La censura tagliava pellicole in bianco e nero e ancora non
si sentiva l’odore di piombo degli anni a venire.
Ma la rivolta era nell’aria.
Non fu quell’anno che contestai ai miei l’obbligo di tenere
la mano alla maestra che mi riaccompagnava a casa. Per quello dovetti aspettare
tre anni ancora. Masticando fiele, camminando a testa bassa per tre anni, ignorai
gli sguardi di finta compassione che le stronzette mi lanciavano dal
marciapiede di fronte. E tra l’amarezza di essere sempre troppo piccola e la
rabbia di essere diventata grande troppo in fretta, la domenica bianca del
settantatré.
Una domenica da trascrivere sul diario. Simile a quella del
terremoto in Irpinia che pochi anni dopo avrei cinicamente sfruttato come scusa
per non studiare storia, i moti carbonari per la precisione, mossa ignobile ma
strategica per un’asina come me, che di quelle pagine del risorgimento avrebbe
ricordato soltanto la questione delle cantine, i luoghi bui dove si riunivano, i
quartieri malfamati dove li immaginavo, i ragazzotti rivoltosi, arringare con
virilità e mescere vino. Uguali identici ai ragazzi dai jeans pornografici che
andavano in vespone, inarrivabili per una che andava in giro col grembiulino
bianco, tizi sui quali fantasticavo e che mio nonno chiamava con disprezzo: capelloni,
come il garzone che sembrava tanto Franco Gasparri dei fotoromanzi e che
entrava e usciva dal negozio di fiori di mia nonna imbracciando rose rosse con
la stessa delicatezza che, credevo io, avrebbe usato con la sua sposa.
E tra il mio matrimonio e la frustrazione di non capire
proprio tutto, vissi la giornata più emozionante della mia vita. Più
strabiliante che andare in moto con mio padre, avvinghiata al suo giubbotto di
pelle scuro e ruvido. Anche più forte di quando Gino mi domandò di abbassarmi
le mutandine per guardare che cosa avessi lì.
Era vapore del brodo che ribolliva sul bianco delle
mattonelle della cucina, bianco farina dei tortellini sul bianco formica del
tavolo. Bianco del latte e bianco di brina sul campo dormiente.
Una giornata bianca e ribelle che iniziai lasciando a casa il
passamontagna bianco che pizzicava la testa, che stringeva la gola, che arrossava
le orecchie. Una giornata speciale che proseguì in bicicletta, in un rischioso
slalom tra sterco di cavallo e fauci di Tobia, il cane bianco del padrone del
maneggio, padrone anche della ghiaia che solcavo rumorosamente e del magico distributore
di Fanta a me proibito.
Finita la messa, finito il pranzo e ormai al riparo da
punizioni divine, pensai trasgredire ancora. Violare il patto e correre da sola
fino alla strada grande, sarebbe stato il modo più giusto di vendicarmi dei
grandi, che davano ordini parlando tra grandi di cose da grandi e di mia sorella
che, quasi grande, stava ad ascoltarli.
Perché quel giorno anche la strada grande custodiva un segreto. Pericolosa
e proibita stava a cinquecento metri da me, in un silenzio sinistro
e immobile.
Invece restai attaccata al muro di cinta della villa. Nemmeno
un metro più in là ebbi il coraggio di avanzare. Restai sotto il fico a fare niente
per un po’, deplorando (forse) la mia mancanza di coraggio e l’obbedienza a mio
padre, impegnandomi (forse) a deviare il via vai delle formiche, ascoltando
silenzio irreale sotto il cielo basso attraversato dalla radiocronaca di una
partita di calcio.
La strada, più in là, aspettava il mio passo.
Sul fondale bianco di nuvole basse, vidi arrivare i grandi che
quel giorno avevano un passo diverso.
Li raggiunsi con il fiato in gola e i pattini in spalla. Andavano
in silenzio verso la strada grande con l’incedere deciso dei grandi che (io credevo) sanno sempre dove andare.
Sull’orizzonte bianco la strada era deserta. Pensai fossero
tutti morti. Pensai all’apocalisse di cui qualcuno mi aveva già parlato. Guardai
la lingua nera dell’asfalto che si lanciava all’infinito pronta a
inghiottirmi. Pensai potesse arrotolarsi su di me da un momento all’altro, punizione
esemplare per le mie trasgressioni e il mio odio verso gli adulti. Non era
un’ipotesi così assurda.
Infine mi voltai e li guardai meglio. In equilibrio sulla
linea bianca della strada, i nonni accennavano passi di tango. La faccia sorridente
di mia madre sbucava dietro la spalla forte di mio padre. Mia sorella aveva lo
sguardo altrove, seguiva il senso di qualcosa nel moto ipnotico di uno iòiò
bianco latte.
Bellissimo il racconto della tua giornata BIANCA, infantile e RIBELLE, costretta nel passamontagna, ondulata nel vapore del brodo, lenta delle mosse del tango dei nonni, lenta e ribelle l'infanzia...Bellissimo ed emozionante. Pina
RispondiEliminaTi ho letta, Elena, e lo confermo un pò ogni tanto, per lasciare un segno tangibile del mio passaggio che non sia cioè solo un rilanciare in rete quello che scrivi. Evito di farlo più spesso solo per evitare un'inutile invadenza. Ultimamente piace pure a me scrivere, perchè avrei mille cose da dire, raccontare, spiegare, e vorrei essere un affabulatore, che sa ottenere l'attenzione con le sue magie immaginate e raccontate. Il mio sogno di scrivere lo realizzo, poco a poco, e mi è piaciuto il libro di Cotroneo. Lui però non parla di blog, ma di diari sui social, o della speranza di pubblicare. Io ho esperienze tristi di colleghi che hanno pubblicato e poi volevano vendermi il frutto spesso poco interessante del loro lavoro, a volte ho pure comprato piccoli volumi persi e appena sfogliati. E pubblicare, visti i tempi, e vista pure la mia non giovane età, per fortuna non mi interessa. e poi a me piace divertirmi, e scrivere se mi va. Ma tu scrivi...lo sai fare benissimo...specialmente in casi come questo appena letto. un saluto... Silvano.
RispondiEliminaGrazie Pina per il tuo intervento e soprattutto per la lettura. Per quanti riguarda te, amico caro, credo che la situazione sia uguale per tutti, insomma, è un periodo difficile per l'editoria, difficile per i grandi e per i piccoli. Quest'estate su RAI 5 hanno trasmesso alcune bellissime trasmissioni sulle case Editrici, Einaudi, Bompiani e via dicendo. La difficoltà degli Editori sta sicuramente nell'incapacità di "vedere", quella degli autori, anche. Bisognerebbe comunque essere onesti. Io so che ho tantissimo da imparare e molto da migliorare, ma questo succederà (spero) con il tempo, continuando a lavorare ogni giorno e a leggere tanto. Per cui: scrivi. Farlo senza crearsi troppe aspettative è ancora più divertente. Io mi arrabbio per la volgarità che vedo e leggo, sto qui apposta. Da qui non mi sposto. Se qualcuno avrà voglia di leggermi, meglio. ;) (p.s. mai invadenti gli amici di penna).
RispondiEliminaChe bello, brava Elena
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