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giovedì 3 luglio 2014

Perdite

Sabri, operaio egiziano padre di sei figli, saggio e rassicurante come una quercia secolare, mi ripeteva che con questi cellulari, computer e derivazioni elettroniche avremmo finito col non ricordarci più nulla. Nemmeno il nostro nome.
Certo, pensai all’epoca, che dopo aver portato a mente monologhi di Corneille e fitti dialoghi di Moliere, tutti con tempi comici da rispettare, mi sarei ritrovata a svegliarmi ogni giorno madida di sudore nel mezzo di un incubo ricorrente: il “chi è di scena”, la platea piena zeppa di pubblico e io che non ricordo un bel niente. Nessun costume e un copione in mano, però senza titolo pieno zeppo di parole.
Oggi non sono convinta che le tecnologie tolgano capacità mnemonica, penso invece che liberino spazio della nostra mente, occupato in passato da numeri di telefono, indirizzi e nomi, oltre che da una grande quantità di nozioni scolastiche di cui non abbiamo mai saputo che fare: tipo l’estensione geografica di certi stati, il genere di coltivazione dei singoli Paesi, o la densità di popolazione che cresce ormai così tanto da doverla ricontare ogni giorno.
Numeri di telefono segnati prima sulla rubrica di casa e poi ricopiati con calligrafia fitta sull’agendina da taschino, come quella di mio padre, scomparso prima dell’era 1.0, e su cui trovai segnati soltanto quattro numeri, quelli che lui chiamava “vincenti”, i nostri, scritti sotto la “c” di cuore.

Io, a parte lo sforzo sovrumano fatto durante il periodo in cui lavoravo in teatro, recitando parti importanti per numero di battute ma anche per presenza in scena, sono per natura distratta. Dimentico tutto ciò che non rientra nelle mie priorità. Geografia, toponomastica e nomi, non mi sforzo neppure di ricordarli. Ci sono cose, come la matematica, per esempio, che non ho mai pensato neppure di studiare. Ricordo però alla perfezione facce, modi di dire, case, strade, cose dette, silenzi imbarazzanti.
Dimenticare, o meglio evitare del tutto d’imparare qualcosa che non mi sarà mai utile, è per me un esercizio naturale. Scarto a priori qualsiasi elemento possa occupare inutilmente spazio nel mio cervello.
Ricordo che una volta, con un tipo, uscimmo per fare delle foto. Era un bollente pomeriggio di agosto e tra villa Torlonia e quartiere Trieste passammo un pomeriggio felice. Ci baciammo anche, mi ricordo. Tornata a casa mi accorsi che non avevo infilato il rullino nella macchina fotografica.
Eppure, non ci sono foto e istanti di quella giornata che non ricordi ancor oggi.


Ci penso perché ultimamente ho incontrato qualcuno che era indelebile nel mio ricordo e che invece mi aveva dimenticata. Perché io stessa dimentico e perdo qualsiasi cosa, e dimenticanza e perdita vanno a braccetto. Se dimentico una persona, la perderò. Così come se dimentico di fare il backup al mio HD presto o tardi perderò il suo contenuto, come mi è successo alcuni mesi fa, perché come per la morte, si pensa che certe cose possano accadere soltanto agli altri.
Eppure, fatto salvo il dispiacere di aver perso file di racconti, foto (tutti gli autoscatti fatti durante la prima stesura di Justine 2.0) e migliaia di appunti, mi sono resa conto che, se da un lato il computer nuovo e completamente vuoto mi ha gettato nel panico, dall’altro mi ha ridato linfa vitale. Come se azzerando tutto, eliminando un passato d’imprese fallite e matrimoni e relazioni, di risalite mai seguite da discese ardite, mi fossi levata di dosso una pesante nube tossica.
Dimenticare può essere salutare.
A volte perdere qualcuno è una salvezza.
Rassegnarsi a ricominciare da zero per alcuni è destino, per altri, una giusta soluzione per fare di più e meglio.

L’attaccamento a ciò che produciamo e siamo, un cumulo di esperienze buone o cattive, può sembrare un’ancora di salvezza che, a guardarla da un altro punto di vista non è che un’inutile zavorra.

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