Sabri, operaio egiziano padre di sei figli, saggio e
rassicurante come una quercia secolare, mi ripeteva che con questi cellulari,
computer e derivazioni elettroniche avremmo finito col non ricordarci più nulla.
Nemmeno il nostro nome.
Certo, pensai all’epoca, che dopo aver portato a mente
monologhi di Corneille e fitti dialoghi di Moliere, tutti con tempi comici da
rispettare, mi sarei ritrovata a svegliarmi ogni giorno madida di sudore nel
mezzo di un incubo ricorrente: il “chi è di scena”, la platea piena zeppa di pubblico
e io che non ricordo un bel niente. Nessun costume e un copione in mano, però
senza titolo pieno zeppo di parole.
Oggi non sono convinta che le tecnologie tolgano capacità mnemonica,
penso invece che liberino spazio della nostra mente, occupato in passato da
numeri di telefono, indirizzi e nomi, oltre che da una grande quantità di nozioni
scolastiche di cui non abbiamo mai saputo che fare: tipo l’estensione geografica
di certi stati, il genere di coltivazione dei singoli Paesi, o la densità di
popolazione che cresce ormai così tanto da doverla ricontare ogni giorno.
Numeri di telefono segnati prima sulla rubrica di casa e poi
ricopiati con calligrafia fitta sull’agendina da taschino, come quella di mio
padre, scomparso prima dell’era 1.0, e su cui trovai segnati soltanto quattro
numeri, quelli che lui chiamava “vincenti”, i nostri, scritti sotto la “c” di
cuore.
Io, a parte lo sforzo sovrumano fatto durante il periodo in
cui lavoravo in teatro, recitando parti importanti per numero di battute ma
anche per presenza in scena, sono per natura distratta. Dimentico tutto ciò che
non rientra nelle mie priorità. Geografia, toponomastica e nomi, non mi sforzo
neppure di ricordarli. Ci sono cose, come la matematica, per esempio, che non
ho mai pensato neppure di studiare. Ricordo però alla perfezione facce, modi di
dire, case, strade, cose dette, silenzi imbarazzanti.
Dimenticare, o meglio evitare del tutto d’imparare qualcosa
che non mi sarà mai utile, è per me un esercizio naturale. Scarto a priori
qualsiasi elemento possa occupare inutilmente spazio nel mio cervello.
Ricordo che una volta, con un tipo, uscimmo per fare delle
foto. Era un bollente pomeriggio di agosto e tra villa Torlonia e quartiere
Trieste passammo un pomeriggio felice. Ci baciammo anche, mi ricordo. Tornata a casa
mi accorsi che non avevo infilato il rullino nella macchina fotografica.
Eppure, non ci sono foto e istanti di quella giornata che
non ricordi ancor oggi.
Ci penso perché ultimamente ho incontrato qualcuno che era
indelebile nel mio ricordo e che invece mi aveva dimenticata. Perché io stessa dimentico
e perdo qualsiasi cosa, e dimenticanza e perdita vanno a braccetto. Se
dimentico una persona, la perderò. Così come se dimentico di fare il backup al
mio HD presto o tardi perderò il suo contenuto, come mi è successo alcuni mesi
fa, perché come per la morte, si pensa che certe cose possano accadere soltanto
agli altri.
Eppure, fatto salvo il dispiacere di aver perso file di
racconti, foto (tutti gli autoscatti fatti durante la prima stesura di Justine
2.0) e migliaia di appunti, mi sono resa conto che, se da un lato il computer
nuovo e completamente vuoto mi ha gettato nel panico, dall’altro mi ha ridato
linfa vitale. Come se azzerando tutto, eliminando un passato d’imprese fallite
e matrimoni e relazioni, di risalite mai seguite da discese ardite, mi fossi
levata di dosso una pesante nube tossica.
Dimenticare può essere salutare.
A volte perdere qualcuno è una salvezza.
Rassegnarsi a ricominciare da zero per alcuni è destino, per
altri, una giusta soluzione per fare di più e meglio.
L’attaccamento a ciò che produciamo e siamo, un cumulo di
esperienze buone o cattive, può sembrare un’ancora di salvezza che, a guardarla
da un altro punto di vista non è che un’inutile zavorra.
Esatto, il pro e il contro dei ricordi..
RispondiElimina