Quando si lavora in teatro è impensabile prescindere da tradizioni e convenzioni, né tantomeno dal rigore. Nemmeno praticando la meditazione dei samurai ci è concesso trasgredire le regole. Colpa mia, quindi, della formazione che ho ricevuto, un po’ sovietica, giapponese e vecchio stampo, se mi sento spesso fuori posto.
La prima qualità di una persona è il rigore, diceva mio nonno, fissandomi severo, senza stemperare mai lo sguardo acuto con un sorriso, nella speranza, credo, che quelle parole mi si sarebbero così impresse nella memoria. Stava sempre in giacca da camera mio nonno, elegante come se da un momento all’altro potesse entrare dall’ingresso padronale chissà quale personalità anziché la donna delle pulizie. Perché per lui faceva lo stesso.
Ma si parla di amenità analogiche, roba vecchia, lo so, me lo ripeto ogni giorno.
Vano, il mio bisogno di comunicare il senso di disadattamento che provo in tutto questo mandarsi a fanculo quotidiano e un po’ gratuito: tra politici, tra cittadini, alle poste, al semaforo, sul web, in autogrill dove c’è quello che mi passa davanti, come un bisonte, facendosi spazio con il suo corpo deforme stipato in un giubbottino di pelle. Ciò che è fuori è dentro, e se sei un animale vestito da uomo lo sei nel tuo complesso, e non perché hai problemi di tiroide, ma per come appoggi il tuo lurido sguardo su una donna, meglio se non accompagnata.
Eppure, quell’educazione mi è stata utilissima a non sentirmi mai fuori posto. A parte adesso, oggi, qui, in un momento storico che ci insegna a passare su tutto, anche sulle esperienze altrui. Perché l’educazione c’entra poco con il vuoto formalismo, è qualcosa che ha a che fare con il rispetto e con il più bieco opportunismo. Sì, opportunismo. Perché dire il proprio nome e cognome presentandosi, magari sorridendo, anziché biascicare un informale e imbarazzato “salve”, è un modo per dare all’interlocutore la possibilità di sapere chi siamo. Può succedere in fila alle casse del supermercato con un vicino di casa che ho intravisto e al quale, un giorno, rincorsa da un furioso assassino, potrò domandare aiuto. Perché nulla è dovuto.
Non è così difficile capire che certe robacce chiamate “regole”, e il rigore interiore che serve a metterle in pratica, sono utili soprattutto a noi stessi. Così come non è complicato capire perché una madre non debba permettere alla propria bambina di appoggiare le suole delle sue splendide scarpine, comunque sporche, sul sedile del vagone della metropolitana o del tram. Un giorno potrebbe capitarle di sedersi su un sedile sporco e inveire contro la maleducazione, che è sempre degli altri, e magari tuittarla.
Ma forse mi sfugge qualcosa, ossia che nella maggior parte dei casi non ci si domandi più con chi si ha a che fare. Così presi a dare un peso alla nostra esistenza cercando di lasciare un segno nella storia con frasi a effetto, tralasciamo del tutto il peso degli altri.
Rigore significa applicare la buona educazione soprattutto con se stessi, intraprendendo un’azione per portarla a termine. Facendo sì che la propria vita sia ben spesa.
Ma costa fatica mettere in moto il cervello prima di fare o dire qualcosa.
Permettendoci tutto in nome di una libertà presunta, facciamo delle nostre esigenze e dei nostri bisogni primari il baluardo della nostra incapacità di rispettare gli altri. Gli altri, sì, quella massa comunemente chiamata “di stronzi” tra i quali, andando avanti di questo passo, rientreremo proprio tutti.
Colpa mia se ho imparato e riconosciuto l’importanza del rigore. Ecco perché mi sento fuori posto.
Il rigore che mi ha permesso di capire che, se nella “piramide umana” dovrò salire per ultima, preparazione atletica e concentrazione dovranno essere ineccepibili, quindi, essere lasciata dal Maestro russo in palestra, sola e durante la pausa pranzo, a fare duecento addominali in più perché ne ho saltati soltanto due, un senso ce l’ha.
È meglio dare di più, perché anche la volontà è un muscolo, e va esercitata. Perché il giorno in cui vorrò mettere le mani addosso a qualcuno, seppur con tutte le ragioni del mondo, riuscirò a frenarmi, a battere la lingua al palato dieci volte, e a dirmi che non ne vale la pena.
Anche la determinazione è un muscolo, se la esercito avrò più probabilità di riuscita quando dovrò fare i conti con gli impedimenti, gli ostacoli disseminati sul mio cammino.
Abbiamo tutti la facoltà di essere felici, basta deciderlo, mettendo ordine tra le priorità, distinguendo tra bisogni, desideri e stupidi capricci.
Siamo esseri senzienti, non ululanti ominidi privi di capacità di discernimento.
Eppure, più delle volte vedo gente ringhiare. Per strada, sul bus, in metro, al supermercato, sui social network.
Ascolto, perché la persona che mi cammina accanto urla come se intorno ci fosse musica house a tutto volume, di vendette trasversali, di odi taciuti, cause legali e denunce. Di un pezzo di merda che l’ha lasciata per una fottutissima puttana.
Eppure basterebbe un po’ di buona educazione perché io non debba pensare, guardandola, che se qualcuno l’ha lasciata, un motivo ci sarà, per metterla, poiché è entrata senza invito nella mia sfera vitale, tra gli ominidi da tralasciare.
Chiedono il rispetto delle regole e se ne fottono.
Chiediamo rispetto e ci guardiamo bene dal darlo.
Ma da esseri senzienti, e rigorosi, e ben educati, possiamo non adagiarci sulle iniquità degli altri, scegliendo per nostro conto, da uomini liberi.
Possiamo tranquillamente trovare posto dalla parte della ragione, o decidere di sederci da quella del torto, ma rivoltandoci sul serio. Perché non è citando Brecht che riusciremo a cambiare qualcosa.
La prima qualità di una persona è il rigore, diceva mio nonno, fissandomi severo, senza stemperare mai lo sguardo acuto con un sorriso, nella speranza, credo, che quelle parole mi si sarebbero così impresse nella memoria. Stava sempre in giacca da camera mio nonno, elegante come se da un momento all’altro potesse entrare dall’ingresso padronale chissà quale personalità anziché la donna delle pulizie. Perché per lui faceva lo stesso.
Ma si parla di amenità analogiche, roba vecchia, lo so, me lo ripeto ogni giorno.
Vano, il mio bisogno di comunicare il senso di disadattamento che provo in tutto questo mandarsi a fanculo quotidiano e un po’ gratuito: tra politici, tra cittadini, alle poste, al semaforo, sul web, in autogrill dove c’è quello che mi passa davanti, come un bisonte, facendosi spazio con il suo corpo deforme stipato in un giubbottino di pelle. Ciò che è fuori è dentro, e se sei un animale vestito da uomo lo sei nel tuo complesso, e non perché hai problemi di tiroide, ma per come appoggi il tuo lurido sguardo su una donna, meglio se non accompagnata.
Eppure, quell’educazione mi è stata utilissima a non sentirmi mai fuori posto. A parte adesso, oggi, qui, in un momento storico che ci insegna a passare su tutto, anche sulle esperienze altrui. Perché l’educazione c’entra poco con il vuoto formalismo, è qualcosa che ha a che fare con il rispetto e con il più bieco opportunismo. Sì, opportunismo. Perché dire il proprio nome e cognome presentandosi, magari sorridendo, anziché biascicare un informale e imbarazzato “salve”, è un modo per dare all’interlocutore la possibilità di sapere chi siamo. Può succedere in fila alle casse del supermercato con un vicino di casa che ho intravisto e al quale, un giorno, rincorsa da un furioso assassino, potrò domandare aiuto. Perché nulla è dovuto.
Non è così difficile capire che certe robacce chiamate “regole”, e il rigore interiore che serve a metterle in pratica, sono utili soprattutto a noi stessi. Così come non è complicato capire perché una madre non debba permettere alla propria bambina di appoggiare le suole delle sue splendide scarpine, comunque sporche, sul sedile del vagone della metropolitana o del tram. Un giorno potrebbe capitarle di sedersi su un sedile sporco e inveire contro la maleducazione, che è sempre degli altri, e magari tuittarla.
Ma forse mi sfugge qualcosa, ossia che nella maggior parte dei casi non ci si domandi più con chi si ha a che fare. Così presi a dare un peso alla nostra esistenza cercando di lasciare un segno nella storia con frasi a effetto, tralasciamo del tutto il peso degli altri.
Rigore significa applicare la buona educazione soprattutto con se stessi, intraprendendo un’azione per portarla a termine. Facendo sì che la propria vita sia ben spesa.
Ma costa fatica mettere in moto il cervello prima di fare o dire qualcosa.
Permettendoci tutto in nome di una libertà presunta, facciamo delle nostre esigenze e dei nostri bisogni primari il baluardo della nostra incapacità di rispettare gli altri. Gli altri, sì, quella massa comunemente chiamata “di stronzi” tra i quali, andando avanti di questo passo, rientreremo proprio tutti.
Colpa mia se ho imparato e riconosciuto l’importanza del rigore. Ecco perché mi sento fuori posto.
Il rigore che mi ha permesso di capire che, se nella “piramide umana” dovrò salire per ultima, preparazione atletica e concentrazione dovranno essere ineccepibili, quindi, essere lasciata dal Maestro russo in palestra, sola e durante la pausa pranzo, a fare duecento addominali in più perché ne ho saltati soltanto due, un senso ce l’ha.
È meglio dare di più, perché anche la volontà è un muscolo, e va esercitata. Perché il giorno in cui vorrò mettere le mani addosso a qualcuno, seppur con tutte le ragioni del mondo, riuscirò a frenarmi, a battere la lingua al palato dieci volte, e a dirmi che non ne vale la pena.
Anche la determinazione è un muscolo, se la esercito avrò più probabilità di riuscita quando dovrò fare i conti con gli impedimenti, gli ostacoli disseminati sul mio cammino.
Abbiamo tutti la facoltà di essere felici, basta deciderlo, mettendo ordine tra le priorità, distinguendo tra bisogni, desideri e stupidi capricci.
Siamo esseri senzienti, non ululanti ominidi privi di capacità di discernimento.
Eppure, più delle volte vedo gente ringhiare. Per strada, sul bus, in metro, al supermercato, sui social network.
Ascolto, perché la persona che mi cammina accanto urla come se intorno ci fosse musica house a tutto volume, di vendette trasversali, di odi taciuti, cause legali e denunce. Di un pezzo di merda che l’ha lasciata per una fottutissima puttana.
Eppure basterebbe un po’ di buona educazione perché io non debba pensare, guardandola, che se qualcuno l’ha lasciata, un motivo ci sarà, per metterla, poiché è entrata senza invito nella mia sfera vitale, tra gli ominidi da tralasciare.
Chiedono il rispetto delle regole e se ne fottono.
Chiediamo rispetto e ci guardiamo bene dal darlo.
Ma da esseri senzienti, e rigorosi, e ben educati, possiamo non adagiarci sulle iniquità degli altri, scegliendo per nostro conto, da uomini liberi.
Possiamo tranquillamente trovare posto dalla parte della ragione, o decidere di sederci da quella del torto, ma rivoltandoci sul serio. Perché non è citando Brecht che riusciremo a cambiare qualcosa.
Leggo e sottoscrivo, parola per parola.
RispondiEliminaIl rigore con se stessi, ecco la chiave di tutto, come la persona morale, che impone dei limiti a se stesso, e non come il moralista che li vorrebbe imporre agli altri, e scopiazzando Kant mi viene da dire: Il cielo stellato sopra di noi, la legge morale dentro di noi. Brava Bibolotty, è sempre un piacere leggerti. Lucky
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