Confessarsi è sempre sano, mostrarsi in tutta la
propria nudità emotiva è un bene, dichiarare a tutti e a nessuno debolezze e
punti di forza– casomai passasse da qui il mio “idolo”, quello che proprio non mi
segue- sembra la cosa migliore, almeno vista da qui, mentre vado a scuola, seduta
ancora sulle scale o in bagno, prima della lezione di latino.
Mostrarsi tra questa folla, è tutto ciò che rimane a noi ragazze per venir
fuori in questa confusione, da questo bla bla bla fastidioso, attraverso PIC che
mostrano solo il nostro lato migliore, quello senza occhiaie da studio o da
ciclo mestruale.
Lo so che non sono una ragazza, ma che c’entra, certa roba rimane
addosso come il gesso e la paura della lavagna, di non sapere, lì davanti a
tutti e nella minigonna nuova, come risolvere quella maledetta equazione.
Anche qui, porca puttana, sono una di quelle che si dimentica l’apostrofo... ma chi se ne frega. È il contenuto che conta, vero?, se detto da una bella bocca, poi, anche la sintassi scorretta può calzare
a pennello, come un neo sulla guancia, al posto giusto.
Su questa TL c'è di tutto, ci sono le maestrine petulanti, quelle ragazze che, un po’
vecchiotte, dichiarano la totale mancanza di originalità delle altre e la loro capacità, straordinaria, di distinguersi: perché dall’omologazione non si viene fuori.
Ci sono #Quellepocheragazzeche, tante e troppe, inseguono, vogliono, amano un idolo che però non le ricambia, le deboli e le anonime, le
bruttine, quelle che si sentono di troppo, grasse o troppo troppo magre, sofferenti e tristi come se questo maledetto retweet fosse il marchio
distintivo per un futuro qualunque, che se anche da qui non lo vediamo, sembra comunque perfetto
(e per fortuna).
Le ragazze che si fanno del male e lo scrivono, che sentono il bisogno di mostrare a tutti i propri tagli, quelle che non sono originali perché ci sono
sempre state, e che a un certo punto grazie dio smettono, perché non serve a niente, è solo un’abitudine fin troppo reclamizzata da non destare più alcuna meraviglia. Le ragazze che ancora non sanno ancora che poi, da grandi, le cicatrici rimarranno per
sempre a ricordarci quanto siamo state imbecilli: e metti via quella cazzo di
lametta che è meglio.
Ci sono vampiresse e licantrope, le solitarie e le bugiarde.
Ragazze fatali e dozzinali con la spalla magra di
fuori, che devono dirlo proprio a tutti quanto essere cattive è bello, un
marchio di fabbrica che vale più del diploma.
Ci sono #Quellepocheragazzeche preferiscono un CD al
maquillage.
Perché semplice è bello -lo dice anche nonna- è bello come le scarpe da ginnastica e non avere un ragazzo.
Ah, e non fumare.
Perché semplice è bello -lo dice anche nonna- è bello come le scarpe da ginnastica e non avere un ragazzo.
Ah, e non fumare.
Sì, sì, dico a te, proprio a te che stai di sotto alla mia
PIC e mostri la gamba come fosse una reliquia. Che di spalle, con capelli
biondi da invidia, racconti di avere amato per la prima volta a undici anni. Ma
valà, ma chi vuoi che ci creda, giusto qualcuno in là con gli anni e che per
un po’ si prenderà gioco di te e del tuo minorenne entusiasmo domandandoti poi,
di cancellare tutti i DM.
E poi un tuit dopo l’altro digiti la tua paura a dimostrare
amore, a farti notare, ecco, appunto, ancora, maledizione: la tua ansia di voler essere diversa e
originale. Perché sei una delle poche ragazze che non sa vedersi bella né riesce
a migliorare, come avessi lì davanti agli occhi un modello ben preciso da
seguire. Come quella di pochi tuit avanti, che legge miliardi di
libri dice che scrive romanzi ma poi sbaglia accenti ed elisioni.
C’è una delle tante che non studia libri interi, perché li
taglia a metà, forse, credo.
Quella che fa la scema quando è triste e quella che si
pavoneggia per i suoi Master e che si sente arrivata, non la solita sfigata.
C’è quella quella che nasconde il sorriso, quella che usa un altro nome.
C’è quella quella che nasconde il sorriso, quella che usa un altro nome.
#Sonounadiquelleragazzeche sta sempre in libreria, non come
quella che usa tremila pronomi personali per evitare di perdersi, perché quel
verbo, non venga attribuito, per sbaglio, a nessun altra.
C’è la svampita e la santarellina, quella che se ne frega
della dieta e che preferisce la nutella, la famiglia al locale, e che nella PIC
ci mostra il suo mito, pardòn, il suo idolo: uno sbarbatello che forse durerà
ancora due anni in una hit –se tutto va bene- prima del tramonto.
E poi lacrime, rancori, e ancora acuti dolori adolescenziali, quelli
che chiusa nell’armadio e abbracciata al rotellone bianco con
prolunga, raccontavo alla mia amica del cuore, in un tempo analogico lontano, così felice di essere unica, sola e
originale.
Poi, abbiamo acceso la luce e ci siamo contate, siamo in
troppe, sì, e tutte uguali.
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