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martedì 11 giugno 2013

Come una bambola

Foto: Marc McAndrews

«Non ricordo nemmeno più quale fosse stata la miccia che quel giorno aveva innescato la lite. Forse una goccia minuscola, la famosa ultima parola... » e prese il cellulare che teneva appoggiato al tavolino per lanciarlo nella borsa, in un gesto di paziente rassegnazione molto simile alla sua espressione, «...o forse era stata una minaccia. Un’altra ancora.
Però ricordo che la mia vita era ricominciata proprio pochi istanti dopo, era stata la meraviglia di ritrovare il mio braccio immerso in una lama di luce e in un pulviscolo di creature dell’aria, a risvegliarmi dal torpore in cui vivevo da sei anni». Nadia alzò lo sguardo e allargò la bocca in un sorriso che rivolse al finestrino e al paesaggio piatto e incolore che gli scorreva dietro. Strinse gli occhi un istante e sorrise ancora, stavolta verso il basso, alle punte dei suoi stivali rossi da cow girl, mimando un’espressione ironica e divertita «Polvere! È soltanto polvere, cretina!, Mi avrebbe risposto lui se avesse potuto parlare», poi mi guardò per bene cercando in me una reazione.
Dopo un paio di digressioni sul mio taglio di capelli, e sulla camicetta bianca che lei aveva “uguale uguale”, la mia compagna di viaggio riprese a raccontare.
«Nella luce che riempiva la sala da pranzo, mi prese una strana voglia di ballare. Sì, una voglia un po’ pazza... » e mi agguantò il ginocchio per salire e scendere sulla mia coscia un paio di volte, quasi fossi stata lì presente e potessi richiamare alla memoria quel ricordo, o  sapessi bene di cosa parlava. Un gesto che diceva: siamo un po’ tutte uguali, cantiamo felici per casa facendo pulizie mentre vorremmo essere da un’altra parte. «Comunque» riprese seria «dopo due passi di samba, ripassai le posizioni base della danza, e che forse ricordavo anche male, per fermarmi in seconda, usando la credenza come sbarra. Poi decisi di fare tutto ciò che facevo abitualmente, proprio come se lui dovesse tornare alle tredici e quaranta, puntuale, mai prima né in ritardo».
Immaginai la mia interlocutrice spazzare il pavimento usando la scopa come microfono, mimare il mood della popstar in questione infilandoci dentro strofe sbagliate. La infilai in un piccolo appartamento assolato e pieno d’inutili soprammobili e in una vestaglia verde pistacchio, i capelli mossi intrappolati in una pinza massiccia e in faccia uno stralunato buonumore.

«Sì, dovevo rifare il letto e mettere a posto casa. Volevo che fosse tutto in ordine: Perché non stai qui a prendere aria!, mi avrebbe urlato in faccia se solo fosse stato presente in quell’istante, mentre perdevo tempo cambiando stazione radio».
Nadia s’infilò il pollice nella bocca grande e rimase qualche istante a guardare lontano, oltre il sedile di fronte e i corpi degli altri passeggeri, superando le dieci carrozze che ci speravano dalla motrice e ancora più in là, fino a sei anni prima e al Pub, «Una sera che assieme a Tizi e Monia giravo per le vie del centro fatta di birra e piena di cattivi propositi. Tutto è successo tra birra e paroline sussurrate all’orecchio. Poi c’è stato tanto Pop romantico, tanto pane, amore e fantasia, una fantasia che a lui proprio non mancava. C’era stato tanto Ferradini che mi cantava a ogni mio “no non mi va”. Perché lui non ci voleva proprio credere ai miei “mi fai male”. A ogni minaccia di separazione corrispondeva l’umiliazione: vai! Vattene cretina! e m’indicava la porta, sorridendo, con la faccia di chi sta per essere liberato da una costrizione mostruosa e opprimente».
Nadia cercava le parole nel grigio assonnato della campagna Piemontese, stringendo lo sguardo miope verso un altrove ancora più scuro del cielo, provava a tirare fuori spiegazioni plausibili e più o meno sincere «Vai! Imbecille! Mi urlava tra una pausa e l’altra, quando gli ripetevo che bastava così, e che se mi avesse lasciata un attimo in pace domani avrei fatto di più e meglio, che non ce la facevo, e che avevo bisogno di fare due passi. Di chiudere la bocca, di serrare le gambe. Di camminare da sola.
Ma guarda che da quella porta non rientri più eh!
Sì, non rientrare mai più in casa... » disse, e fissò i suoi occhi pieni di speranza e sgomento nei miei «ogni volta che ci pensavo a non tornare più, provavo un senso di libertà infinita e di gioia soffocante».
Ma era andata anche oltre Nadia, era arrivata anche a scendere un paio di rampe di scale. Era stata capace persino di alzare la voce –se non c’era nessuno, se sapeva che a quell’ora il palazzo era deserto.

«Come facevo ogni giorno, anche quel mattino abbassai le tapparelle e accesi un incenso. Uscita dalla camera da letto mi assicurai che fosse tutto perfettamente in ordine.
Anche se in ginocchio ci finivo lo stesso, lì in bagno, a pulire il cesso con la lingua ci dovevo stare almeno una volta alla settimana», e rivolse lo sguardo lucido e arrossato verso l’alto, verso il cielo plumbeo e decisamente sordo alle sue preghiere.
L’incubo iniziava al venerdì sera, quando lui si faceva tre doppio malto di seguito e la costringeva a fare video da caricare su youporn, «Amava esibire il suo cazzo come il più prezioso dei trofei cui aspirare», concluse con un’espressione di vergogna infantile coperta da un lembo d’ironia.
«Perché io ti ho scelta per come sei fatta!, Cretina!, Mi urlava dalla doccia o dalla cucina, in un momento qualunque della giornata e senza che nessuno gli avesse domandato niente.
Perché io ti ho capata nel mucchio per quell’attrezzatura che ti porti addosso... non per il cervelletto che tieni».  E cambiando espressione, Nadia tirò fuori dal portafogli alcune foto sbiadite. Il giorno della sua laurea in Medicina. Doveva essersele passate tra le dita talmente tanto da consumarle.
Immaginai appartenessero alla sua vita perfetta quelle foto, a quando lui era ancora gentile e le cingeva con attenzione, come fosse stata una bambola di porcellana.
«Ero una bambola e basta. Una bambola gonfiabile e nient’altro. Una roba dove c’infili frustrazioni e astio e poi ti senti meglio. Solo che non paghi! E lo stesso avrebbe fatto quella mattina, senza domandarmelo, mentre badavo al sugo e apparecchiavo la tavola. Incominciava e finiva che gli prendeva la fregola improvvisa, e mi usava, per poi lasciarmi al buio senza una parola, come se tirarsi su la lampo dei pantaloni fosse la sua unica priorità e la sola cosa da fare. Perché a volte non basta, gli dicevo io con dolcezza, quelle volte che fingeva comprensione e affetto. E allora andava a puttane! Andava a puttane e mi svegliava in piena notte facendosene una davanti a me, per sfregio, per cattiveria. Per niente.
I suoi regali erano biancheria volgare e sex toy. Le vacanze solo in Club esclusivi per scambisti e villaggi per nudisti con festini quotidiani». Nadia si passò una mano sulla fronte come presa da un’improvvisa stanchezza.
«Non mi ha domandato mai se ci volevo andare» concluse in un fiato solo «ma forse gli avrei risposto di sì... ».

Nadia si era vista diversa, come nemmeno sapeva più, come nemmeno era più  in grado d’immaginare. Medico, forse, o insegnante di danza per bambine minuscole dalle minuscole gambette. Sarebbe rimasta a casa, forse, magari avrebbe fatto dei figli.
«Perché dobbiamo diventare una coppia come tante?, mi diceva se avevo un ritardo, se gli manifestavo la mia voglia. Poi mi strattonava fino alla stanza, quella dei “giochi”, piena di cavalletti, cinghie, fruste, crocifissi a dimensione umana e dove si divertiva a legarmi per mostrarmi a chiunque volesse spendere un po’ di soldi in coca e che capitava da noi a qualunque ora del giorno e della notte».
Nadia bevve un lungo sorso d’acqua e poi riprese «Le volanti le aspettai al portone. Avevo copia delle prime tre denunce e delle perizie che mi ero fatta fare al Pronto Soccorso: otto. Me l’aveva detto Monia, aveva insistito: vacci, magari un domani ti servono o magari no».
Era successo all’alba, dopo l’ennesima marchetta che lui le aveva imposto, dopo che il mezzo maiale che l’aveva voluta sculacciare fino all’alba se n’era andato. Il marito era ubriaco perso, rilassato. Lo aveva preso alle spalle e legato con il nastro da pacchi, poi gli aveva infilato in bocca due paia dei propri slip e l’aveva lasciato lì a piangere e pisciarsi addosso.
Gli avrebbe tagliato volentieri la gola, mi disse infine carezzando la borsa firmata e ripescandoci da dentro il cellulare.

L’accompagnai aiutandola con i bagagli. Si chiamava Nadia la mia compagna di viaggio, ma questo l’ho già detto. E questa è la sua storia.

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