Da bambina pensavo che crescendo sarei diventata come mia
madre e mia nonna.
Non contavo su una vaga somiglianza, no, credevo che di loro
avrei preso tutto, che madri e nonne, insomma, fossero di forma e carattere prestabilito.
Di mia mamma avrei messo le scarpe con la zeppa –e fin qui
ci siamo pure- , la stessa pettinatura cotonata alta e gli abiti lunghi e pieni
di spacchi strabilianti. Pensavo che come lei sarei andata a ballare ogni
settimana, che avrei guidato una cinquecento gialla e fatto tutte quelle cose che
mi parevano piene di senso.
Di mia nonna, invece, avrei avuto i capelli grigio turchini
e indossato tailleur di gran marca dai colori un po’ smorti, solo, con qualche
guizzo nel foulard dalla stampa floreale.
In quel vagare per la campagna in cerca di avventure mettevo
in fila risposte poco plausibili a
domande sempre più incredibili.
La crescita non era prevista, mi beavo all’idea che sarei
rimasta per sempre bambina o che al massimo, un giorno mi sarei svegliata già adulta
con occhi dipinti di blu e un profumo dolciastro addosso, e forse anche un
marito lì, da qualche parte.
Non avrei mai immaginato che a un certo punto, senza
preavviso e durante i compiti pomeridiani, qualcosa sarebbe esploso sul mio
petto e che minuscoli e dolorosissimi rigonfiamenti avrebbero iniziato a tirare
la pelle, come se da dentro qualcuno che non ero io volesse uscire e sostituirsi
a me per sempre.
L’attesa e il fastidio di quella muta finì com’era iniziata.
Anch’io avrei avuto presto una faccia emaciata e pallida e
un’ottima scusa per restarmene a letto, per essere nervosa e intrattabile e
degna di rispetto come mia sorella prima di me.
Avevo già nostalgia delle corse in bicicletta e dei cavalli,
degli infiniti pomeriggi in cui vagavo per la campagna in cerca di niente,
della noia e delle storie raccontate al primo animaletto di passaggio e mi guardavo attorno per capire quel nuovo universo.
Schiva, come se qualcuno mi avesse già mostrato le oscenità
di cui sono capaci gli umani, sapevo che per salvarmi avrei dovuto darmela a
gambe. Per questo ancora oggi percorro molti chilometri ogni giorno, per
tenermi in esercizio e sempre pronta alla fuga.
Pensavo che se un giorno la mia vita non avesse avuto più
alcun senso mi sarei caricata lo zaino in spalla per arrivare a piedi sino al
Polo Nord.
Nel mio zaino, infatti, c’era sempre un kit di primo soccorso, c’erano
il rossetto e la matita nera, c’era il diario con lucchetto e la carta
telefonica.
Gli orchi se ne stavano all’uscita di scuola ad aspettare le
piccole in ritardo.
Ma io li conoscevo bene e correvo forte.
Li fregavo ogni volta quei fottutissimi maiali dalla lingua
lunga e dalle mani larghe.
Ma volevo scarpe più grosse per colpirli esattamente al
posto giusto e lasciarli in terra. Ci volevano anfibi originali dalla punta di
ferro, quelli che portavano i ragazzi più grandi a Piazza Umberto. Ci voleva
una roba potente per la ragazzina solitaria e un po’ matta cui piaceva starsene
da sola e girare per le pinete deserte.
Per una che saltava la scuola così spesso per andare al mare
ci voleva roba seria per difendersi dal solitario avventore, da quello che
visto che c’è ci deve provare, anche se ha solo dodici anni chi se ne importa: se
sta lì e da sola tanto basta, vuol dire che se l’è cercata.
Non ci potevo credere quando da Londra arrivò il pacco.
Un trentacinque impossibile da trovare e invece, quel ragazzetto dall'aspetto inaffidabile ce l’aveva
fatta.
Nemmeno ricordo il suo nome, so solo che quando durante il cambio d'ora, in corridoio, avevo tirato fuori dal chiodo il denaro stropicciato, gli avevo anche
detto addio.
Addio a quei tre pezzi da cinquantamila messi via con fatica,
detratti alla paghetta settimanale e stipati nel vocabolario che a
poco serviva se non a nascondere progetti di fuga all’estero e cartine.
Invece, eccoli lì i miei anfibi dal rinforzo di ferro.
Dopo aver fatto giuramento di amore eterno, li lasciai sul
comodino per guardarli un attimo ancora prima di chiudere gli occhi, per
sentire l’odore della pelle dura e sognarmi vincitrice.
Per anni hanno ritmato i miei passi ribelli e anche la notte
più buia non faceva paura.
Hanno ballato e camminato con me per le strade del mondo.
Hanno atteso nei camerini di decine di città.
Inseparabili, ancora oggi mi guardano dalla scarpiera. Un
pezzo di me, una parte selvaggia e diffidente che mi ha salvato la vita.
Gli anni sono passati e io ho ancora l’indole e il cuore
della darketta amica del peggiore della scuola.
Sono rimasta una che per caso, talento, paura, o
fottutissima necessità, corre ancora e corre forte.
(Foto di John Alton)
bello ti leggo sempre con molta attenzione e piacere
RispondiEliminaRaramente capita di leggere qualcosa di così coinvolgente , che si infila nell'animo intrecciandosi con i miei ricordi , suscitando emozioni nuove e risvegliandone altre assopite .Sei una compagna di viaggio veramente stimolante . Un grazie con tanta stima ed affetto .
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