Appuntamento a Fiumicino
(Racconto)
Foto di: DANIELE DEBERNARDI
Foto di: DANIELE DEBERNARDI
Quella sarebbe stata la quarta partenza in un mese.
Marina, pur di levarsi di mente quell’ipotesi orrenda, da
tempo portava gli abiti del marito in lavanderia. Il terrore che nel
controllare le tasche, un biglietto ben ripiegato, un post it colore pastello
con grafia post adolescenziale potesse finire nelle sue mani, vinceva ogni
resistenza razionale.
Era la sua furia incontrollata che la sorprendeva ogni volta,
quel fingere sempre che non fosse vero niente e invece serrare i pugni per
lanciarsi piena di rabbia su quella bestia di uomo.
Solo quando riusciva a metterselo sotto i piedi quel narcisismo
maschile incontrollato, stava meglio. E lo umiliava, tirando fuori l’unico
argomento in grado di privarlo, appena un po’, di quella virilità che andava
distribuendo in giro da anni: la sua forza economica, il potere sociale di suo
padre e il suo nome.
Con il “chi cazzo sei senza di me” di chiusura, Marina si
sentiva più leggera, ma solo dopo le scuse rinnovate, il pianto e l’abbraccio,
il ridere assieme convulso tra lacrime e senso di colpa e al termine di un
orgasmo doloroso e sempre più breve, la donna riusciva a calmarsi veramente.
Tutte le volte lo lasciava nel letto e andava a farsi un
bagno caldo.
Era felice di sentirlo di là e immobile, di non vederlo
trafficare nemmeno con il portatile e quel maledetto I Pad, per un po’ lontano
dai social media pieni di occasioni del cazzo.
Le trovava quasi tutte lì.
Disponibili anche per week end non impegnativi.
Se fosse mai riuscita a violare le password del marito, sarebbe
morta di dolore prima di saltargli al collo.
In quel bagno perfettamente alla moda e perfettamente
lucido, Marina scioglieva il nodo della cintura facendo scivolare via la
vestaglia sottile. Ogni volta guardava il suo corpo infantile e troppo magro e
si diceva che l’indomani avrebbe prenotato dei massaggi: l’unica opportunità che
qualcuno la accarezzasse a lungo e con cura.
Poi, nell’acqua profumata di sali dai nomi esotici,
tracciava una linea perfetta e metteva in fila i pro e i contro. Razionalmente,
come le avevano insegnato madre e nonna, quando bambina ascoltava le loro
conversazioni sulle arti magiche di riprendersi un uomo.
Ci aveva sempre creduto nel suo matrimonio bello e
importante.
Mostrarlo alle amiche –che Matteo seduceva ogni volta - alle
zie, alle colleghe.
Organizzare cene e costruirgli la carriera, dargli consigli
su gusti e modi che un ex cantante rock di periferia proprio non conosceva.
Suo marito era bello, era perfetto per la sua vita e per la
casa discografica di suo padre.
Sempre politicamente in linea con tutti, mai sfacciato e
pieno di guizzi creativi e buone maniere.
Marina amava la gentilezza che scaturiva dal cuore e non
dall’obbligo, e forse era stato proprio il suo atteggiamento attento verso
l’umanità che l’aveva sempre piegata al perdono. L’altra faccia della
propensione al tradimento.
Sarebbe partito per Londra il giorno dopo.
Come da rito decennale l’avrebbe accompagnato lei spostando
appuntamenti di lavoro e saltando palestra e psicoterapia.
Anche se quel breve viaggio in aeroporto era una
consuetudine che non si poteva interrompere così, senza una vera ragione,
Marina avrebbe tanto voluto evitarlo.
Aveva una premonizione, uno strano brivido interiore.
O forse è la solita paura irrazionale, provò a pensare prima
di finire di preparare la valigia e andare a cena.
Le mani larghe di Franco stringevano il volante. Di tanto in
tanto lanciava occhiate eloquenti alla nuova compagna.
Nuova e passionale, Sonia l’aveva conosciuta durante un
inutile Meeting sulla Comunicazione. L’intesa era stata magnifica e
l’intenzione di approfondire quella relazione superava la paura del solito
risveglio nell’incubo della consuetudine.
A cinquant’anni e con una carriera di quel tipo poteva anche
permettersi di rilassarsi un po’. E poi non ne poteva più delle recriminazioni
di sua madre e dello sguardo nostalgico che lanciava alla vista di ogni bambino
che vedeva per strada o in televisione.
Sonia gli sembrava una ragazza per bene.
Così la voleva, senza troppi grilli per la testa e normale.
Le donne troppo intelligenti o troppo ricche o troppo qualunque cosa non gli erano
mai piaciute se non per fine settimana intensi per locali e a letto.
Era concentrato prima di tutto su se stesso, avere accanto
chi mettesse in dubbio punti fermi e di arrivo era una possibilità scartata da
sempre.
Sonia era giusta.
Anche quella gonnellina pieghettata a fiori, appena sopra al
ginocchio, i capelli lisci e ordinati, la fronte ampia sullo sguardo mansueto.
Anche le unghie corte e mai dipinte di colori accesi, come rossetto e trucco.
Gentile, mediamente colta, silenziosa.
Una donna perfetta da esibire senza dover tenere gli occhi
troppo aperti.
E poi piaceva a sua madre e tanto bastava. Ne aveva fin
sopra i capelli -pochi- di storie complicate che non lo facevano dormire, di
donne passionali e poco lucide, di disquisizioni insopportabili sul senso della
relazione.
Si sarebbero sposati entro l’anno.
Rassicurante e rassicurato, le passò una mano sulla coscia. Lei
sorrise.
Sarebbe stato bello andare a Londra assieme ma assai più
salutare qualche giorno di distacco.
L’aeroporto faceva sempre lo stesso effetto a Marina.
Le metteva addosso la tristezza di quando bambina lasciava
la mano del padre rassegnata alle giornate di inquietudine e a quel prepararsi di
sua madre al solito ritorno caotico e violento.
Si chiama coazione a ripetere, confermò a se stessa lanciando
uno sguardo al tabellone delle partenze e all’orologio da uomo che teneva al
polso destro.
Attraverso i tradimenti di Matteo provava a giustificare
tutto il dolore che i suoi occhi bambini avevano guardato. Così le aveva detto
l’analista.
Rassegnata alla condanna, lasciò la mano di Matteo e rimase
a guardare una coppia pochi metri più in là.
Lei era leziosa in modo insopportabile. Anche il modo di
guardare il suo uomo le sembrava fasullo. Una del genere “santa appesa alla
parete” in cerca di un buon partito.
E ce n’erano. Eccome. Tra le sue amiche almeno una decina.
La falsità di quella ragazza si esprimeva nel cambio
repentino di espressione di cui lui, però, non sembrava accorgersi.
Si conoscevano da poco. Lo capiva dalle braccia conserte
dell’uomo e dal gesticolare dimostrativo di lei che faceva tintinnare
braccialetti e collane.
«Ti penserò»
«Anch’io, tanto. Tieni il telefono vicino, nel caso avessi
paura».
Franco si eccitava fisicamente a quella fragilità infantile.
L’abbraccio forte durò più di qualche istante e così il bacio sulla bocca.
Attese finché lei, e i suoi sonagli, e la gonna fiorita non scomparvero nel
grigio aeroportuale.
«Matteo, cerca di non spegnere quel cazzo di coso».
Matteo si passò una mano sulla fronte ma evitò di dirle ciò
che gli premeva: le solite bugie.
«Guarda che c’è anche Bonifazi. Evita di portarti le troiette
alle cene ufficiali perché tempo tre minuti lo saprò anch’io».
Sospirò e strinse le labbra «Se proprio ti scappa, pagala» e
si mise ben dritta sulle gambe, felice di quell’arrivederci crudelmente
pragmatico.
Lui le passò il braccio sulle spalle, le sfiorò le labbra, e
a passo svelto andò verso il Gate.
«Stronzo!»
«Dice a me?» si sorprese Franco in un misto di colpevolezza
e risentimento.
«No, mi scusi... » Marina rise debolmente e scosse la testa.
«Il caldo, la confusione, certe storie... sa... posso offrirle un caffè?».
«Non c’è bisogno... ma... beh, sì, ne prenderei uno
volentieri».
Franco le cedette il passo e si avviarono alle scale mobili.
L’urgenza di piangere travolse Marina alla vista di quel
petto ampio su cui appoggiare la testa. Franco pensò subito alle tracce di
trucco che vi sarebbero rimaste impresse, ma ricordandosi del cambio che da
sempre teneva in ufficio, incoraggiò la sconosciuta accarezzandole la testa
riccia.
Camminarono un po’ senza direzione. Le lacrime di lei nei
grandi occhi chiari si confondevano a parole e storie che sembravano non
esaurirsi mai. Ma pazienza, pensava Franco, non aveva appuntamenti.
Dopo il caffè e ancora un lungo e quieto parlare, e lo
scusarsi e il raccontarsi ancora, si diressero al parcheggio.
«Che ne dice di un fuori programma al mare».
Marina gli dedicò un sorriso spontaneo e infantile.
«Però dammi del tu» aggiunse salendo sull’auto di lui.
Si scambiarono pietanze, brindarono a tutto il meglio che da
lì in poi avrebbero goduto e al deserto che li circondava. Il sole autunnale si
avviava al tramonto.
Erano soli.
Il vecchio cameriere dalla “r” francese e i modi gentili
faceva la settimana enigmistica tre tavoli più in là e il giovane, del tutto
distante dalla realtà, si dava da fare con un gioco elettronico e guardava
Maria De Filippi in tivvù.
Marina e Franco non parlavano più.
Adesso lei sapeva che la premonizione irrazionale era
quell’incontro.
Lui conosceva bene l’urgenza che adesso aveva nei pantaloni.
Un rivolo di vino rosso solcò il suo mento ruvido di barba
pomeridiana.
Marina si alzò, lentamente fece il giro del tavolo, si chinò
e saziò la sua sete passandogli la lingua sul mento sino alle labbra forti.
Franco non pensò nemmeno un attimo a Sonia e al cellulare
che squillava. Pagò il conto che già gli tremavano le gambe.
Uscirono dal ristorante tenendosi per
mano.
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