("Polaroid" sono dei brevi racconti uniti però da un disegno più grande, una trama che non conosco ma si va delineando nel tempo. Lia è la dominante, foto Man Ray).
Una volta Lia aveva amato.
Guardandosi in una riga di specchio si sorprese per quella constatazione fuori luogo, inutile.
Anni prima, forse, si era invaghita proprio di quel tipo strano, quello che non le perdonava mai niente e che la riprendeva per certi suoi modi, di continuo, e spesso a ragione.
- Sei disordinata, noi hai la testa a posto, sei malata, tu hai bisogno di capire- le diceva.
- Come se qualcuno te lo avesse chiesto, come se io volessi qualcosa da te che non sia una semplice scopata- senza il coraggio di pronunciarle però quelle parole, conscia della possibilità che lui annuisse, sincero.
Forse era stato così che il suo cuore era diventato granito, era stato per quella mancanza di sincerità, per quell’atto di presunzione che si era ogni volta risvegliata alla realtà, come se qualcuno l’avesse colpita nello stomaco tanto a lungo da toglierle il respiro.
Guardò ancora una volta i suoi occhi di ghiaccio, si compiacque ovviamente per l’effetto di quei nuovi colpi di sole nei capelli, Filippo era stato straordinario stavolta, e li mosse ancora con leggeri colpi di spazzola.
Affondò le dita nel porta gioie per prendere come d’abitudine i suoi anelli da uomo e un paio di collane di pietre dure, quelle che fanno sempre effetto e che se proprio devi, le usi pure come arma da difesa, quando pescò qualcosa che proprio non ricordava: un pettinino di osso con intarsiata, in oro, una farfalla sottile.
Che strano trovare proprio in quel momento quell’oggetto che parlava di lui!
Glielo regalò la prima volta che s’incontrarono, la prima volta che fecero sesso e che forse, assai distrattamente, si amarono.
Lei lo sentiva che sarebbe stato un giorno speciale quello, lo aveva percepito da lontano e nello stomaco che si contraeva non certo per quel servizio fotografico di routine, come se il giorno dopo avesse dovuto sostenere un esame!
Si sentiva palpitare come quando aspettava l’esito del test di gravidanza, o quando tentò l’esame per la patente che infatti, non avrebbe superato mai.
-Mi scusi ma lei non può presentarsi così-
Lia sulle prime si sentì offesa, e stava per scendere le scale di corsa quando la stessa voce, ma questa volte morbida prese a dirle -vestita così intendevo...ma si è guardata allo specchio prima di uscire?-
Lia non si voltava, pensava solo che quell’uomo parlava d’altro e che forse aveva sbagliato piano perché nei suoi abiti non c’era nulla di strano.
- Signorina che fa? Entra oppure devo dedicarle un intero poema perché si decida?-.
Nello studio c’era una luce elettrica, guardò fuori, verso i grattacieli e il cielo era grigio.
Aveva deciso per un bianco e nero estremo, e lo aveva anche urlato ai collaboratori che rapidi, si davano da fare intorno al set, con lui che di continuo diceva loro cosa non andava.
La truccatrice era stata veramente una maga a farle sparire ogni traccia di occhiaie, mentre quell’uomo affatto magnanimo, non disdegnava di lanciarle occhiate furtive come se il suo corpo non avesse che una funzione.
E anche la pioggia che batteva sui vetri, rese quelle polaroid più drammatiche con Lia che pensava solo a come andare in fretta dall’altra parte della città, in motorino, su un altro set e con una paga ben più misera ma necessaria.
Quando stese la mano verso di lei per salutarla, non pensava che l’avrebbe portata alla bocca e nemmeno che la donna avrebbe accettato di rimanere lì
-Soltanto mezz’ora ...si chiama Lia vero? Allora vuoi? Ti dispiace se ti do del tu?-
Da quel “tu” a rimanere stesi con una canna in mano a guardare il soffitto bastò poco, e venne a entrambi naturale, ma che lui cominciasse a misurare il suo corpo e con dedizione e calma, non l’avrebbe immaginato mai.
Entrambi poi misurarono invece la stanza e ogni sedia e tavolo come se ci fosse tempo e fuori, la notte avesse ingoiato tutto il resto.
Generalmente, anche lontana dal set, gli ordini per lei erano sempre gli stessi: fai così, ferma lì, guardami dai, non guardarmi più.
Con quell’uomo invece, in quelle poche ore, non ci fu spazio che per parole gentili, regali e carezze al cuore in nome forse, di un sentire comune che Lia non conosceva.
Si videro per qualche tempo ancora, la costanza non era di casa e non potevano privare il mondo intero dei loro favori.
-Non avrò tempo per te Lia, io giro il mondo e tu hai bisogno di attenzioni, come una pianta rara-
Anche quella volta Lia ricacciò le parole in gola, anche quella volta la donna decise di tacere rassicurando l’uomo che non aveva bisogno certo del suo amore.
Infilò le collane su per la testa e si riavviò ancora una volta i capelli e cancellò con un colpo di cipria lo sguardo oscuro.
Una volta Lia aveva amato.
Guardandosi in una riga di specchio si sorprese per quella constatazione fuori luogo, inutile.
Anni prima, forse, si era invaghita proprio di quel tipo strano, quello che non le perdonava mai niente e che la riprendeva per certi suoi modi, di continuo, e spesso a ragione.
- Sei disordinata, noi hai la testa a posto, sei malata, tu hai bisogno di capire- le diceva.
- Come se qualcuno te lo avesse chiesto, come se io volessi qualcosa da te che non sia una semplice scopata- senza il coraggio di pronunciarle però quelle parole, conscia della possibilità che lui annuisse, sincero.
Forse era stato così che il suo cuore era diventato granito, era stato per quella mancanza di sincerità, per quell’atto di presunzione che si era ogni volta risvegliata alla realtà, come se qualcuno l’avesse colpita nello stomaco tanto a lungo da toglierle il respiro.
Guardò ancora una volta i suoi occhi di ghiaccio, si compiacque ovviamente per l’effetto di quei nuovi colpi di sole nei capelli, Filippo era stato straordinario stavolta, e li mosse ancora con leggeri colpi di spazzola.
Affondò le dita nel porta gioie per prendere come d’abitudine i suoi anelli da uomo e un paio di collane di pietre dure, quelle che fanno sempre effetto e che se proprio devi, le usi pure come arma da difesa, quando pescò qualcosa che proprio non ricordava: un pettinino di osso con intarsiata, in oro, una farfalla sottile.
Che strano trovare proprio in quel momento quell’oggetto che parlava di lui!
Glielo regalò la prima volta che s’incontrarono, la prima volta che fecero sesso e che forse, assai distrattamente, si amarono.
Lei lo sentiva che sarebbe stato un giorno speciale quello, lo aveva percepito da lontano e nello stomaco che si contraeva non certo per quel servizio fotografico di routine, come se il giorno dopo avesse dovuto sostenere un esame!
Si sentiva palpitare come quando aspettava l’esito del test di gravidanza, o quando tentò l’esame per la patente che infatti, non avrebbe superato mai.
Lia sulle prime si sentì offesa, e stava per scendere le scale di corsa quando la stessa voce, ma questa volte morbida prese a dirle -vestita così intendevo...ma si è guardata allo specchio prima di uscire?-
Lia non si voltava, pensava solo che quell’uomo parlava d’altro e che forse aveva sbagliato piano perché nei suoi abiti non c’era nulla di strano.
- Signorina che fa? Entra oppure devo dedicarle un intero poema perché si decida?-.
Nello studio c’era una luce elettrica, guardò fuori, verso i grattacieli e il cielo era grigio.
Aveva deciso per un bianco e nero estremo, e lo aveva anche urlato ai collaboratori che rapidi, si davano da fare intorno al set, con lui che di continuo diceva loro cosa non andava.
La truccatrice era stata veramente una maga a farle sparire ogni traccia di occhiaie, mentre quell’uomo affatto magnanimo, non disdegnava di lanciarle occhiate furtive come se il suo corpo non avesse che una funzione.
E anche la pioggia che batteva sui vetri, rese quelle polaroid più drammatiche con Lia che pensava solo a come andare in fretta dall’altra parte della città, in motorino, su un altro set e con una paga ben più misera ma necessaria.
Quando stese la mano verso di lei per salutarla, non pensava che l’avrebbe portata alla bocca e nemmeno che la donna avrebbe accettato di rimanere lì
Da quel “tu” a rimanere stesi con una canna in mano a guardare il soffitto bastò poco, e venne a entrambi naturale, ma che lui cominciasse a misurare il suo corpo e con dedizione e calma, non l’avrebbe immaginato mai.
Entrambi poi misurarono invece la stanza e ogni sedia e tavolo come se ci fosse tempo e fuori, la notte avesse ingoiato tutto il resto.
Generalmente, anche lontana dal set, gli ordini per lei erano sempre gli stessi: fai così, ferma lì, guardami dai, non guardarmi più.
Con quell’uomo invece, in quelle poche ore, non ci fu spazio che per parole gentili, regali e carezze al cuore in nome forse, di un sentire comune che Lia non conosceva.
Si videro per qualche tempo ancora, la costanza non era di casa e non potevano privare il mondo intero dei loro favori.
Anche quella volta Lia ricacciò le parole in gola, anche quella volta la donna decise di tacere rassicurando l’uomo che non aveva bisogno certo del suo amore.
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