«Mi dica del sogno».
«Quale sogno?»
«Quel sogno».
«Eravamo per strada, una strada di terra e sabbia,
argillosa, un dedalo di vicoli attraversato dal vento di scirocco».
«L’uomo, lo aveva già visto?».
«Sì. Talvolta lo incontravo per strada, seduto sui gradini
di una bottega, altre volte sulla Piazza, una Piazza assolata che finiva nel
mare, con la centro un enorme drago. Una volta mi prese per mano conducendomi
al Porto. Proprio sul molo, e mentre io guardavo il sole scomparire
all’orizzonte, anche lui scomparve».
«Nel sogno o nella realtà».
«Nel sogno, sempre nel sogno... mi pare».
«Parli, mi dica ancora».
L’uomo le passò un laccio sottile attorno ai polsi.
«La prego, continui».
«Stavolta aveva preso a seguirmi. Lo sentivo dietro di me
mentre camminavo a passo svelto per le strade strette e le bancarelle di un
mercato rionale».
«Mi racconti cosa vedeva».
«Spezie, cumino, pepe, cannella... odori forti, un caldo aberrante,
voci acute... ».
«Era giorno o notte?».
«Il cielo era seppiato, come di sabbia, il sole era un
minuscolo disco luminoso e ben visibile, come durante un’eclisse».
L’uomo le passò un’altra corda attorno al collo. Le stava
alle spalle.
La penombra da tardo pomeriggio primaverile aveva invaso
la stanza. Le piccole foglie di un ficus Benjamin si muovevano alla brezza sfuggita
alle persiane cautamente accostate.
L’abito rosso della donna era stato slacciato. Mostrava
fianchi stretti e piccoli seni. I piedi, chiusi in alti sandali di cuoio, erano
già ambrati dal sole. Il pube folto s’intravedeva, rigonfio, sotto un paio di
semplici mutandine bianche e infantili.
«Continui».
«Ci trovavamo in un negozio. Nel camerino di prova di un
negozio di abbigliamento. No... sembrava più che altro una sartoria. Dai rumori
che sentivo, mi pareva fossimo al centro di una grande metropoli».
«E l’uomo?».
«Lui mi guardava».
«Com’era?».
«Era lui, quello di sempre, l’uomo che sogno ogni notte. Era
imbronciato, triste».
«Cosa faceva?»
«Mi guardava».
«Era nuda?».
«Sì».
«Provava vergogna?».
«No».
«In ginocchio».
«Come?».
«Si metta in ginocchio».
La donna rimase immobile.
«Adesso», le ingiunse l’uomo con voce calmissima.
La donna si abbassò lentamente, facendo forza, per non
cadere, sulle caviglie legate tra loro dalla corda sottile, e sui polpacci. Si
rilassò quando finalmente sentì il tappeto sotto le ginocchia.
«Le ho domandato di guardarmi?».
«No».
La donna rimise gli occhi sul tappeto e prese
involontariamente a seguirne le trame.
«Le ho per caso ordinato di distrarsi?».
«No».
La donna fissò un punto preciso del disegno e lì lasciò lo
sguardo.
«Mi racconti del camerino della sartoria».
«Era grande, luminoso. La cornice dello specchio verde
acqua. Gli abiti, due, erano appesi alle stampelle».
«Di che colore erano gli abiti?».
«Uno rosso e uno bianco. L’uomo mi aiutava a indossare il
primo, quello bianco».
«Le stava alla perfezione?».
«Mi stava alla perfezione».
«E poi?».
«Poi cosa?»
«Mi racconti cosa faceva l’uomo. Mi racconti, la prego: la
prese per i fianchi e le infilò la lingua tra i denti... tirò fuori una lama
sottile e iniziò a passargliela sul collo e poi tra i seni... la voltò con
forza per sodomizzarla... le allargò le gambe per penetrarla con forza... la
fece inginocchiare e glielo infilò in bocca... tirò fuori dal paltò uno
scudiscio e prese a batterla... si abbassò con sguardo supplichevole e iniziò a
infilarle la lingua da qualche parte? La prese a schiaffi? Le intimò di
leccargli le suole delle scarpe?».
«No», disse la donna continuando a fissare un minuscolo
disegno giallo tra il rosso rubino del tappeto.
«Confessi».
«No, la prego... ».
«La prego io. Lei è qui per farsi curare... ».
La donna iniziò a piangere. L’uomo, senza tradire impazienza,
si avvicinò alla telecamera che lampeggiava sulla grande scrivania di legno
chiaro, e la spense.
«La sua patologia è probabilmente molto grave, farò in modo
che la sua confessione rimanga tra noi... ».
La donna rimase in silenzio. Una grossa lacrima si era
fermata sul labbro superiore. La bevve.
«L’uomo... » riprese lei con voce flebile.
«Avanti, avanti, non abbia paura... ».
«L’uomo sedette sulla sedia di legno accanto allo specchio e
tirò fuori da una sacca alcuni libri».
La donna scoppiò in un pianto a dirotto, potente e
liberatorio.
«E poi?», domandò stavolta seriamente allarmato.
«E poi iniziò a leggere... ».
Nella stanza si fece silenzio. Un silenzio teso, presto rotto dalla voce severa dell'uomo.
«E lei?, lei cosa provava?, rabbia?, indifferenza?,
felicità? Mi dica, la prego».
«Ero felice».
L’uomo prese a misurare lo studio a passi larghi, fregandosi
le mani. La donna rimase immobile in attesa della diagnosi.
L’uomo scosse la testa e la guardò negli occhi.
«Lei è incurabile. L’hanno sorpresa già due volte immersa
nella lettura di un... di un... romanzo. Un romantico francese, per giunta.
Vada via. Non posso più farmi carico delle sue cure. Questa patologia è in fase
terminale. Non è servito a niente farla partecipare a un talent show, e farla
vincere, neanche farle fare il pubblico televisivo per un anno di fila».
Chiamò qualcuno attraverso l’interfono.
Alcuni uomini la circondarono. La portarono via mentre lei,
dibattendosi, citava a memoria gli incipit più belli dei grandi classici.
spiazzante...non bisogna mai arrivare a conclusioni facili, insomma. eppure il titolo aveva tentato di avvertirmi...... Silvano C.
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