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mercoledì 29 agosto 2012

La mia Barbie viveva in una comune






La Mattel crea modelli di Barbie che rappresentino ogni bambina. Ma è sempre e comunque il desiderio di far rientrare ognuno in una categoria che spinge le multinazionali a differenziare i prodotti. Non vogliono “accontentare” il cliente, ma ingabbiarlo affinché rimanga nella sua scatola di cartone con il nome e la tipologia bene in vista.
La differenza è sottile ma c’è, perché il diavolo è sempre nei particolari.
Il fatto è che i bambini sono sufficientemente capaci di ingabbiarsi o differenziarsi in modo da creare il proprio percorso oltre i modelli imposti adattandosi, invece, a quelli assai diversi che vedono –e troppe volte subiscono- nella vita adulta. E lo fanno nonostante l’educazione, perché alla fine, quel che un bambino guarda è sempre tutto ciò che l’adulto gli vuole nascondere.

Dopo che mia nonna, fiera di aver studiato in un collegio svizzero, mi aveva costretta per delle ore, fissandomi muta con i suoi occhi di ghiaccio, a camminare per il salone con pesanti volumi sulla testa e a imparare le regole del bon ton, non vista e all’ultimo piano della grande villa appena fuori città, costruivo il mio futuro incerto nella stanza dei giochi.
Perché la mia fantasia si sviluppasse adeguatamente, i miei, pur cedendo all’acquisto delle Barbie, avevano bandito tutti i gadget della famigliola Mattel, come la grande casa, la roulotte, la tenda da campeggio, la cucina, la motocicletta e l’auto rosa -da qui la mia avversione per questo colore-.

L’enciclopedia Britannica, che grazie ai suoi volumi eleganti mi aveva consentito di mettere su per la mia favorita un residence extralusso con tanto di giardino e piscina –una bacinella azzurra mi pareva più che adatta-, mi fu presto sottratta. Il mio gruppo di Barbie fu quindi costretto a domandare un mutuo costosissimo per vivere sotto il tetto de “L’uomo senza qualità”, Einaudi, copertina rigida color canna da zucchero.
Vissero felici per alcuni mesi finché, anche quel condominio, più piccolo ma giusto per lo status sociale delle mie amiche, fu riportato all’uso originale e impilato questa volta nello scaffale più alto della libreria.
Non mi rimasero che “I quindici”.

Gli appartamenti erano così piccoli e angusti che decisi di farne una comune.
Le mie piccole donnine bivaccavano pigramente tutto il giorno, e non avendo fornelli, compravano pizze e panini al bar all’angolo. Fu lì che la mia Barbie Hawaiana, a causa di un attacco di bulimia notturna, conobbe Skipper e con lei iniziò una relazione.
Presto, ognuna di loro prese possesso della personalità più giusta. Ad alcune tagliai i capelli per relegarle a ruoli maschili o di semplici cameriere, altre dirigevano giornali e altre ancora sospiravano alla ricerca dell’uomo più giusto, quel Ken biondo e dal sorriso stupido che guardavamo assieme attraverso la vetrina di “Baby Park”.
Nella comune –eravamo negli anni settanta- la vita scorreva quieta nonostante i litigi continui: l’ansia da rendimento di Barbie filosofa che a ogni esame aveva crisi acetonemiche, di Barbie uomo con crisi d’identità, di Barbie cameriera che faceva vertenze sindacali e che a ogni sentenza a suo favore s’impossessava degli abiti delle altre, per non parlare delle questioni razziali che affliggevano Barbie africana, relegata al ruolo di ballerina di ultima fila.

Ma quella quiete non poteva durare troppo a lungo, infatti, durante una festa di carnevale, vinsi un poderoso Big Jim.
Era diverso, aveva un fascino davvero speciale e soprattutto stava in piedi. E per me quello fu il vero miracolo perché le Barbie, sempre sulle punte come le Geishe, trovavano quiete solo sedute o distese.
Dunque fu amore a prima vista e organizzammo una grande festa a base di tequila. All’alba decisi per una retata, e Barbie brigatista, trovata in possesso di volantini rivoluzionari, fu messa in galera.
Sarebbe stata liberata mesi dopo da Barbie avvocato ma dopo aver conosciuto, tra quelle grigie pareti, l’amore per Barbie guardia giudiziaria, e aver scritto l’autobiografia della sua vita e che sarebbe diventata libro dell’anno.

Un solo Big Jim aveva creato uno squilibrio enorme, certo aveva un mucchio di qualità irrinunciabili, ma quello che era un pacifico gineceo si era trasformato in un harem.
Così, in un battito di ciglia.
Era forte, sorrideva sempre, non gli sarebbero mai cascati i capelli e aveva braccia pieghevoli adattissime per fare certa roba e nonostante le mie Barbie rimanessero sempre un po’ algide ai suoi arrembaggi passionali. Nonostante gli sforzi –e non chiedetemi come fossi venuta a conoscenza di certe cose-, non riuscivano mai a mettere in pratica certe posizioni e nemmeno a limonare come si vedeva nei film.
Pur destinato inizialmente a Skipper -affetta da ansia di abbandono- il mio Big Jim si dava da fare un po’ con tutte.

Nella comune l’aria era irrespirabile. Serpi covate in seno tramavano velenosi inganni.
Serviva una leader.
L’eletta, in abito bianco di pizzo, arrivò nel gruppo a Natale, assieme al suo Ken: era Barbie sposa con braccia pieghevoli.
Dopo avere ascoltato le calde raccomandazioni che non le dilaniassi l’abito e non le tagliassi i capelli, riuscimmo a stare a tu per tu.
Diventò la mia favorita, la più intelligente e l’unica in grado di guidare il gruppo. Trasgredì subito al ruolo per cui era stata creata –come me agli ordini di nonna-, e lasciato Ken dalle braccia rigide alle amiche, infilò una minigonna rossa e si fidanzò con Big Jim.
Ken, depresso, si mise con Skipper e fu denunciato da una Barbie maschio per abuso di minore. Al Processo fu salvato da Barbie attrice che testimoniò in suo favore.
Uscito di galera, uno spazio della stanza era riservato alle fantasiose architetture dell’ospedale, del manicomio, del Tribunale e della prigione, pensò bene di vendicarsi.

Ma la genia dei Big Jim era cresciuta: tra regali spontanei e pianti davanti alla vetrina del negozio e scioperi della fame, ero riuscita a mettere assieme altri maschi tracagnotti.
Con un Ken e quattro Big Jim riuscii a riportare la pace nella comune. Certo, di tanto in tanto si litigava ancora, ma con l’abolizione della monogamia fu pace fatta.
Le mie Barbie non hanno mai guidato un’auto e nemmeno io.
Si sono sposate più volte e non hanno avuto bambini.
Sicuramente si sono divertite tantissimo, hanno girato il mondo e hanno conosciuto presto lo sguardo diffidente delle altre Barbie che, ben inquadrate nelle loro casette rosa, tra piscina rosa, macchina rosa e cavallo rosa, non le invitavano nemmeno per un tè.

(Foto: Foto: http://www.bonsai.tv/wide-foto/barbie-serial-killer/barbie-serial-killer-005/)



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