Ti spedirò un paio di scarpe fatte a mano: devo scusarmi per ieri, è stato
disonesto.
Il primo quarto
d’ora sarà trascorso senza che nemmeno guardassi l’orologio. Anzi, forse sei
arrivato anche tu trafelato, un po’ in ritardo, forse hai avuto un contrattempo
o per un senso di colpa improvviso hai telefonato a tua moglie per dirle quanto
la ami e quanto ti dispiace dover ritardare per cena: ma sai è un incontro
importante, ma sai un contrattempo.
È normale in
una redazione come la tua.
Forse è stato
quando hai sentito i sei tocchi dell’orologio della Banca, forse è allora che
hai pensato, ma solo per pochi istanti, che lì ci lavora mio marito. Ed è
probabile anche che tu ti sia soffermato su un pensiero più razionale
domandandoti cosa stessi facendo lì in quella stanza e in attesa di una
sconosciuta, anziché scendere, pagare, lasciarmi un biglietto, entrare in
macchina, fare un paio d’isolati e chiamare tua moglie, come fai ogni giorno,
per domandarle se per cena avesse bisogno d’altro.
Per un quarto
d’ora ti sei messo tranquillo poi, hai stazionato in uno strano malessere che
in tre minuti è diventato preoccupazione e poi, ansia: il marito l’ha scoperta,
ha dimenticato, ha avuto un incidente.
Allora sei
andato alla finestra.
Non avevi
ancora notato gli infissi tipici di certi alberghi che sembra di stare in un
bunker poco prima di un’esplosione nucleare, lì sotto, il mondo rapido si dà da
fare mentre tu sei al centro esatto di un tempo immobile. Come quando da
bambino saltavi la scuola.
Tornato al
letto hai acceso e spento il display del cellulare. L’hai fatto più volte, come
se in pochi istanti potesse essere arrivato un mio messaggio di scuse.
Poi,
vergognandoti anche un po’, hai chiamato la reception.
Il tizio,
svogliato e stanco dal via vai di una convention, ti ha probabilmente risposto
in modo un po’ distratto, magari mentre porgeva la chiave a un cliente o faceva
un cenno al boy dell’ascensore che portasse su le valige. Allora hai insistito,
non ti sembrava vero, non era possibile che ti avessi lasciato lì come un
cretino e senza darti spiegazioni. Ma forse non avevo capito e ti stavo
aspettando giù, nella hall – tu che mi avevi immaginata già mille volte distesa
in una luce soffusa e in sottoveste, magari nera, sicuramente di seta pura.
Hai insistito,
hai domandato al ragazzo stanco se per caso fossi lì in giro: la prego, abbia
pazienza, si guardi intorno.
E ti ha messo
in attesa.
Anche quello
deve esserti sembrato un tempo orribilmente lungo, e mentre una parte di te
sperava in un esordio felice del concierge, l’altra, ti riportava con i piedi
per terra: che troia, hai pensato, lo so.
Chissà come mi
hai descritta, quali le peculiarità che ti sono sembrate più giuste affinché il
suo occhio distratto poetesse intercettarmi tra la folla sudata dei congressisti.
Molto alta,
bionda. Austera, elegante. O forse hai domandato solo se c’era stata una
chiamata per te.
Quando hai
abbassato il ricevitore e hai scorto davanti a te un tempo tutto bianco, sei
entrato in uno stato d’ansia oppressiva: lo senti, lo sai.
È l’ansia di
non sapere se rimanere o andare quella che ti prende mentre sei in piedi tra
letto e comodino. E hai anche pensato che certi alberghi non hanno nulla di
romantico, e che ci vuole proprio una passione animale per farlo là, a due
passi dalla banca dove mio marito lavora e dalla strada che porta al lago, che
è la stessa che fa ogni giorno anche tua moglie per tornare a casa.
Poi, ma solo
perché è un caso estremo, hai aperto una bottiglina di Ballantines e l’hai
buttato giù in un fiato, poi un’altra. Poi hai fatto come faccio io, e le hai
infilate tutte nella ventiquattro ore.
Hai riacceso il
display, hai scorso in fretta alla rubrica sino al mio nome ma non hai trovato
il coraggio.
Quando sei
uscito dal bagno eri pieno di tristezza, vinto dal malessere della sconfitta.
Tutti quei
sogni, i progetti, le mie parole, che leggevi furtivamente dal computer della
redazione e che lì, davanti a tutti, facevano un effetto visibilmente osceno.
Allora ti sei
disteso sul letto e hai accarezzato ancora quel piccolo sogno pornografico. Una
roba che si conserva in un microscopico post it ripiegato più volte e infilato
nel portafogli.
Mi hai anche
attribuito un milione di buoni motivi e di giustificazioni, un adulto si
rammarica di un imprevisto, non lo prende come un fatto personale.
Più tardi però,
offeso in quell’ottima considerazione che hai di te stesso e della tua
carriera, hai cominciato a bruciare d’amore per una stronza che ti ha mandato
in bianco e non per quella graziosa creatura che ti porti appresso da dieci
anni.
Sei una bestia.
Hai sentito un
rumore in corridoio e subito ti sei alzato. È lei, hai pensato, sei tu, hai
ripetuto più volte, e hai avvicinato l’orecchio alla porta.
Sei rimasto
così finché non hai sentito i brevi passi dissolversi e risuonare ancora un po’
per le scale prima di finire nel nulla.
Tutto è
possibile in certi casi.
All’occorrenza
si crede anche nei miracoli.
Infine, hai
stretto i pugni e mi hai dato più volte della stronza, tra i denti, schiacciata
tra le tue mascelle forti, mi hai immaginata in ginocchio davanti a te
completamente nuda. Mi hai schiaffeggiata sino a farmi sentire le guance in
fiamme e non hai detto altro prima di spingere la mia bocca sulla tua carne.
Mi hai trattata
come va trattata una stronza, lo hai fatto anche più tardi, a letto, con
accanto tua moglie.
Hai tremato
all’idea che potesse sentirti, ma dovevi farlo ancora una volta, era un tuo
diritto dopo il mio odioso misfatto: lasciarti da solo in una stanza
d’albergo.
Sei rimasto
attaccato alla porta e alla tua idea di vendetta finché non ti sei soddisfatto
da solo.
Hai lasciato in
bagno una frustrazione che non si può raccontare, che è disonore e fastidio per
un maschio.
Hai dato uno
sguardo alla stanza e poi sei andato via in fretta.
Dopo Natale, per il nuovo anno, arriveranno le tue scarpe nuove.
Porti il quarantuno e mezzo, me l’hai
scritto a proposito del fatto che non trovi mai quella calza a pennello.
Prima, forse, dovrei misurateli bene i piedi mentre mi guardi dall’alto. Dovresti lasciarmelo fare per tutto il tempo che occorre, fosse pure per un’ora o per l’eternità.
Prima, forse, dovrei misurateli bene i piedi mentre mi guardi dall’alto. Dovresti lasciarmelo fare per tutto il tempo che occorre, fosse pure per un’ora o per l’eternità.
(Foto di Elena Oganeysian)
è autobiografico?
RispondiEliminasai che noia parlare di sé?
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