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giovedì 7 aprile 2011

Occhi nero carbone


Non sapevo bene chi rincorressi quella sera, cosa, e non sapevo nemmeno in quale direzione andare, dirigere i miei passi così incerti.
Generalmente, in quello stato,  prendevo una traversa qualsiasi di Via del Corso e andavo dove il vento mi spingeva, verso dove sentivo più silenzio, dove le ombre dei palazzi mangiano la strada lasciando al sole solo brevi spazi, strette corsie, lame di luce affilate sulle quali stare in equilibrio.
Non era una sera come un’altra, c’era qualcosa di diverso, forse l’aria che cominciava a cambiare, la luce che si tingeva di nuovi colori, lo sguardo di lui nella mente e la sua ostinatezza nel fingere di non sapere nulla.
Mi sentivo così invisibile agli occhi di quell’uomo da dovermi ritrovare in ogni vetrina della città, ossessionata dall’idea che se non fossi stata niente per lui non lo sarei stata neanche per me stessa.
E ogni passo mi raccontava la sua crudeltà e la sua profonda fragilità e quella presenza ancora più pesante nei suoi silenzi, nelle lunghe assenze, negli sguardi che mi rivolgeva, privi di espressione, indifferenti.
Camminavo solo per perdere tempo fino a domani.
Senza quel dolore giornaliero credevo di non poter più esistere, senza quella febbrile occupazione non avevo scopo, senza il suo sguardo che non mi vedeva, non avrei potuto più cercare me stessa con tanta tranquillità.
In un sottile armadio decò intravidi la mia figura perfettamente intonata allo stile, e sempre più rarefatta, saziata da quell’illusione sciocca anziché dal cibo.
Decisi quindi che sarebbe stato meglio tornare a casa, prendere un buon libro e nutrirmi della passione altrui, di parole dentro le quali avrei trovato conforto, forse anche un buon consiglio.
Ritornai sui miei passi e in un vicolo, vicino a una fontana, lo vidi. Lui si voltò appena, aveva lo sguardo rassegnato, quello di chi non crede all’amore a prima vista, all’empatia degli umani così presi dal loro tramestio giornaliero per la sopravvivenza.
Aspettai che avesse finito e mi chinai anch’io per bere, per condividere con lui almeno quel breve attimo di esistenza.
Quando alzai lo sguardo vidi che, rasente il muro, camminava nella mia stessa direzione annusando l’aria, colpito come me dalla nuova stagione che arriva, dai suoni che all’imbrunire sembrano diradarsi, per lasciare più spazio alla malinconia di certi ricordi.
Decisi di seguirlo, volevo vedere dove andava, e se anche lui era rimasto come me senza nessuno al fianco, una guida, senza nessuno che gli desse il giusto conforto.
Forse si era accorto della mia presenza perché, di tanto in tanto, si voltava per assicurarsi che ci fossi, che lo seguissi ancora o forse, si domandava come me se non dovessimo magari invertire i ruoli e diventare io preda come forse, in certi casi è più giusto.
Ora che dal divano mi lancia sguardi d’affetto, benedico quella sera di perfetta solitudine, quell’imbrunire così malinconico da far sì che rivolgessi lo sguardo altrove, in quel vicolo tortuoso e oscuro.
E così, guardandoci timidamente solo a tratti, arrivammo fin sotto casa. Camminava davanti a me e sembrava  conoscere la strada quasi l’avesse percorsa da sempre.
E vidi in lui la perfetta medicina per la mia mancanza di autostima, il giusto sostituto di un uomo egoista e incapace di amare.
Non dissi nulla, non ce n’era bisogno -ci sono relazioni che nascono d’incanto, dove basta un gesto appena accennato per capirsi -, e io e lui eravamo complementari e giusti, era evidente.
Aprii il portone e lo lasciai entrare.
Una volta in casa si guardò attorno con discrezione, come chi comunque diffida e aspetta una parola, un definitivo gesto d’amore.
Sedette lì dove con un cenno del capo gli avevo indicato, mi guardò in silenzio mentre preparavo la cena,  il suo angolo per la notte, il bagno.
Da allora sono passati quattro anni, e lui mi guarda ancora, e allo stesso modo, le mie carezze si sono fatte più certe: stavolta non verrò tradita, messa da parte come un bell’abito liso e troppo visto.
A lui non posso nascondere i miei sentimenti, nessuna menzogna alimenta dissapori e anche quando provo a nascondere il dolore che troppo spesso mi si dipinge in viso, lui mi segue con lo sguardo e non domanda niente.
Si chiama Dog, così mi pare di avere capito, quello comunque, mi è parso il nome più giusto per un bastardo qualunque dagli occhi nero carbone.

6 commenti:

  1. Effetto sorpresa, tensione e sorpresa finale, esplosione di senso finale, bella ma amara, all'insegna della implacabile solitudine umana (se ho capito)

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  2. hai capito sì. sapevo che questo piccolo esercizio ti sarebbe piaciuto... ;)) inizio ad approfondire le tecniche del noir..

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  4. Aprii il portone per lasciarlo entrare/il bastardo Dog...

    Dog, evocativo di mille immagini.

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  5. Sono commossa. Non so che dire. Elena, puoi immaginare il perché: questi occhi vagabondi dei cani abbandonati mi somigliano; m'intendo al volo con loro.

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  6. grazie Massimo...vero, sempre ambigua. Diletta cara, te l'ho postato per questo, un pochino anche se solo virtualmente ti conosco.

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