Il piacere di
rivederlo fu pari alla delusione di capire che di me e di quei giorni
assieme, lui non ricordava niente. È strano come tra tanti ricordi riusciamo a
tenerne vivi alcuni e a ucciderne altri. Mi domando anche quale sia il criterio
di scelta, se il senso di colpa, l’incuria o la più semplice indifferenza.
Quante “me” esistono nel ricordo di qualcuno, e quante invece sono scomparse
dalla memoria di un altro? Perché una dimenticanza equivale a un omicidio, e che
Vittorio mi avesse uccisa lo capii in quell’istante, alla cassa della libreria
affollata di una strada del centro, quando nel cedermi il passo, non mi rivolse
che un breve sguardo e un sorriso di circostanza, quello di uno sconosciuto
qualunque.
Quando Alex
mi propose di andare a Mercadante per il ponte del 25 aprile gli dissi subito di
sì. Non mi domandai come ci saremmo arrivati, da liceali e senza patente. Non
mi chiesi nemmeno se i miei mi avrebbero dato il permesso. Ma a sedici anni si
può tutto. E così mi lanciai verso l’ignoto, un viaggio che sarebbe iniziato il
venerdì successivo alle otto e trenta davanti al solito bar, vestita con roba
pesante e munita di sacco a pelo.
Vittorio, il
fratello grande di Alex, era alla guida della sua cinquecento rossa.
Avevo
sognato di pomiciare in quell’auto con lui alcune migliaia di volte, sempre
durante le lezioni di Greco, mentre il professor Marvulli, dopo averci
garantito un nostalgico sei politico, procedeva nel suo monologo poetico e
sicuramente interessante.
Vittorio era
bellissimo. Un Mastroianni intinto in Bardem e rifinito con un po’ di Bruce
Willis.
Maschio,
terribilmente virile e torbido. Scuro, villoso e lievemente profumato di patchouli.
Litigioso, sempre in testa al corteo o nel servizio d’ordine, la bandana rossa
e le clarks consumate, la borsa di cuoio piena di cicche, filtri, tabacco e
fumo. Sempre pronto al confronto dialettico in assemblea, sempre in prima linea
nella lotta per i diritti.
Stando agli
sguardi delle sue donne, diverse e tutte belle, potei supporre fosse anche un
maschio esperto.
In realtà
aveva soltanto ventitré anni, ed era un maschio e basta. Di quelli che se ti
prendono per mano sai già che non sarà per sempre, ma che ti fanno cedere
comunque in un istante, cedere all’illusione, a quella propensione istantanea all’innamoramento,
che dura un solo attimo, ma è sempre intensissimo, che bisogna godersi fino in
fondo perché diventerà via via sempre più raro fino a essere dimenticato nel
nulla. Ucciso, come Vittorio aveva fatto con il mio ricordo.
Anche quel
mattino rise, sfiorandomi le labbra come si faceva tra compagni. Come sempre mi
spettinò i ricci, e come ogni volta mi domandò di accendergli una sigaretta.
Alex, sul
sedile posteriore con me, si divertiva a rollare canne, la tizia che stava con
Vittorio cantava lievemente, io guardavo Vittorio, che guardava la strada piena
di curve tra la campagna. Una nebbia leggera rendeva tutto surreale, anche il
sorriso che Vittorio mi restituì dopo aver intercettato il mio sguardo nello
specchietto, e l’espressione severa che fece poi, quando si domandò perché lo
stessi fissando.
Ci
conoscevamo da anni. Ci vedevamo quasi ogni giorno. A casa sua, in cucina,
quando Alex ed io ci prendevamo una pausa dai libri e lui anche. Conoscevo i suoi
piedi lunghi e magri, la risata che riempiva di sole anche le giornate più buie.
Le sue battute sui professori. Gli slogan che la notte avrebbe scritto sui muri
di una città di provincia che gli stava già stretta.
Io e il mio sguardo in estasi ai suoi racconti di guerriglia
urbana… roba che a vederlo lì in libreria, più di vent’anni dopo, con ai piedi
nuovissime Endless Ceremony non l’avrei nemmeno immaginato.
Comunque,
già quel mattino, mi seguì con lo sguardo, in autogrill, mentre sculettavo
vistosamente verso i bagni. Lo vidi chiaramente quando mi voltai verso Alex urlandogli
di comprarmi birra e sigarette. Perché a sedici anni si può tutto. Anche bere
una doppio malto di prima mattina.
Arrivati
alla masseria, furono distribuite stanze e mozziconi di candela per la notte. Ci
lanciammo sul letto. Io e suo fratello, naturalmente.
Credo di
aver finto il miglior finto orgasmo della mia vita. Le camere erano adiacenti, Vittorio
avrebbe potuto sentirmi e Alex, credermi.
Poi corremmo
tra i boschi. La primavera prepotente nelle narici e nella testa.
Mi finsi
esperta di brace e di arrosto, così da metter Alex e la tizia in cucina, a
tagliare insalata e pomodori.
Io e
Vittorio restammo per un po’ in silenzio. Un silenzio pastoso e morbido che
prelude sempre a qualcosa.
Di tanto in
tanto mi passava da fumare. Ci guardavamo e scoppiavamo a ridere. Impacciati,
come si può essere da ragazzi.
Il fuoco, il
vino e la mia naturale attitudine al rischio, fecero sì che gli passassi la
mano sulla nuca, che lo guardassi solo un attimo, e che quell’attimo bastasse a
dirgli tutto.
Forse dissi
anche un po’ troppo visto che Alex, entrando, fu costretto a interromperci tossendo,
nascondendo subito in quella comicità da pagliaccio, più di una punta di
dolore.
Cantammo
fino all’alba. A quell’epoca una chitarra c’era sempre, e anche una voce lieve
come quella della ragazza, che per tutta la sera non aveva fatto che intonarne
di nuove senza badare a me a Vittorio che ci sfioravamo con ogni scusa.
Dormimmo
come si può non dormire a quell’età, un’insonnia piena di sogni e non di
affanni, quella che raggiungono anche i saggi, o chi non ha più niente da
perdere.
Il bosco ci
accolse ancora a mezzogiorno e risuonò delle nostre risate. Il pomeriggio passò
pigro e lento. Alex leggeva fumetti, la ragazza disegnava, io guardavo Vittorio
che fingeva di fare un solitario, e che aspettava non lo guardassi più per
potermi a sua volta guardare.
A tavola mi
passò un biglietto. Le strategie sono sempre le stesse, che sia Valmont o
Vittorio G., che si viva settecento, nel post sessantotto o nel 2014.
Quando alle
cinque del mattino mi trovai davanti alla stalla mi tremavano le gambe. Non era
il freddo ma la consapevolezza di andare incontro a qualcosa di grosso.
Vittorio mi
prese alle spalle e posò le sue labbra forti su ogni benedetto centimetro della
mia nuca. Il freddo di un aprile battuto da una tramontana del tutto fuori
luogo era un lontano ricordo. La sua sapienza di studente in medicina, no.
Fu tutto
come doveva essere. Anche la luna piena che ci guardava dalle travi sconnesse
della stalla.
Per una
sedicenne qualcosa da ricordare a vita, per lui, evidentemente no.
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