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mercoledì 26 marzo 2014

Niente di che

Martina era rimasta così, distesa pancia sotto, un braccio penzoloni dal letto, guardava nel buio il niente o chissà.
Non si erano scambiati nemmeno una parola. Non aveva osato guardarlo. Neanche quando si era alzato, subito dopo, per correre al bagno.
Martina aveva paura potesse sfuggirle una parola di troppo, che dopo quella performance fiacca e noiosa le venisse finalmente la definizione più giusta per quella relazione. Ci ragionava sopra da settimane. O forse, aveva cominciato sin da subito a cercarne il senso.
Diffidava degli uomini pieni di pregiudizi.
Martina diffidava anche di quelli che diffidavano del proprio sperma. Il sesso per Martina aveva un odore troppo buono per pensare di lavarselo di dosso. Le piaceva andare in giro profumata di sesso. Era convinta che l’universo mondo potesse considerarla di più e meglio se odorava di sesso. Sosteneva che i lavori migliori li aveva ottenuti dopo essersi masturbata di corsa prima di uscire di casa, o dopo averlo fatto nelle toilette degli uffici dove cercava di farsi assumere. O nel bagno un po’ lercio del bar all’angolo. Perché c’era sempre un bar all’angolo o di fronte. Martina affermava anche che il “Man” l’aveva sentito subito quell’afrore speciale, targato “Martina segretaria full time”, e che per questo l’aveva assunta. Sosteneva anche che per la stessa ragione si era dovuta licenziare, ogni volta che lo stesso “Man” le saltava addosso, a fine turno, al venerdì sera, quando l’aria inizia a odorare di avventura già dalla pausa pranzo. Anzi, forse fin dal primo caffè della giornata.
            Sentì che apriva i rubinetti della doccia. Il tipico scroscio di acqua bollente che chiama la bestemmia. Ma lui non era un uomo da bestemmia.
Lo immaginò passarsi il filo interdentale tra i denti bianchissimi. Una volta fu in grado di girare più di dieci farmacie di turno per trovare quello giusto. Lasciandola ogni volta in attesa. Anche la sua automobile sapeva di disinfettante.
Allungò il braccio e toccò il display del cellulare. Diede una rapida scorsa alle notifiche, sempre troppe e sempre inutili, diede un colpo di tosse. Forse soltanto per manifestarsi.

Si erano rivisti in montagna. Sulla montagna. Proprio in cima.
Martina stava disegnando. Se ne stava lì a seguire le vette, una per una, cercando di non perdersi, di far sì che la matita non segnasse percorsi sbagliati. Lo faceva fin da bambina.
Ogni anno sceglieva un punto di vista diverso.
Martina sosteneva che la montagna cambia a ogni passo.
Era un rito consolidato quello di starsene in posizione di mezzo loto a disegnare le vette. Così come che sua madre la chiamasse almeno tre volte dal rifugio, e che fosse infine sua sorella a portarle, fin lì dove si era sistemata, roccia o prato, il panino con specialità della zona.
Tanto per cambiare quel mattino di agosto era variabile. Il tempo sadico delle vette nostrane, che quando finalmente ti spogli, seppur diffidente, quando ti sei disteso e cominci a sognare, arriva una nuvola, gonfia, scura e solitaria. E il vento d’improvviso smette di soffiare.
Ma quella volta non fu la nuvola a metterla in ombra.
L’uomo che la guardava portava pantaloni alla zuava, calzettoni di rigore e scarponi di gran marca, nuovi di zecca. Mancavano le bretelle. Se avesse iniziato a prendersi a calci nel culo sarebbe stato perfetto per quel paesaggio.
Martina non si ricordava di lui. Non riusciva a mettere insieme la figura opaca di un bambino incontrato a un veglione di carnevale trentacinque anni prima, vestito da Peter Pan, e l’omone che di lassù la guardava e sorrideva.
Non glielo disse, e facendogli posto sulla pietra liscia da cui aveva deciso di scrutare cielo e orizzonte, si spinse anche più in là, domandandogli di suo fratello. Un buon modo per trovare qualche indizio. L’imbarazzo che si creò quando lui le chiese a quale dei quattro si riferisse, fu interrotto da una folata di vento, che fece volare via il foglio e fece alzare lui a rincorrerlo.
Ebbe modo di ragionare e di capire chi fosse solo quando lui le parlò di chirurgia plastica, del suo lavoro che lo impegnava più di una moglie che, infatti, lui, non aveva.
Lì in montagna, né sulla montagna né giù in paese, non successe nulla tra loro.
            Martina si era fatta furba, sempre attenta a mettere in atto giochetti da rotocalco femminile: le attese, le pause, in amor vince chi fugge e tutte quelle puttanate lì che, purtroppo, spesso, funzionano anche. Gli concesse soltanto una pomiciata sul prato, al tramonto. Un bacio che sapeva di colluttorio alla menta, più che altro.
            Martina sosteneva che il bacio fosse tutto. Lo sapeva per istinto che è lì, nell’incontro tra due lingue, che parte il giro di giostra. Come sapeva, che il bacio più saporito sarebbe rimasto per sempre quello dell’amica del cuore, che l’aveva fatto scherzando, solo per prova, prima di chiunque altro.
E il bacio di quell’uomo era disattento.           

In bagno c’era silenzio. Che fosse morto? Si domandò Martina.
Diede un’altra occhiata al display e un altro colpo di tosse.
Ascoltò il silenzio e seguì le linee tono su tono della moquette.
Mosse il braccio un paio di volte, quasi che sotto il letto ci fosse lo specchio di un lago.
Decise di andarsene.
Tre minuti dopo scendeva le scale infilando cappotto e cappello. Sette minuti più tardi infilava la chiave nel cruscotto e partiva sgommando. Come un ragazzo di strada esibì la potenza del motore e del suo cuore in tumulto. Bruciò tre rossi. Prese almeno tre multe. Forse avrebbero dovuto ritirarle la patente.
Ma Martina era troppo bella così arruffata, il trucco sfatto e l’aria rassegnata di chi non cerca nemmeno più protezione. Che è ormai alla deriva, ma con un bel paio di cosce sode e la camicia abbottonata male, proprio come una che sia appena scappata da un Motel. Dopo venti minuti, Martina parcheggiava sotto casa, a metà sulle strisce pedonali. Esausta si guardò nello specchietto. Fece ondeggiare un paio di volte il caschetto bruno e sorrise.
            Diede un’altra occhiata al display. L’aveva chiamata già dodici volte.
Usava il cellulare come usava il suo cazzo. Ripetitivo. Pedante.
Martina era convinta che l’uomo pensasse a ben altro quando stava su di lei. Proprio a qualcosa di diverso, forse ai punti di sutura di un’operazione. O a nuove tecniche di drenaggio.
Martina chiudeva sempre gli occhi quando facevano l’amore. Lui, anche. Ma questo Martina non poteva saperlo.
Salì le scale a piedi. Cinque piani. L’ascensore era rotto.
Mise il cellulare in mute e lo vide illuminarsi e vibrare. Lo teneva d’occhio e meditava su ciò che avrebbe voluto fare.
Ripensò alla fatica per averlo. Lui e quell'attaccamento alla sua solitudine. A quella finta libertà da vaschetta monouso, a cena, sulla tovaglia di carta in cucina. Martina pensò a quanto fosse freddo e inospitale il suo cuore.
Martina si era sempre detta che le marchette si fanno per contanti e per una notte sola. Che un vincolo è per sempre e che spezzarlo è sacrilegio. Che un vincolo vuole promesse da rispettare.
Che la vita è una ma l’amore no. Per fortuna.
Martina sosteneva che nessun uomo è meglio di uno che non è niente di che.
Con un tempismo eccezionale, invece, il messaggio arrivò: Metti i documenti in ordine e partiamo.
Decise in pochi attimi: Va bene.

Martina sosteneva che l’incoerenza fosse un dono del signore.

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