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giovedì 1 novembre 2012

Meglio vivere in un Horror

Un’occhiata veloce anche solo alla sigla e alle prime scene ieri sera dovevo dargliela.
Almeno ascoltare le prime note, scritte dallo stesso geniale regista, e che ho in testa anche stamattina.
La zucca, la canzoncina, l’ombra della strega.
Come nell’altro grande Cult, dove poco dopo apparirà Freddie e le sue dita uncinate. Perché la filastrocca fa sempre paura, soprattutto se sappiamo come andrà a finire.
Che c’entra, anch’io sono italiana, anzi, per ciò che riguarda il culto dei morti sono etrusca: basta andare in un cimitero del sud, un cimitero monumentale di qualunque città o paesino dell’entroterra per capire quanto il culto dei defunti sia radicato nel nostro dna.

Sono affezionata a questa festa.
La festa di Ognissanti mi ricorda i grandi pranzi di famiglia e la messa, una festa di luce e oscurità in cui si racconta che i morti vadano tutti assieme alla funzione di mezzanotte e, naturalmente, guai a incontrarli.
Perché anche l’iconografia cattolica è splatter. Santa Lucia con gli occhi in mano non fa certo pensare a un giglio. Il povero San Sebastiano attaccato a un albero e trafitto da frecce non mi può certo far venire in mente i giardini dell’Eden.
Non mi accanisco contro chi festeggia Halloween con tanto di zucca e travestimento. Un tempo, qui, eravamo pagani.
Allora dovrei fare lo stesso contro chiunque compri un I Phone.
Siamo targati Made in USA da anni e tutto questo purismo italico si esprime ogni volta che possiamo sfoggiare il nostro innato senso di superiorità, che dietro l’icona di un social network diventa megalomania.
Ma pazienza.
Ormai mi sono affezionata a quest’umanità urlante.
Non potrei più farne senza, così come non potrei vivere senza i miei filmoni horror d’annata.

Mi tranquillizzano, pare assurdo ma è così. Forse mi fanno lo stesso effetto che "Cappuccetto Rosso".
Quando li guardo mi sento in un ventre di vacca.
Amo la tranquillità e la calma iniziale, quella di una vita almeno in apparenza felice, un corso di studi regolare al College e l’amore adolescenziale, mai consumato in fretta come puritanesimo vuole.
Le villette a schiera tutte uguali, i giardini, la cucina dal grande frigo nel quale non mancano mai birre in lattina -o la testa di qualcuno. Il retro della bifamiliare con altalena costruita con il copertone e dove si cucinano hot dog e si consumano storie, quelle dei racconti di Carver, che scorrono tra una birra e l’altra, tra discorsi vuoti su un’esistenza che gira attorno a se stessa. Insoddisfatta, il più delle volte vile e misera, come quella di molti, forse, come la mia.

Amo le colazioni che durano per delle ore. Mi domando ogni volta a che ora si svegli tutta la famiglia per stare a pianificare giornata e vita davanti a un piatto di uova e pancetta. Così come fanno anche nei garage dove c’è sempre tutto, anche l’arma del delitto, anche un cadavere, anche il cesto per la pallacanestro e gli attrezzi da palestra, e dove uno sfigato come Kevin Spacey può avere la sua rivalsa sul mondo e trasformarsi da marito debole e insulso a maschio alfa aggressivo: in America la possibilità di cambiare uno ce l’ha. O almeno così sembra.

Di certi film e di certe vite, anche se messe in uno splatter di serie B, amo le camerette dei ragazzi al piano di sopra e con bagno annesso.
Le finestre con tendine da cui si può entrare e uscire passeggiando sul tetto per calarsi da un albero che di solito protende rami che sembrano braccia verso la stanza, a volte per divorare e a volte per salvarci dal mostro.
Amo le madri americane, quasi sempre casalinghe, quasi sempre bionde e che stanno addosso ai figli ma non troppo, che salutano il marito sulla porta di casa e non sono mai scontente di sé.
Beh, certo, come si fa, con quella truppa di futuri cittadini americani in auto, una familiare con cane annesso e dove tutti assieme si mettono a cantare, salendo magari il costone di una montagna nei cui boschi moriranno tutti, a partire dalla sorella maggiore, la più bella, quella che il regista sapientemente ci mostra seminuda già alla terza inquadratura. O il cane, cui tutti siamo già affezionati, e che proprio perciò morrà entro i primi venti minuti e nel peggior modo possibile.
Certo, nessuno ha mai fatto morire una bestia come Bertolucci uccide il gattino in Novecento e per mano di uno splendido Sutherland e della sadica Laura Betti, nessun regista horror poteva immaginare una morte così raccapricciante per un cucciolo così tenero, ma tutti investono un bel po’ di pellicola sulla storia dell’affezionato micio, perché guai se la Weaver l’avesse lasciato nello spazio.

Coltivo la segreta ambizione di vivere in una di quelle pellicole per una volta sola e controllare il motorino di avviamento delle auto, di tutte le auto di famiglia che non si muovono mai al momento giusto, o di cui non si trova la chiave, o che nascondono l’assassino sul sedile posteriore, pronto a tagliare la gola a chiunque ci salga per caso.
Metterei catenacci a ogni porta. Perché in America le porte rimangono tutte maledettamente aperte nonostante certi fatti di sangue.
Naturalmente sarei una cheerleader, l’amica intima della “Barbie” più chiacchierata della scuola, quella che però è anche intelligente e risolve tutto, l’unica a salvarsi da una carneficina assurda.
Vorrei vivere in uno splatter per avere un padre rassicurante, uno di quelli che viene in stanza per il bacio della buona notte e per farmi capire come va la vita.
Perché ancora non lo so, ancora non ci ho capito niente. Anche se so per certo, che avrò anch'io un finale un po' scontato.

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