Dispiace leggere che il cinismo delle battute da social ha
eliminato tanta poesia. Che forse non c’è mai stata, o che ignora Sciascia e
certi suoi racconti sull’umanità e sui treni, quella che anch’io riconosco, ho
visto e vedo ancora. E al di là della tristezza cui l’omologazione ci ha ridotti costringendoci a postare tutti la stessa immagine anche
a sproposito, evitando la più personale riflessione, io amo ancora i treni, o il ricordo che ho dell’odore di ferro, e delle
distanze che, allora, mi parevano enormi. Delle fughe da casa che senza cellulare,
senza il guinzaglio elettronico cui quasi nessuno più si ribella, erano
definitive e crudeli. Pericolose e reali. Spaventose come una fuga nel bosco in
piena notte.
Acqua, panini, salviette e libri.
L’odore delle divise dei soldati, gli stessi che in libera
uscita il sabato pomeriggio sostavano in Piazza o nella Villa Comunale di un
paesino qualunque, dalle cinque alle sette di sera, a guardare le ragazze e a provarci
solo per scommessa, come sul treno, quando si avvicinano in gruppo per non
levarsi più di torno. Fino alla fermata, fino a porgermi il bagaglio
controllando per l’ennesima volta il mio numero di telefono, falso, che avevo
scritto su un pezzo di carta, sul pacchetto vuoto di sigarette.
I treni che ricordo avevano sedili di finta pelle ridotti
all’osso, consumati dai corpi altrui e dalle loro storie. Portabagagli su cui
le scomode valige di allora dovevano essere guardate a vista perché non ci
cadessero sulla testa. Avevano scompartimenti che erano mondi a sé, finestrini
che si potevano aprire dai quali salutare e parlare ancora e ancora con quelli
che lasciavamo sulla banchina, che restavano per sempre lì fino alla prossima
costosa interurbana, fino alla prossima lentissima e troppo spesso smarrita,
lettera.
Ho vissuto un mondo di terze visioni si terze classi dai
sedili di legno. Un mondo di cabine telefoniche da cui avvisare che ero
arrivata. Un tempo di attese sulla banchina con un libro in mano. Di fiori,
porti con un sorriso a chi arrivava.
I miei treni portavano incontri magici da trascrivere sul
diario, da riporre in una memoria più capiente, da raccontare un giorno, forse,
come storie leggendarie.
Era un lungo che non conosceva distrazioni, che non aveva un
altrove cui rivolgere di continuo le proprie lamentele. Era un luogo di
condivisione obbligatoria della noia e dell’attesa, dell’odore dei panini col
prosciutto e delle uova sode. Del vino rosso nella fiaschetta che, riposta con
cura e avvolta in mille strati di carta di giornale, veniva tirato fuori dalla sporta
e offerto agli altri viaggiatori, con un sorriso e un “favorite” invitante,
fiero e dialettale.
Oggi il viaggio non è più un mistero. Non è più uno spazio vuoto da riempire di ipotesi. Non c’è più l’angoscia
di aver lasciato il rubinetto del gas aperto: basta chiamare appena partiti.
Basta prendere il cellulare per ritornare a casa, per riconnettersi e dire ciò
che avevamo dimenticato di dire. Prima, ciò che avevamo scordato e lasciato
dall’altra parte dello “stivale” poteva trasformarsi in pianto o poesia in
tutte quelle ore. Il pensiero poteva mutare, smussato dalle ipotesi continue
che non trovavano conferme né contraddittorio. Il viaggio era una pausa
obbligatoria, una sosta infinita dove ansie e preoccupazioni ingigantivano o
scomparivano del tutto. Il treno come “nonluogo” per antonomasia dove mettere assieme le
tessere di un puzzle e fantasticare a più non posso sul futuro. Dove leggere e parlare,
conoscere persone che mai più avremmo incontrato, nemmeno per sbaglio, sui
social network.
Cui poter confessare drammi mai raccontati a nessuno, nella
certezza dell’anonimato, di una distanza reale e definitiva che si riempiva di
“chissà che fine ha fatto”.
Non ci sono più “x” ed “y”, amanti appassionati raccontati da Calvino che, a causa di una variazione di orario, non potranno mai più incontrarsi. La strada interrotta non sarà un'opportunità preziosa né un
treno perso rappresenterà per qualcuno la fine di una storia.
La tecnologia ci viene in aiuto ostacolando il caso. La
tecnologia ha tolto dalle mani della vita i suoi dadi fatati. Ci ha negato l’opportunità
di stare tu per tu con un altrove anche sgradevole ma pur sempre sconosciuto e
tutto da scoprire. Conosciamo ciò che ci viene raccontato da altri e non ciò
che vediamo.
Eppure, il paesaggio continua a scorrere dietro il
finestrino. Ma, al contrario di Flaiano, non siamo più capaci di vedere gocce
di pioggia che scivolano sul vetro appannato trasformarsi in pianto.
Viaggio ancora su treni incredibili dove i ricordi ammucchiati mi attendono pazienti, sosto su banchine che richiamano tempi e amori incredibili, riconosco sbuffi e fatiche di vecchie carrozze adibite ora al solo piacere turistico. Poi salgo su una Freccia, e quella pioggia di pianto sul finestrino si smolecola in pulviscolo frantumato. Vola via come il paesaggio destrutturato, scarnificato dal dio Velocità. Tutto per scendere più velocemente. Per ricordare sempre meno.
RispondiEliminauna pagina che apre un varco nella mia memoria distratta dalla modernità ad ogni costo.Il commento di Franco Battaglia fa da contrappunto al tuo raccontare, con eguale intensità.Bello il riferimento a Flaiano:altrettanto efficace è l'immagine che Franco ci da della pioggia che si frantuma e del paesaggio distorto dalla velocità:(come se, ad essere distorta fosse la nostra percezione della realtà).
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