosso coltello: il sangue alla luce dei lampioni brillava di un rosso chiaro; pensò che forse era diventato un po’ anemico, che forse avrebbe dovuto rifare le analisi del sangue o che doveva ripetere la cura di ferro, la stessa di un paio d'anni prima.
Poi le vennero in mente gli ospiti che aveva abbandonato a tavola senza nemmeno salutare e le venne da domandarsi se non avesse scelto il momento sbagliato.
Pensò che forse avrebbe dovuto aspettare il dolce e infine si rimproverò per non avergli lasciato concludere la frase.
Guardò ancora i suoi occhi nel piccolo specchio da cipria e si domandò se non fosse il caso di domandargli scusa.

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