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venerdì 11 ottobre 2013

Deriva#38 #derivaditwitter: il Ricatto corre tra i pixel

Potrei anche morire domani e mi domando perché dovrei perdere tempo a compiacere voi.

No, non è un brano tratto da un Romanzo epistolare di de Laclos, nel quale la marchesa declina l’invito del principe, è una riflessione sul fatto che, per compiacere il prossimo, si rischia di perdere se stessi, anche quel poco che riusciamo a far trapelare attraverso i pixel.

Una precisazione indispensabile, prima di raccontarvi una storiella divertente, è il significato di “deriva” che alcuni tutteri, anziché spezzarsi il ditino sulla tastiera, si ostinano a domandarmi in DM o per e mail.
Questo è quanto riportato dal vocabolario “Treccani” e che, associato all’idea baumaniana di Società liquida (del quale i miei detrattori hanno letto l’opera omnia), mi pare calzi a pennello: Trascinamento, da parte di una massa fluida in movimento, di un corpo galleggiante o immerso in essa, rispetto a una superficie fissa.
Andare alla “deriva” significa non opporre alcuna resistenza e lasciarsi andare al flusso della MASSA LIQUIDA.
Spesso, nei miei “tuit” parlo di cavalcare l’onda del “luogo comune”, lo “Tsunami” degli hashtag più cretini – o più alla moda- l’onda anomala dell’opinione politica, anche quando della politica, fino all’iscrizione su Twitter non ci è mai fregato un granché.
E tutto per ottenere Retweet.
Questa per me è #derivaditwitter. Così come l’insulto gratuito, il follou back e l’interazione obbligatori, e la comunicazione, da parte degli utenti di notiziole ininfluenti nella vita dei propri follouer.
Adesso poi, che le foto sono visibili sulla nostra TL e nonostante noi, e che ci vengono segnalati i RT che un nostro Retweet riceve, avremo ancor meno condivisioni, e una quantità imbarazzante di immagini brutte: parenti sfuocati a tavola, autoscatti di culi, gattini mossi, piatti da gourmet “de naoantri” eccetera.

Avrei chiuso con le deriveditwitter, non fosse che la faccenda assume di giorno in giorno un carattere tra il comico e il patologico.
È come se #Twitter fosse un palcoscenico e noi tuitteri attori di una grande compagnia di giro. Non so se avete mai lavorato in un gruppo di attori professionisti, ma l’atmosfera è più o meno questa: pettegolezzi in camerino (DM), sgambetti per le scale (cattiverie senza menzioni), finti baci, maldicenze “taroccate” riferite al regista  (tuitstar) perché un certo attore venga sostituito, liti messe su ad arte (ossia con un accordo tra i litiganti) e invidia marcia per chiunque ottenga più consensi.
È inutile che continuiate a sostenere che del numero di follouer poco v’importa, si sa, la maggior parte delle volte si tratta della volpe che non arriva all’uva! Ogni tre tuit c’è una lamentela per il defollou ricevuto. È sulla TL, è sotto gli occhi di tutti! Ed è anche una gran noia, poiché  Twitter funziona così.
Twitter è il Social media dell’impermanenza per eccellenza: una volta va bene un’altra volta no. Rassegnatevi. Il defollou avviene anche se ricevete troppi RT. È scienza, è osservazione del Media, non solo supposizioni.

Infatti, il retweet langue e la gioia della condivisione rimane soltanto in chi è generoso per natura, e non ha paura di mostrare ai propri amici, e quindi di presentare allaTL, un tuittero dalla digitazione rapida e originale.
Pazienza. È ovvio che alla fine delle repliche lo spettacolo abbia preso strade diverse da quelle che il regista aveva in mente al debutto, che gli attori scaccolano (ossia tirano l’applauso o la risata) e che le battute sono ormai telefonate (dette in automatico e senza un’intenzione reale).
Così anche Twitter si sta “scagando”, anche se il pubblico non se n’è accorto e applaude felice a frasi fatte e di bassissimo livello e a post che sono già vecchi anche su #FB.
È normale che quando un taglio d’abito di marca arriva sulle bancarelle di via Appia, possiamo dire addio al nostro abitino pagato una vagonata di euro e che ora non vale più niente.
Ieri ho defollouato quaranta follouing consapevole del defollou back: se tu non piaci a me è possibile che io non piaccia a te. Punto. E se mi hai seguito solo per ottenere a tua volta un follouer in più, allora riguarda la finalità del gioco e stai fermo sulla casella senza passare dal “via”.

All’inizio della #deriva ho scritto che avrei raccontato della storiella da ridere, anche se è veramente troppo umiliante, credo, rievocare questo episodio, esilarante per quanto incredibile, una roba che non succederebbe mai nel mondo analogico e che, più che tra le derive di twitter, credo di poterlo annoverare tra le derive dell’esistenza.
Sarebbe come dare importanza al “nulla” dirvi che una, una tizia di cui nemmeno ricordo il nickname, ha tuittato, con libera interpretazione, il sottotitolo del mio Romanzo.
Niente di grave, anzi è pubblicità.
Non fosse che al suo “il cuore è SOLO un muscolo” (che già ha un ritmo assai diverso dall'originale), una mia follouer e lettrice le ha candidamente domandato se si riferisse al mio romanzo ed è stato alla sua risposta, letta e riletta appena sveglia con la tazza di caffè bollente in mano, che mi sono dovuta alzare e sciacquare il viso un paio di volte: Ho cercato di interloquire con l’autrice ma senza risultato... magari lo trovo un’altro libro meritevole e alla sua altezza.
Pensate mi riferisca all’elisione al maschile? Va beh capita, è un refuso.
Alla sintassi? Sorvoliamo.
Pensate che mi accanisca?
Se usare i social media per promuovere BLOG e Romanzi è ormai prassi consolidata, promuovere la classe, evidentemente, no.

La mia visione della vita è che sono sotto il cielo e potrei morire anche domani: il tempo è prezioso e lo uso per questioni più importanti. Per conquistare un solo lettore consapevole, per esempio, piuttosto che forzarne dieci a comprare il mio romanzo con il ricatto del follow back.
Sopravvivo correggendo bozze per una mini casa editrice, la scrittura fa parte integrante della mia esistenza ed è un’abitudine quotidiana, ma considero la pubblicazione un MEZZO e non un fine. E vi garantisco che la differenza è oceanica.
Cara tuittera, ci saranno non una ma mille scrittrici migliori di me, ma come scrive Saramago “Tutto può essere raccontato in un altro modo”, anche questa #deriva e il mio romanzo che non hai comprato e comunque non avresti letto. O non avresti finito di leggere.


mercoledì 9 ottobre 2013

Una certezza soltanto

Te lo ricordi che non potevo restare più di due ore senza vederti?
Ricordo che passavamo delle ore a baciarci.

Invece restano muti sulla scala mobile e si guardano con diffidenza. La donna procede veloce, e schivando gente e carrelli gli passa davanti per correre ad accarezzare il legno chiaro della sua cucina da sogno. Lui cerca di darle un peso, a sua moglie, e un valore: a occhio e croce sarà ingrassata dieci chili.
Non aveva nemmeno mai notato che consuma soltanto la parte laterale esterna delle scarpe, cammina male, e un po’ lui se ne vergogna anche di lei e dei suoi vecchi stivali, della ricrescita ai capelli così evidente e di quel giubbotto che avrà almeno vent’anni. Si vergogna anche di se stesso e di quel “domani cambierà”, ripetuto ogni sera, che non lo ha fatto procedere di un passo. Nemmeno ricorda più quali fossero le sue ambizioni, le loro, dimenticate tra un post datato e un pagherò sempre a portata di labbra.
Anche il passato di verdure è diventato un incubo. E le patate, che gli cucina in ogni modo e maniera e che ormai gli danno la nausea.
L’ultima volta che ci ha fatto l’amore ha dovuto chiamare in soccorso tutte le fantasie erotiche più sconce, le stesse che guarda e riguarda da anni sullo schermo del suo PC, di notte, le uniche in grado di fargli affluire il sangue esattamente lì, per poco, in modo potente e istantaneo. 
Quel pomeriggio si era liberato a fatica di quell’orgasmo indispensabile, mentre lei gli urlava di venire e di far presto: che di lì a poco sarebbero tornati i bambini, che mezz’ora soltanto e avrebbe dovuto portare in tavola. Nessun tatto, nessun preliminare, che con una scusa plausibile si può sempre evitare.

Lei si china e apre portelli, si alza sulle punte e controlla per l’ennesima volta cappa e pensili, come se in quei mesi fosse cambiato qualcosa: con ottocento euro, trasporto e montaggio sono compresi.
Lui guarda la cerniera della gonna che le è rimasta aperta sul lato, un minuscolo coccodrillo freddato nell’atto di azzannarle la ciccia del fianco.
Lei lo guarda e sembra indifferente. Si fissa un attimo sul risvolto dei pantaloni miseramente consumato, sale fino alle ginocchia e alle cosce così magre da far tenerezza.
Una notte era stata svegliata dal moto sussultorio del letto: suo marito si faceva una sega accanto a lei che piangeva solo un po’, in silenzio, per non umiliarlo, per dimenticare poi quel dolore nel sonno.
L’obiettivo è a un passo da lei: ottocento euro più IVA il prezzo della felicità a basso costo.

Ti ricordi quanto mi facevi godere?
Sì, ricordo che lo prendevi sempre, tutto, e più volte al giorno. Ricordo che eri ingorda.

Invece, lui si sposta rapidamente al reparto lampade e senza guardarsi indietro. Potrebbe anche fuggire. Correre alla macchina e partire senza destinazione. Chiamare suo fratello e dirgli di andarla pigliare, di badare lui a moglie e bambini.
Invece il suo compito è quello di badare alla scorta di lampadine, e di sostituirle, possibilmente.
Da lì, piegato sulle ginocchia, guarda mani che s’intrecciano tra loro, quelle dei neo sposi che arredano gioiosamente casa e fanno mille progetti, e ridono.
Si vestono ancora per piacersi, non vedono al di là del loro nido d’amore, quello per il quale hanno firmato un mutuo trentennale contando sulla promessa appena fatta, sull’affetto e sull’amore che li terrà assieme nella vita e nella morte.
Fa la conta delle lampadine e un rapido calcolo della spesa totale.
Sente la sua presenza alle spalle. Si volta e la guarda.

Mi tenevi sempre per mano.
Mi chiamavi per nome.

Invece lei batte l’indice sull’orologio. È ora di andare. Tra un mese la cucina sarà ancora lì ad aspettarli, come il comune tedio e il comune inganno.

lunedì 7 ottobre 2013

Casco dal pero e mi faccio anche male

Quando quattro anni fa inviai la mia piccola, insignificante e illeggibile prima bozza di Justine 2.0 a una notissima casa editrice romana, di cui però non farò il nome non avendo più la loro mail, mi fu comunicato che, a un certo prezzo e per l’acquisto di un tot di copie, il mio romanzo sarebbe stato certamente degno di pubblicazione.
Mi vennero i sudori freddi e risposi indignata.
Lui, il proprietario, direttore, autore, e chiaramente editor, mi rispose con tono consolatorio che no, non si trattava di una pubblicazione a pagamento e che il mio sarebbe stato un contributo spese per pararli da eventuali rischi imprenditoriali. Mah...
Offesa, declinai l’invito a mettermi in gioco, a provarci e a non aspettare un’opportunità che – con i tempi che corrono - non sarei mai giunta a ottenere, e ci misi una pietra sopra.
Toccai ferro, gettai pugni di sale grosso agli angoli della stanza, lanciai le monete, tirai un po’ di carte e decisi che quella non poteva essere l’unica strada.
Poi è arrivata l'assunzione al Master in editoria LUISS, il lavoro accanto a scrittori e curatori editoriali di fama internazionale, e la faccenda ha assunto una dimensione più umana: per emergere ci vuole tanto talento, gavetta, e anche, auspicabili ma non indispensabili, le giuste conoscenze.

Non sono mai andata avanti per “conoscenze”, e sono così onesta da non negare nemmeno di averle, invece, disperatamente cercate.
Ho iniziato a fare teatro, falsificando firme e autorizzazioni, che avevo circa quindici anni. Ancora minorenne entrai in Compagnia falsificando ancora una volta documenti e richieste e presentai il conto a mia madre al termine dell’anno scolastico: bocciata.
Avrei fatto l’attrice solo a patto che fossi entrata all’Accademia d’arte drammatica, altrimenti una facoltà qualunque e poi si vedrà.
Ma l’Accademia era ormai nelle mie mire. Mi vedevo, novella Duse, acclamata in tutti i teatri d’Italia.
Anche in quel caso mi piovvero sulla testa avvertimenti e mortificazioni: bisognava avere molti santi in paradiso, che su circa seicento aspiranti allievi ne avrebbero selezionati quindici, che io non ero né bellissima né ricchissima né figlia d’arte e che quindi potevo prendere il mio bel sogno e chiuderlo a doppia mandata in qualche cassetto.
Mi preparai a dovere, diedi la maturità da privatista, la superai, e feci la richiesta d’iscrizione alla Silvio D’Amico.

Il destino crudele volle che in commissione, e come docente del primo anno, ci fosse il regista Mario Ferrero e che “per carità” avesse saputo che ero la nipote di mia zia, la Valmorìn (che magari gli addetti ai lavori conoscono) e che Ferrero aveva in grande antipatia.
Ci aveva lavorato nel lontano 1967, forse non si sarebbe ricordato di lei, pensai, e visto il nome d’arte, non l’avrebbe nemmeno collegata a me. Ma la memoria degli artisti non va sottovalutata così, al termine della mia prova d’ingresso, un Wedekind giusto per fisico del ruolo e indole, con voce acuta e nasale Ferrero mi domandò se per caso non fossi parente della zia in questione. Dissi di no. Che Barbara Valmorìn non sapevo nemmeno chi fosse.
Ci sono persone cui l’esistenza mette i bastoni fra le ruote, una di quelle sono certamente io.
Poi c’è stato il teatro di ricerca, i premi, i festival, Torino e la lunga esperienza con Valter Malosti, e il nome, il mio, piccolino ma cazzuto, finalmente in grassetto sulle locandine.
I miei Maestri importanti li ringrazio ancora. Guicciardini, ex aiuto regista di Bertold Brecht (quello che siede dalla parte del torto) mi ha insegnato l’importanza dell’onestà intellettuale e tutte le menate del caso, che però servono tanto (eccome se servono!) quando sei nella merda fino al collo e non sai come pagare l’affitto. Principi morali che mi sono venuti in soccorso quando me ne tornavo a casa sul notturno, direzione Cassia-Tomba di Nerone, alle due del mattino, e con in tasca la bellezza di seimila lire di guadagno. Camilleri ci raccontava le meraviglie dell’arte e i suoi compromessi e Angelo Corti, ci ficcava in testa l’importanza dell’etica a suon di addominali.
Sapevo, sapevamo e sappiamo tutti come vanno le cose.
Ma non ci si può piegare a certe logiche se si percorrono strade illuminate da verità.

Ho sempre cercato la perfezione. Ho studiato. Ho studiato anche quando, per amore, ho lasciato un contratto allo stabile di Modena per mettermi a lavorare per uno dei primi Portali italiani di web hosting e housing.
Sempre di comunicazione si trattava, era comunque una materia affine alle mie corde, mi eccitava il rumore della connessione alla rete e l’idea della comunicazione globale mi mandava in estasi. E l’ho fatta mia. Mi sono divertita, per dieci anni ho viaggiato per il mondo, fatto corsi e Stage. Ho lavorato, ho guadagnato, e alla fine ho perso tutto.
Ho ricominciato da zero e da sola.

È per questo, forse, che oggi e a più di quarant’anni, mi meraviglio e piango come una bambina, quando scopro che con il denaro si compra tutto, anche una recensione.
"Justine 2.0" l’ho pubblicato con un Editore piccolo ma vero, ho penato veramente perché insicura e incerta, ho avuto e ho paura, com’è giusto che sia, dei giudizi e dei pregiudizi altrui, e sto faticando come una bestia per promuoverlo e se, a una mia ingenua richiesta di informazioni per una recensione, corrisponde un preventivo, come mi è successo stamattina, mi cascano le braccia, mi do della stronza, batto la testa contro il muro e mi domandando perché non sono rimasta a vivere in Indonesia.

Ora mi toccherà fare molti riti magici perché questo brutto episodio si cancelli dalla mia memoria.
Sto dalla parte di chi vuole ottenere riconoscimenti veri e spontanei per ciò che scrive e crea e non pagare per uno sfizio personale che, in fin dei conti, e guardandosi allo specchio, conta meno di niente. Non sono più tanto sicura che la sincerità renda più dell’imbroglio, non qui almeno, non in questo paese, ma non è importante, almeno non per me.

martedì 1 ottobre 2013

Deriva #37 #derivaditwitter: Twitter è un Media freddo

Non basta usare la prima persona plurale e quindi includersi, no. E nemmeno è sufficiente specificare ogni volta che queste sono opinioni personali e non giudizi perché, come diceva il Sommo Poeta, giudicato da molti asini “pesantissimo”, “Ognun dal proprio cuor l’altrui misura” quindi, se hai il vizio di tuittare di continuo cattiverie sugli altri, giocoforza vedrai nei tuit altrui soltanto calunnia.
Detto ciò, per gli imbecilli che ancora si ostinano a leggermi pur non sopportandomi, veniamo al perché mi pare inutile, se non fastidioso, ricevere un “Benvenuto” su Twitter e non, per esempio, su Facebook.

McLuhan, che certamente i mie amati detrattori conosceranno a menadito, scriveva che ogni Media ha le sue specificità, le sue leggi e i suoi scopi precisi: ogni medium va studiato in base ai criteri strutturali in base ai quali organizza la comunicazione; è proprio la particolare struttura comunicativa di ogni medium che lo rende non neutrale, perché essa suscita negli utenti-spettatori determinati comportamenti e modi di pensare e porta alla formazione di una certa FORMA MENTIS”.
Non a caso Twitter, che vuole comunicazioni brevi ma efficaci, è il media dell’insulto, non a caso è così semplice “bannare” e, che lo vogliate o no, è la sua struttura che determina la “forma mentis” del tuittero e non il contrario.
Ma mi rendo conto che per alcuni ragionare sull’evidenza risulta complicato, mentre andare per luoghi comuni, aggrapparsi alle proprie convinzioni o contraddire per il semplice desiderio di far perdere le staffe al prossimo, sia la via migliore per provare a distinguersi.

Per McLuhan, #Twitter sarebbe stato da includere tra i Media freddi (e anche se lo sapete già, badate che il termine è usato in modo “antifrastico”, ossia al contrario del suo significato).
Twitter è un media “freddo” poiché richiede all’utente la massima partecipazione, ma ha la particolarità di limitarla a centoquaranta caratteri, e di forzare chi li digita ad acquisire il dono della sintesi.
Il motivo per cui trovo fuori luogo saluti e varie, è da ricercare anche nell’effetto CAOS che molto traffico, ossia troppa interazione, genera sulla Time Line di ognuno (TL) che si riempie di tuit poco interessanti e rende complicato, per chi approda per la prima volta su di un profilo, leggere, tra tremila gioiosi quanto inutili scambi di formalità, le peculiarità di massima del tuittero che si sta valutando se seguire o meno.
E, che lo vogliate oppure no, questo è sicuramente un mio criterio di valutazione nell’eventuale Follow Back.

Inoltre, se sei tu che mi hai seguito per primo e io ho deciso di darti reciprocità, puoi al limite ringraziarmi, se proprio devi, ma non darmi il “Benvenuto”.
Ma ancora: “Benvenuto” dove, di grazia?
Twitter non è FB, non c’è una Home, una casetta calda che accolga gattini in posa. La TL di questo media, ossia linea di tempo, che in biologia significa anche “evoluzione”, è un tapis roulant di considerazioni, scambi d’idee e opinioni che passano e vanno via. Ma soprattutto, ed è questo gli “hater” non mandano proprio giù, dovrebbe contenere scambi di informazioni che non siano, si spera, i curiosi menù giornalieri, che non cambiano la vita di nessuno.

Ritengo inutile il “Benvenuto” perché su #Twitter non esiste alcun obbligo alla reciprocità, e se anche decido di seguirti adesso, è molto probabile che tra quarantotto ore io possa defollouarti perché hai scritto un tuit sconveniente, perché mi accorgo che scrivi a puntate, o che m’includi in inutili trenini dell’amore: i famosi “buongiorno” cumulativi che obbligano il malcapitato a duemila “Grazie altrettanto a te” rivolti a gente che non conosce né probabilmente conoscerà MAI.
Dare il “Benvenuto” su Twitter equivale (a mio avviso per carità) a salire su un vagone ferroviario o della Metro, salutare, e pretendere di fare amicizia con tutti. Che senso ha?
È un inutile formalismo.

Su Facebook, invece, si ha modo e tempo di coltivare amicizie, di scriversi lunghe mail e di valutare con calma l’altro da noi in base ai post che condivide e agli “status” che digita con più o meno originalità.
Twitter è un altro pianeta.
Se anche i DM (Direct Message) ci obbligano a comunicazioni brevi, come si può soltanto pensare di trasformarlo in un social Friendly?
Come si può pensare che non sia noioso e inutile rispondere a decine di “benvenuta tra i miei tuit” di persone che non incidono in niente nella nostra esistenza?
La verità è che io vado per logica e so che non posso andare con i pattini su di una strada sterrata, così come non posso cavare sangue dalle rape o ragione dalle teste di legno.
È innaturale e fuorviante sperare di scorgere sincerità in anonimi che non vedo e non frequento assiduamente nel mondo reale, né di vedere la loro vera essenza se non al momento fatidico della frizione, della lite, della baruffa inutile e volgare che tira fuori (e finalmente direi) la vera opinione che essi hanno di noi.


Ecco perché a chi mi da il “Benvenuto”, rispondo che non è il caso, che “Grazie, sì, ma mi pare del tutto fuori luogo”.  E senza scomodare McLuhan, la finalità di questo “nonluogo” è la “condivisione” delle idee e non l’amicizia, quella è una roba seria e vitale, umana e luminosa, che ha bisogno di tempo e non di uno spazio di centoquaranta caratteri e che, francamente, non mi va di millantare né di esibire con gente che non conosco.