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domenica 9 febbraio 2014

Sindrome da anniversario

(Foto: Man Ray)

Pioveva. Pioveva così forte che per sentire qualcosa dovette tapparsi l’altro orecchio. Pioveva e tuonava tanto che all’inizio non aveva nemmeno capito bene di che cosa si trattasse finché l’altra, la donna all’altro capo del telefono non ripeté la frase lentamente. Anzi, perché anche sua madre ascoltasse, se la fece dire un paio di volte ancora.
Era talmente incredibile la conclusione di quella giornata convulsa e di tutta quella storia, che aveva bisogno di almeno un testimone. Un testimone di eccellenza in quel caso.
Ma forse aveva capito tutto appena la sconosciuta aveva chiesto «È lei la signora M.?».
E chissà perché, poi, quando la sconosciuta le aveva domandato se avesse capito, e anche dopo, quando si era scusata prima di riagganciare, non aveva pensato di domandarle chi fosse e perché proprio lei l’avesse chiamata per darle quella notizia.
Che stupida, si disse battendo la mano sul tavolino su cui erano appoggiati telefono, penna e notes. Forse lui l’aveva pagata. Forse era soltanto una donna incontrata per caso, magari una vicina di casa, una conoscente, un’amica. Ma alla fine non era importante, anzi, tutto quel ragionarci sopra era una perdita di tempo, un modo come un altro per non dire a sua madre di annullare tutto e provare a se stessa che quella storia era inverosimile.

Si lasciò cadere sulla poltrona accanto al telefono e rimase a fissare il blocco pieno zeppo di disegni.
C’erano stelle, stelle marine decorate da cerchi concentrici disegnati con magnifica precisione, e fiori, linee parallele tracciate con mano ferma, più sottili e più spesse. Cuori, cuori neri e trafitti, cuori bombati e piatti.
Pensò fosse stata sua madre a disegnarli, proprio come aveva fatto tante volte anche lei, distrattamente, lasciando che la sua mente vagasse altrove mentre parlava di amore, sesso e promesse tradite, seduta esattamente lì, forse con la medesima espressione immobile.
In quel momento la odiava. Odiava sua madre di un odio così grande da volerne intuire appena la potenza, da temerlo, più che altro.
Le parole pronunciate dalla donna aleggiavano ancora lì, tra telefono, notes e penna. La voce anonima gliele aveva ripetute con tono freddo, come chi legge al mittente il testo di un telegramma perché ne verifichi l’esattezza, senza che dentro ci fosse nemmeno l’ombra di un giudizio, nemmeno un filo di compassione. O forse sì, ma ben nascosto.
Poi si accorse che anche sua madre era rimasta impietrita. La fissava con un’espressione attenta, la stessa che aveva mentre la teneva d’occhio quando da bambina saliva sulle giostre o in altalena, l’espressione di chi si appresta ad accorrere, in allarme ancor prima che la caduta avvenga, che la tema tanto da farla prima o poi accadere. In piedi sulla porta della cucina aveva la stessa espressione di ansia mista a rassegnazione che le vedeva in faccia il sabato sera, quando finalmente, dopo una settimana di scuola, poteva uscire con le amiche adolescenti e con rientro alle ventidue.
L’odio che sentiva allora, quando tirava fuori trucchi e sigarette bene nascoste nel controsoffitto dell’ascensore, o quello covato qualche anno più in là, quando le impedì di partire per infilarla nella schiera dei precari, non somigliava neanche un po’ quello che provava seduta lì, in quell’istante, con le parole dette dalla sconosciuta che suonavano più o meno così: scusami, lo sapevamo entrambi che sarebbe finita, non farti del male, non è successo niente, la vita continua.

Alla fine era successo. Forse non proprio come l’aveva previsto, ma era successo.
Nella sua immaginazione, nel flusso silenzioso della coscienza, nell’oscurità delle paure inconfessabili e del suo pensiero muto, lui glielo diceva di persona, guardandola negli occhi, forse anche in una lunga e mail. Certamente non per sms.
D’altra parte ce n’erano a migliaia di storie come la sua, anche più dolorose, e accarezzò in un gesto sbrigativo il tessuto plissettato dell’abito color champagne.
Aveva letto di un uomo, per esempio, che era morto andando fuori strada esattamente com’era successo al proprio padre, trentadue anni prima, mentre correva in clinica per vedere lui. Sapeva di un altro uomo, che a tavola si era alzato d’improvviso portandosi la mano al petto colto da infarto, lo stesso giorno dello stesso mese e alla stessa età del proprio padre. Seduto alla stessa tavola, nella stessa casa e davanti alla stessa persona.
Ma c’erano tante altre storie di quel tipo lì.
Dopo tanti anni, sui social network aveva incontrato compagne di scuola le cui tracce di coazione a ripetere erano così lampanti da sembrarle ridicole. Una, per esempio, ragazza madre non per scelta, preda di uomini violenti e come la madre totalmente passiva. Un’altra, invece, sembrava felicissima dei suoi parti e del padre dei suoi cinque bambini, uomo egocentrico e vanitoso, e come suo padre gran puttaniere. Ne aveva riso per giunta. Aveva preso uno per uno quei profili, trovando in essi coincidenze così evidenti da sembrarle inverosimili.
Brutte trame di storie brutte, si era detta.
Che si chiamasse sindrome dell’antenato o da anniversario, o karma, in quel momento non aveva nessuna importanza.
Sapeva soltanto che sua madre continuava a fissarla in quel modo che non sopportava, che fremeva nella carne e che desiderava tornare a cinque minuti prima, non ascoltare lo squillo del telefono, quella voce estranea e quella notizia.

Forse, pensò, non sarebbe più stata in grado di alzarsi da quella poltrona. Non sarebbe più stata capace di parlare, si ripeté nella bocca amara.
Quando invece si alzò, l’abito da sposa frusciò lentamente dietro il suo sguardo ancora incredulo. Lanciò verso sua madre un’occhiata furente. La madre si fece in disparte prima avviandosi poi verso la camera da letto, una mano sulla bocca per impedirsi di urlare, di dire quella sciocca ovvietà: che il proprio destino si era infine ripetuto in quello di sua figlia, abbandonata anche lei il giorno prima delle nozze.
Andò in cucina e aprì il frigorifero. C’erano ancora parecchie bottiglie di champagne. Ne stappò una e andò alla finestra. La spalancò. Respirò a fondo, bevve un lungo sorso e guardò il rosso del tramonto mescolarsi al buio.
Aveva smesso di piovere.

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