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domenica 23 giugno 2013

Panico

Forse, il panico è un’aggressione emotiva e irrazionale di una parte di sé, una parte dormiente e oscura, sulle altre. Oppure è la felicità che si ribella quando noi la rendiamo infelice, costringendola a una vita non nostra. Non so nemmeno quali origini abbia, il panico, né quale sia l’avvenimento, immagine, odore o suono, che lo risveglia.
Di lui, maschile e singolare, conosco forma e colore, voce e passo.
È arrivato un giorno prendendomi alle spalle, con violenza. Come un innamorato molesto mi lascia ancora senza fiato, a volte, sempre meno. Forse è stata la mia reazione indifferente ad aver placato i suoi bollenti spiriti, forse la propensione ad arrendermi a ciò che non posso vincere, o l’attitudine spirituale all’accettazione del dolore come pagamento per il male inflitto (chissà quando a chi o perché). Forse è stato il mio desiderio di accoglierlo e capirlo, anziché combatterlo, a renderlo sempre più tollerabile.
Il Panico è un film dell’orrore di cui ognuno costruisce la trama. Un Thriller mozzafiato che si arricchisce ogni volta di uno o più particolari. Il mio panico è una pellicola tagliata in più punti e di cui non vedo mai il finale.
Il mio horror inizia in ascensore con titoli di testa appena sfocati e un suono disturbato, una stazione radio che perde d’improvviso la frequenza. La luce è sempre pallida, lampadine a basso consumo appena accese, neon che frigge zanzare e falene e che sa tanto di obitorio.
Il pavimento -casa, strada, vicolo o piazza- si muove nonostante me. È un terremoto psichico in cui, senza più punti d’appoggio, barcollo verso una direzione incerta. La casa diventa estranea e così la strada –sempre quella sotto casa- una prova di coraggio piena zeppa di tranelli.
Il semaforo, ad esempio, lampeggia un giallo per pedoni che sa di tradimento, che nasconde l’intenzione di diventare rosso proprio quando mi trovo a metà tragitto. No, non lo ammetto, è ovvio, nascondo anche a me stessa la fobia pazzesca che mi tiene in ostaggio e prendo tempo, mi metto alla ricerca del cellulare che proprio non serve, delle chiavi, che ho appena riposto nella tasca esterna, della scusa più giusta per costringermi ad aspettare e passare con il verde fisso. Il vicolo, che conosco come le mie tasche, pare non avere fine e volersi gettare nell’oscurità, e quei pochi passi, la distanza tra il portone e la panetteria che normalmente percorro in un fiato, diventa un oceano di angoscia. Il panico è terrore infantile che suda freddo.
Il panico non si può raccontare, se sono ancora viva non posso dichiarare di essermi appena vista morta.
La piazza, assolata o imbrunita da un tardo pomeriggio pieno di gente, diventa crudele. La piazza di sempre, a due passi da casa e che di notte guarda la luna, si contrae e si espande. Per effetto di un grandangolo mentale diventa nemica, e anche il bar, quello solito, assume un aspetto spettrale. Il tempo perde battiti (e così il cuore), e già lo vedo espandersi per diventare oblio di morte.
Non ho corso, ma mi sento in affanno.
Il mio panico dai colori spenti brilla, nell’oscurità o in piena luce, di rosso sangue: l’auto m’investirà, il vicolo m’ingoierà, la piazza mi soffocherà. Nel bar, dove vado ogni mattina, qualcuno mi accoltellerà. Il gatto, nella mia mente ormai una tigre, mi sbranerà. Allora immagino ambulanze e il mio corpo disteso, la mia bara e gli amici attorno che piangono.
Il mio panico ha rumori ovattati o fortissimi. Dura manciate di secondi che sembrano anni. Nel bar decido di usare il rallenty e molte comparse. C’è gente che conosco, sì, ma sembra che proprio tutti mi guardino. Nel bar, anche la solita battuta suona volgare e rozza.
Pago. Nonostante abbia toccato il portafogli già diverse volte, penso di averlo perso. No, è qui, eccolo finalmente. Conto il resto, ma stavolta con angoscia.
Mi defilo stando un po’ curva e rasentando finché posso la parete, guardo il vuoto che ho davanti e che si fa più desolante. Rimbombano troppo i miei passi nel vicolo stretto. Lì, in quell’angolo oscuro accanto alla siepe, un nemico è in agguato.
Anche le chiavi di casa –toccate un istante prima- si nascondono in borsa e tra le mie stesse mani.
In ascensore riprendo a respirare. Chiusa la porta mi sento di nuovo al sicuro. Mi lascio scivolare sul pavimento: non ho più forze. Mi domando se la prossima volta saprò riconoscerlo.

6 commenti:

  1. Purtroppo saprai riconoscerlo ma forse era meglio non saperlo riconoscere, perché riuscire a riconoscerlo ma non riuscire a combatterlo diventa un'impresa sempre più ardua e frustrante. Diventa paura della paura, un cane che si morde la coda, un circolo vizioso in cui ogni piccola sconfitta spinge sempre più verso l'oscurità e dove ogni piccola vitoria ha il sapore della rinascita..
    Silvia

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  2. Come ho scritto, credo che ognuno abbia il proprio metodo. Il mio è stato quello di riconoscerlo e accoglierlo. Normalmente non combatto, sia per fede che per carattere, finché l'ho combattuto l'ho temuto. Infatti, mi sta alla larga. ;)

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  3. Accoglierlo e comprenderlo, sono d'accordo in fondo é una parte di noi. @poverotroviero

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  4. Anche facendolo diventare letteratura, il panico si sposa e accoglie. Testo sublime. Grazie.

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  5. Riconoscerlo e accoglierlo è l'unico modo. L'unico per sopravvivere al panico.

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