A New York dovevo proprio andarci.
Raccontando di un fantomatico turno di doppiaggio alla presenza del regista statunitense ero riuscito a evitare il funerale di mio padre, ma per la lettura del testamento non avevo nessuna scusa plausibile.
Mi metteva ansia l’idea di rivedere casa, mettere mano ai suoi cassetti, foto e lettere, al nostro passato comune che lui teneva bene in vista e io, al solito, avevo deciso di cancellare assieme al mio cognome.
Per un economista del suo calibro non era stato facile accettare la mia predisposizione all’arte.
Su di me, invece, sul mio viso e sul mio animo, perfino la sua morte sembrava non aver lasciato segni.
L’aeroporto è per me una zona franca. Forse perché ci ho passato molte ore della mia infanzia, affidato a hostess premurose o a baby sitter.
In quell’atmosfera ovattata mi sento a mio agio, riesco a valutare con maggior disincanto la mia situazione, a perdonarmi l’abitudine a non fermarmi mai più di tanto in una città, in un locale, a una festa così come in un letto. La capacità che ho di non soffermarmi nemmeno su un’idea o un progetto, come se, alla fine, avessi deciso alla nascita che niente val la pena di essere vissuto. E forse sarei anche morto con la convinzione che per non ferirsi è sufficiente non esporsi troppo, non fare congetture di alcun tipo né progetti per non restare deluso. Veleggiavo sulla mia barca con la costa bene in vista.
Certi naufragi si possono evitare restando nel Porto, rendendosi invisibili al mondo usando pseudonimi e ottimi avvocati che decidano sempre al posto nostro.
E anche quel viaggio era una routine.
Valigia, taxi, il pranzo frugale, caffè e un buon libro.
Voci e musica mi cullavano nella sala Vip della compagnia aerea, mentre fuori si alternavano facce e le loro parole senza audio.
È stato così, forse, che ho iniziato a fare doppiaggio. Abbandonato da mio padre sulle morbide poltrone delle sale d’aspetto, sempre chiuse ermeticamente, mi divertivo a dare voci e storie alle bocche in movimento che mi passavano davanti.
La ragazza esile portava un cappotto blu notte. Il baschetto, sui capelli scuri disordinati sulla fronte in ciocche lucide e lisce, le dava un’aria da orfanella triste. Sentii subito un brivido intenso salire sino alla nuca e intorpidirmi il cervello.
Avevo bisogno d’aria. Così uscii.
L’idea di dover passare una settimana tra gli amici newyorkesi mi metteva a disagio. Esibire i miei successi e farmi termine di paragone con i miei numerosi fratellastri, mi aveva sempre provocato insofferenza.
Ma non era per nessuna di queste ragioni che volli uscire da lì. E in realtà non avevo nessun bisogno d’aria.
La ragazza esile, del tutto estranea a ciò che le accadeva attorno, si dava da fare con il cellulare: scriveva, rileggeva, correggeva e inviava, aspettava, leggeva, dissentiva e rinviava.
Che fosse una giornata di merda per lei era evidente. Forse della calza smagliata non le importava nulla, ma della cinghia rotta della pesante cartella di cuoio che doveva contenere portatile e appunti, sicuramente sì.
È stato allora che mi sono fatto avanti. Quando l’ho vista in difficoltà all’imbarco, impegnata a reggere quel peso e a cercare il passaporto nella borsa.
Quando ci siamo ritrovati a una poltrona di distanza, oltretutto vuota, pensai con orrore alla noia di quelle ore di viaggio seduto accanto a una giovanissima e probabile artista, sicuramente finta sottoproletaria, che mi avrebbe raccontato con enfasi cose che sapevo già: malgoverno, evasione fiscale, mancanza di ideologie.
Invece, la ragazza esile non mi rivolse né sguardo né parola.
Dopo il decollo, e disposti sul tavolino un grosso quaderno, tre penne da disegno, tre matite con mina sottilissima e una gomma da cancellare, la ragazza, con ancora addosso il suo cappotto blu notte, prese a guardare davanti a sé senza muovere più nemmeno un muscolo.
Quando si mosse, ero al secondo tempo di un film di cassetta di cui mai ricorderò attori o trama ma che mi era servito come alibi per non alzarmi da lì, e lasciare l’attenzione della mia vista laterale su di lei, e su quella porzione di sguardo che mi pareva curiosamente riflessivo.
Quando si svegliò dallo stato di trance nel quale era rimasta avvinta per più di quaranta minuti, domandai alla hostess una bottiglia di champagne e due bicchieri.
Al secondo giro mi stava già raccontando di come avesse perso la verginità a tredici anni. Al terzo, prese a espormi le sue argute teorie sul genere maschile.
Al quarto, ero completamente in panne.
La teoria sull’uomo di transizione, così lo aveva chiamato leggendo alcuni passi dal suo quaderno, mi aveva folgorato.
Noi donne abbiamo tutte dei buchi da occupare, disse seria, senza che nel tono della voce, né nello sguardo, ci fosse il benché minimo accenno al doppio senso e alla battuta da social network. Sì, aggiunse apprestandosi a esporre il suo assunto come una liceale seria.
Devi sapere che ci sono molti uomini giusti a fare da ponte tra una storia importante e l’altra, in un periodo nel quale non abbiamo relazioni serie e nemmeno ne vogliamo ma, faccio per dire, abbiamo bisogno di qualcuno che ci mantenga.
Certo, dissi io, senza pensare alla gravità di quella rivelazione.
Non c’è niente di male, disse lei anticipando la mia domanda. In quel momento, proseguì, quando decidiamo di stare con l’uomo “ponte”, siamo consapevoli che lo stiamo usando. La maggior parte delle volte, disse cercando di semplificare il concetto, non siamo per niente convinte che sia vero amore quello.
Poiché continuavo a guardarla con uno sguardo probabilmente vuoto, chiuse con un “per me è così”, e accese il monitor fino a quel momento rimasto spento.
Cosa potevo dire, io.
Schiacciato in quell’idea di “uomo di transizione”, di compagno da condurre a eventi mondani, di una scopata rapida tra un ristorante e l’altro.
Avevo sempre guardato dalla mia parte dandomi pacche sulle spalle per gli appuntamenti mancati e i continui cambi di numero di cellulare. Non avevo mai provato a domandarmi cosa le donne cercassero da me, che genere di uso volessero fare del mio nome e dei miei soldi, illudendomi di essere il loro unico oggetto d’amore.
Che dall’altra parte potessero esserci le mie stesse resistenze e convinzioni, mi aveva gettato nel panico.
Soltanto adesso, oltre le nuvole e verso un magico tramonto le riguardavo tutte. Francesca, Alba, Rosaria, Michela, Anna. I loro addii dallo sguardo asciutto. Quel “le storie non finiscono mai”, cui era seguito un infinito silenzio. La notizia del matrimonio con un altro. Dell’amore improvviso e del colpo di testa.
Schiacciato contro l’oblò, rabbioso e offeso, ripensavo a Giovanna e alla sua scarsa disponibilità: lavoro, soldi, salute. Tutte palle. Non ero che un “uomo di transizione” qualunque. Le storie sulle quali non mi ero soffermato, da laggiù mi deridevano. Le loro risatine complici e quei “non te lo dico” beffardi, erano ora chiari ed eloquenti.
In quarantotto anni non ero stato che la pausa tra una storia importante e l’altra.
Quello di cui non conservi nemmeno le foto per quanto insignificanti, come mi aveva detto la ragazza esile a prova della sua teoria.
Ero il tizio che quando ti arriva sul social network lo metti nella lista dei conoscenti. Nemmeno degli amici. E nonostante gli anni di fratellanza scopatoria!, come aveva ribadito, elencandomi poi i nomi dei suoi ex finiti nel cesso.
In un romanzo si potrebbe fare in modo che io, l’uomo di transizione, decida di cambiare rotta e prendere il largo lasciandomi la costa alle spalle. Si potrebbe pensare di redimermi perché m’innamori e metta su famiglia. Potrei anche andare in rovina, in un finale dal sapore psicanalitico, lasciarmi sopraffare dai sensi di colpa fino a suicidarmi. Ma nella realtà i cambiamenti non sono mai così repentini. E questo racconto, purtroppo, deve stare in poche cartelle.
Così, non mi rimase che domandare, alla ragazza esile, il numero di telefono.
Lettura che mette il cuore in tumulto:avvincente.
RispondiEliminaInteressantissimo e anche molto vero
RispondiEliminaL'inizio del racconto"snocciola"veloce.Sembra la storia normale di un'uomo e del suo "patos".Ma l'apparizione della ragazza esile imprime un'accelerazione che mi fa trattenere il fiato.I miei pensieri cambiano corso.Ora è lei che osservo:sono attratto dal suo fare.Incuriosito,dalla sua presenza.Lo champagne che ordino dovrebbe portare la storia verso un esito scontato:ma non è così.La ragazza esile con feroce calma apre un varco nelle mie certezze,usa la sua persona come un bisturi e mette a nudo la mia vita nel profondo dell'anima.Mi sento perduto,derido me stesso e le mie convinzioni.Ricordi recenti e passati si rincorrono dentro di me nel breve spazio di quell'incontro .Soggiogato:ormai in balia della ragazza non mi resta che chiederle il suo numero di telefono.Ma so già che non andrò a quell'appuntamento. @eliodoro948
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RispondiEliminaE anziché fare finta come se si fosse in un romanzo, pensare invece di essere nella realtà, e decidere repentinamente di cambiare totalmente le proprie abitudini? Innamorarsi, mettere su famiglia, oppure lasciarsi alle spalle la riva della sicurezza e affrontare con decisione lo spazio largo della vita... No eh ?. Lucky
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