Pagine

domenica 21 giugno 2015

Lo scrittore

Eppure ho amato Marinella. Forse l’unica donna che io abbia amato veramente. Era diversa dalle altre, discreta, poco truccata, vestiva semplicemente. Non mi aveva cercato come facevano tutte le altre. Non aveva finto d’interloquire con me del più e del meno per arrivare al punto più tardi, per sottopormi il proprio manoscritto magari dopo un invito a cena, o dopo ancora, nell’intima penombra della stanza da letto.
C’eravamo incontrati al mercato rionale di via Alessandria, a Roma, mi aveva sconsigliato quelle arance indicandomene altre su un altro banco “più giù”. Rimase a guardarmi con un broccolo in mano finché non mi vide scegliere quelle giuste.
Ci ritrovammo al banco del pesce la settimana seguente, stavolta al mercato di Piazza Vittorio.
Quel giorno pioveva e lei indossava un’impermeabile rosso ciliegia. Anche le sue gote erano rosse e gli occhi, neri, accesi come tizzoni ardenti. La guardai meglio. Aveva l’incedere di una ballerina di flamenco, un corpo armonioso, era bella. Mi portai verso di lei con la curiosità tipica di chi fa il mio mestiere, lei non mi vide finché non la urtai. Finsi una distrazione, raccolsi la mela che era caduta dal suo carrellino e gliela porsi. Lei allora si ricordò di me e delle arance. Disse soltanto «Ah, ciao!» e dopo avermi sorriso si diresse a un altro bancone.
«Lo vedi dagli occhi se sono freschi», mi disse quando le fui accanto, come attratto da una calamita.

Non le svelai il mio vero nome. Della casa, in cui la invitai per un pranzo frugale, il mio attico in via Baccina, dissi che era di umico giornalista che si era preso un anno sabbatico a New York, il mio accento napoletano aggiunse realismo a quella finzione. Quando il tuo nome è in tutte le vetrine e nelle classifiche dei romanzi più venduti, non sai mai se chi ti avvicina lo fa per interesse o per sincera attrazione.
Dissi che facevo l’architetto, quello doveva essere il mio mestiere non avessi mai inviato il mio primo manoscritto, che ero separato e avevo due figlie ormai adulte. Mi è sempre piaciuto vivere vite diverse, e non bastano i miei romanzi a raccontarle tutte.
Non mi domandò come mai in casa non avessi nessuna foto di me con le ragazze. Marinella era discreta.
Passarono tre mesi. La chiamavo io, ero io che non potevo fare a meno di sentirla e di passeggiare con lei sul lungofiume, dopo il cinema o dopo cena, a parlare delle vicende strane della vita, della sua infanzia felice, degli uomini, i tanti che l’avevano tradita, picchiata, umiliata senza pietà.
Mi piaceva perché conservava l’entusiasmo di una ragazzina e la buonafede dei puri, perché possedeva la cultura di chi sa scegliere con la propria testa. Mi piaceva perché non si sentiva onorata a stare con me per il mio nome, ma perché forse le piacevo e basta. Una sensazione rara, almeno per me, costretto a presenziare nei salotti buoni di mezza Italia.

Diversamente da ogni altra volta il bacio arrivò senza calcolo. Fui io stavolta a prendere l’iniziativa, lei si fece morbida tra le mie braccia per mormorare soltanto un supplice “non farmi male”. Volli sapere tutto della sua vita, insistetti per conoscere la sua casa e il suo cane.
M’invitò a cena. Abitava oltre, oltre i Parioli, oltre Corso Francia, oltre la Tomba di Nerone. Un minuscolo appartamento con terrazza in via Gradoli.
Rise, aprendomi la porta di casa, «Non mi fare la solita battuta sul nascondiglio delle Brigate Rosse», mi pregò di non far caso al disordine, correndo poi in cucina da dove proveniva il profumo di brasato.
Mi sentii immediatamente a mio agio.
Aprì un bianco ghiacciato e mi fece accomodare.
Mentre andava e veniva, sbirciai tra i volumi della sua libreria. Tanta letteratura francese, la collezione Einaudi di teatro occupava tre scaffali, e poi saggi di filosofia, religione e ancora teatro.
Lavorava come aiuto regista e segretaria di edizione.
«Preferisco il teatro», mi disse «ma ormai si tratta di fare volontariato più che lavorare. Non paga più nessuno e le platee sono vuote. È frustrante. È triste. Lo faccio per gli amici, quando il progetto è veramente buono». Sospirò pesantemente «Per pagare l’affitto ho la televisione, orribili fiction di cui non rimarrà traccia nella storia».

Avevo notato che, a parte Sciascia, Buzzati e Parise, non c’erano molti italiani tra i suoi scrittori preferiti. Pensai alla stanza da letto, e che magari i suoi volumi preferiti li avesse messi lì. Così domandai del bagno.
«Di là in camera», mi disse affacciandosi dalla cucina.
Notai l’ordine perfetto della solitudine. Il vuoto di chi non ha bisogno conferme dal proprio passato. Soltanto una sua foto da bambina assieme a un uomo che pensai fosse suo padre, e ancora libri, raccolte di poesia in quantità industriale.
Tornai di là dove una candela brillava sul tavolino rotondo accanto alla finestra. Per lo più fu Marinella a parlare. Io avevo la mente occupata ad accarezzare il mio ego ferito.
Nemmeno un volume dei dodici che avevo pubblicato in quegli anni.
M’ignorava. Probabilmente non conosceva neppure il mio nome. E in quella casa non c’era televisione.
Quella sera andai via poco dopo mezzanotte. Perché non ci restasse male le dissi di un viaggio a Milano e un treno alle sette.
Ero ancora in attesa dell’ascensore quando si precipitò verso di me con quello che da subito mi parve un manoscritto corposo.
«Non l’ho fatto mai leggere a nessuno. Ma qui c’è molto di me, forse più di quanto potrei dirti a voce».
La ringraziai per la fiducia e me ne andai con un grosso peso sul cuore e la sua vita in mano.

Passai la notte a leggere quelle parole dense, giuste, sincere. Una storia piccola piccola ma intensa e straziante. Era un romanzo perfetto, sarebbe bastata una minima limatura per farlo diventare un cult letterario.
Non sapevo il perché ma decisi di non farmi più sentire. Ero furente, e basta. Ma preferii pensare a una macchinazione, che lei sapesse tutto di me e avesse giocato d’astuzia. Voleva soltanto un gancio con il mio editore, era chiaro. Una delle tante in cerca di celebrità.
Lei, come d’abitudine, non mi chiamò. Eppure ci pensavo ogni sera, e poi il mattino, quando mi mettevo al lavoro, quando scorrevo a caso quelle righe e la sua esistenza sfortunata: avrei voluto averla io la capacità di guardare le cose in quella maniera, averla io l’indole guerriera.
Così mi decisi. Feci una copia del suo romanzo e glielo rispedii con una breve lettera di congedo. La solita storia delle complicazioni sentimentali che mal si coniugano con una vita troppo piena.
Oggi, dopo quasi vent’anni, davanti al vuoto che mi circonda mi domando cosa è stato di lei. E soprattutto cosa sarebbe stato se io l’avessi aiutata.
A sentirsi Dio, si può anche uccidere.



domenica 14 giugno 2015

Rimozioni

La tempesta si era finalmente acquietata e anche gli amici erano andati via. L’appartamento era immerso nel silenzio nonostante la musica suonasse ancora a tutto volume.
Anna era già di là che faceva le valigie, apriva e chiudeva armadi, sbatteva porte e parlava tra sé di decisioni già prese e ben ponderate, di stanchezza e insoddisfazione, di una fine annunciata e di un inizio auspicato da anni.
Lui era rimasto seduto al tavolo, un ghigno di soddisfazione aggrappato alla mascella larga, si passava tra le mani brandelli di un tovagliolo di carta.
Luca odiava i tovaglioli di carta, tutto qui. Non riusciva proprio a capire cosa le ci volesse a infilare in lavatrice tovaglioli di stoffa. E glielo diceva ogni volta «Annì, però, ‘sti cazzo di tovaglioli!».

Era il suo tono, il tono e basta che le dava sui nervi. Andare di là in camera e ogni volta mettersi a fare quella scena –la valigia, il borbottio e il pianto silenzioso-, le sembrava l’unica risposta possibile.
Non reagiva così perché tutto stava andando a rotoli, di tempo a disposizione ne avevano ancora per raccogliere i cocci di quella relazione e rimetterli assieme, o per realizzarsi, o per cambiare vita. Non si sentiva frustrata perché quell’amore si era disfatto nel giro di due anni, non si accorgevano più uno dell’altro da anni e la gentilezza si era fatta sottile come le pareti di quell’appartamento dormitorio alla periferia di Roma. Ignorarsi a vicenda era un tacito accordo e nessuno dei due dava troppo peso a quello sfacelo.
Era il tono che assumeva Luca che lei non tollerava più, quella frase, che le rimbombava nella testa graffiando il rimasuglio di autostima che aveva gelosamente conservato per gli anni a venire.
Se non sai lavare un paio di tovaglioli cos’altro pensi di poter fare?, sembrava una condanna certa, un marchio a fuoco più che un rimprovero.
E quella sera l’aveva pronunciata di nuovo, tra la frutta e il dolce, pensando forse che quella frase si sarebbe dispersa tra le risate degli amici e le solite battute, “Anna è pigra”, Anna è distratta”, “Anna non bada a certe convenzioni”.

Adesso Anna era di là, immobile davanti alla valigia ricolma di roba infilata lì a casaccio. Meditava, ridicola nella consapevolezza amara di non avere neppure il denaro sufficiente a pagarsi un hotel due stelle, o per un biglietto ferroviario.
In cucina, Luca si era alzato e con metodo da eccellente ingegnere meccanico infilava piatti e pentole nella nuovissima lavastoviglie.
Non se ne sarebbe andata neanche stavolta.

L’indomani avrebbero ricominciato a ignorarsi sopportando ognuno il peso dell’altro con indifferenza, nell’attesa della prossima cena tra amici e del prossimo litigio, unica occasione per guardarsi negli occhi e chiamarsi per nome, per riconoscersi e svegliarsi dall’incanto della quotidiana rimozione di una scelta sbagliata.