Riflessioni notturne sulla scrittura.
Non passa giorno che su twitter o Fb qualcuno alzi il ditino
inquisitore su un accento fuori posto o un verbo sbagliato.
Per non parlare di quando a cadere in fallo è qualcuno che
ha all’attivo un bel po’ di pubblicazioni. È allora che il feroce correttore,
l’antipatico editor in erba e il frustrato pubblicatore si palesano.
Ed è triste.
Alle elementari la maestra ci invitava a non denunciare gli
errori altrui, almeno non ridacchiando, insegnandoci che il più delle volte
sono refusi dettati dalla fretta e anche se fossero veri strafalcioni, mettere
in difficoltà il compagno è da stupidi.
Le altre maestre, forse, no.
Il saccentino/a di turno sta lì che conta le ripetizioni e
va a caccia dell’accento sbagliato lamentandosi poi se lo stesso accade a lui.
Ho vissuto molte vite. Sono morta e rinata più volte e a
metà della mia sottile esistenza sto soltanto riguardando gli appunti. Non mi
sono fermata né ho bisogno di conferme. Ho fatto un sacco di passi sbagliati,
errori a non finire e di cui ancora mi pento, ma non ho intenzione di
dimostrare niente a nessuno.
Sin da bambina, ho avuto la fortuna di avere tra i miei
amici musicisti, pittori e attori.
Terry Bozzio, batterista di Zappa è un uomo umile e dolce
nonostante abbia fama a non finire e bravura indiscutibile, originalità ed estro.
Gino De Dominicis, invece, che chi mi legge forse conosce e se no vada su
wikipedia come d’abitudine, l’ho conosciuto abbastanza per dire che in lui
vanità e arroganza avevano un perché, e anche grosso, lo stesso per Carlo
Cecchi, il più grande attore dei nostri tempi che insulta i colleghi in scena o
sbeffeggia il pubblico distratto, e a ragione.
Il mondo dell’editoria non lo conoscevo, e a questo punto
penso sarebbe stato meglio continuare a immaginarlo da fuori.
Elsa Morante mi è stata raccontata da Arturo Cirillo, mio
compagno d’Accademia e attore napoletano della scuola Cecchi che mi parlava di
lei prima di tutto come donna, poi come scrittrice.
Sapevo di Moravia e del suo circolo d’intellettuali, di
Gadda e Volponi, ordinari impiegati Olivetti. Di Kafka, postino.
Degli scrittori immaginavo vite straordinariamente comuni, storie uguali a quelle
di tanti altri, niente di eccezionale se non nella disgrazia, nei fallimenti e
nelle fughe improvvise, miserie comuni anche ai mortali che non hanno
dimestichezza con la sintassi.
Speravo d’incontrare intellettuali autorevoli, capaci di
accogliere giovani inesperti con generosità e di mostrar loro una via, non
piccole star piene di boria che vanno a caccia in un ingaggio in radio o tivù e
guardano al nuovo come una minaccia sempre vigile.
Perché il consumismo letterario non risparmia nessuno: oggi
ci sei domani non più.
Credevo che per diventare scrittore bastasse una creatività
diffusa, come Buzzati e la pittura o Colette, cantante e attrice. Non che
questa realtà fosse abitata da topi di biblioteca appena usciti dall’università
con la faccia da sapientoni e una vita in passivo, esistenze passate chini sul
PC a fare i conti con virgole e condizionali e non in giro per il mondo a
scoprire di cosa è fatta quest’ umanità piena di sorprese.
Immaginavo, insomma, persone che vivono. Esseri in possesso
di una straordinaria capacità di guardare avvenimenti e cose in maniera diversa
dagli altri. Credevo l’universo editoriale abitato da chi fa scoperte e le
vuole semplicemente comunicare al mondo, non da tuttologi che viaggiano con la
lente d’ingrandimento in cerca di quel refuso o di un altro, della ripetizione
del collega, del plagio, così diffuso oggigiorno.
Scrivere è diventata una professione troppo spesso anche
remunerativa. Un’aspirazione alla popolarità e non una missione.
In molti pensano che pubblicare possa segnare “la svolta”,
il premio, il film, il contrattone, la tivù.
Allora devo dimenticare la Duras e le risaie, la povertà e
una vita al confine, la Blixen e gli investimenti fallimentari e la
disperazione.
Forse non esistono più uomini e donne che guardano il mondo
e lo vivono, e che poi, solo casualmente inciampano in storie da raccontare. Persone
prima di tutto, e non scrittori, che si nutrono dell’incanto della vita e dell’urgenza
di rappresentarne i risvolti più umani, romantici o crudeli.
Credevo di trovare, in questa stanza particolare
dell’umanità, gente commossa e con il cuore in fiamme.
Così non è.
Fino a oggi, a parte qualcuno che alza uno sguardo
compassionevole, vedo solo teste chine sulla propria vita alla ricerca di una
storia fantastica, del primato e del successo. Vedo corporazioni, caste,
gruppi. Ci si danno obbiettivi, si scrivono manifesti, si espongono programmi e
si domandando adesioni.
I reading sono come i camerini dei grandi attori, pieni di
colleghi con il sorriso stampato in faccia e il livore nel cuore.
Per essere bisogna apparire. Per apparire è necessario
conoscere e infine adeguarsi al gusto degli altri, dicono.
Ma grazie a dio non è mai così.
La storia premia i talenti umili e la verità dell’animo.
La pubblicazione deve essere un mezzo e non un fine.
Per me, invece, visto che il fine è ancora sopravvivere,
scrivere non è che un modo per scoprire una vita meno amara e immaginarne,
magari, una diversa.
lezione di vita... e di scrittura. Grazie.
RispondiElimina