Erano stati sino alle due a Trastevere in un locale dalle
luci basse e la musica a tutto volume. Lei gli aveva raccontato di sé e dei
suoi amanti, “i miei maschi” come li chiamava per vederlo corrugare la fronte.
Erano un paio d’ore che gli diceva di certe storie che lui e la sua morale
avevano mille volte immaginato, ma mai visto incarnarsi in una creatura
all’apparenza così innocua. L’aveva ascoltata senza mai distogliere lo sguardo
dalle sue labbra piccole e carnose, imbrattate da un rossetto troppo scuro e
volgare, mentre si domandava come avessero fatto, gli altri, ad avere pietà di
lei.
Aveva aspettato che finisse e che con un sorriso soddisfatto
dichiarasse «Con te sono a quota cento...
certo, se t’innamori di me, altrimenti non vale: quelli che non hanno
fegato non entrano in classifica».
Solo allora e dopo che lei aveva finito la sua birra, l’aveva
trascinata fuori e l’aveva presa con forza, quella della stanchezza e dei super
alcolici, della rabbia e dell’indecenza. L’aveva posseduta come mai era
successo prima con nessuna e come mai avrebbe pensato potesse accadere. In un
vicolo, e con la complicità di un muro, l’aveva sollevata, minuta e sottile che
si sarebbe potuta spezzare, e le aveva strappato gli slip sottilissimi
lasciandole la mano sulla bocca perché non urlasse.
L’aveva tenuta così per quasi un’ora ma ancora non gli
bastava.
Lei aveva lo sguardo distratto, pensava, già lontana chissà
con chi e chissà dove, e gli passava le dita tra i capelli corti e ricci, con
tenerezza e afflizione complice. Ed era stato quello sguardo dolce e
compassionevole che sapeva tanto di una prassi consolidata, di una tecnica di
seduzione già messa in atto e un po’ scontata a farlo andare in bestia, mentre la
teneva su con braccia stanche e pensava a tutti gli altri, ai loro nomi e le
loro facce e che lei, forse, aveva guardato nella stessa maniera.
In taxi aveva continuato a farle male stringendole l’interno
coscia e badando che non mugolasse troppo dopo averle infilato due dita in
bocca.
Gli piaceva torturarla a quel modo tenendo lo sguardo fisso
nello specchietto e negli occhi dell’autista, che di tanto in tanto si
concentrava anche sulla strada.
Poi l’aveva presa per le scale e poi di nuovo sulla porta
del suo studio, ancora in piedi e in bilico. La donna sopportava bene quel
dolore e quella pena che lui, razionalmente, non avrebbe saputo decifrare e
forse, nemmeno ammettere.
Lei gli domandò da bere, lui la trascinò in cucina, dove
senza lasciarle il braccio, le versò lui stesso tra le labbra dell’acqua lasciando
che colasse ovunque, e di nuovo la prese.
La mise di schiena e guardò quel corpo minuto e perfetto che
si sarebbe lasciato punire volentieri per tutti quei racconti inventati per
farlo imbestialire. Allora sfilò la cintura dai pantaloni, ma lei si voltò, e come
ogni notte e ormai da mesi gli disse «adesso fermati, ti prego, ora devo
andare».
Lui l’aveva trattenuta abbracciandola con quanta forza aveva,
nelle speranza che il suo piccolo corpo potesse disfarsi e scomparire sempre.
«Io ti amo», le aveva detto sentendosi ridicolo come un
bambino alla lavagna che non sa la lezione.
«È un anno che me lo dici, è un anno che andiamo avanti a
forza di promesse vaghe, che m’impedisci di avere una mia vita e altre storie e
che se ho bisogno di te per qualunque altra ragione che non sia il sesso, tu
non ti fai vedere».
L’uomo, che adesso sembrava di nuovo in sé, tirò fuori dal
cassetto dello scrittoio una pistola.
«Quest’arma non è stata dichiarata», lei lo guardò
interrogativa, «Significa che stanotte ucciderò mia moglie».
Tolse la sicura e puntò l’arma contro la donna che lo
guardava sorridendo.
«Lo dici sempre. Forse non ti credo più», e scoppiò a
ridere.
Quando Mara si svegliò le luci del mattino erano già alte.
Un sole settembrino non ancora rassegnato all’oscurità
autunnale filtrava dalle persiane malmesse.
«Mi passa il dottore?», rimase in attesa e nel frattempo
mise su il caffè e aprì le imposte della piccola cucina verde acqua.
Afrodite era già sulla porta con il guinzaglio in bocca
«Buona piccola, dammi ancora un’ora... Dottore?, buongiorno, mi perdoni,
dovremmo anticipare l’appuntamento: questo sogno ormai è un’ossessione... », e
scoppiò in un pianto infantile mentre il medico cercava un buco nella sua
agenda.
L’appuntamento era per le sei in Piazza del Drago.
Mara amava quella passeggiata, forse aveva scelto
quell’analista proprio per quella ragione, per i vicoli che percorreva ogni
volta e che la conducevano da lui quasi per caso.
Quel sogno si ripeteva ogni notte da quasi un anno. Diverso
nei particolari, talvolta, ma il tono era quello, così come la luce, i rumori
di fondo; uguale la bramosia e la rabbia di lui, e il suo piacere che la
portava ogni volta a raccontargli particolari sempre più intimi di quelli che
erano stati i suoi presunti amanti.
Ma stavolta aveva visto chiaramente il taxi svoltare per via
dei Coronari e fermarsi vicino a una piazzetta con fontana.
Non ce la faceva a rimanere a casa e così decise di uscire
con Afrodite. Si diresse verso Campo de Fiori e da lì, attraversato Corso Vittorio
arrivò ai Coronari.
A metà strada proprio sulla piazzetta c’erano alcune volanti
della Polizia e capannelli di gente dall’espressione incredula e sconvolta.
Mara domandò: una donna era stata uccisa nel suo
appartamento, si presumeva una rapina.
A disagio e con le gambe che non la reggevano entrò nel
baretto all’angolo per ordinare qualcosa di forte.
Un uomo bruno, non particolarmente alto le arrivò alle
spalle. Mara lo vide attraverso lo specchio, tra bottiglie e bandierine e lo
riconobbe subito. Si voltò di scatto rovesciando il bicchiere di bourbon.
L’uomo la guardò sorpreso e con un’espressione grave le
afferrò il braccio sottile «Ma noi ci conosciamo già... ».
(Foto: Roma perduta di Maurizio Rauco)
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