Oggi ho perso il treno.
Camminavo rincorrendo qualcosa d'inarrivabile ma come sempre troppo vicino, quando una grata inaspettata, intrappolato il tacco di ferro sottile, l'ha strappato con violenza alla scarpa, la mia.
La banchina è già piena e il regionale delle 08:26 mi guarda dal binario, è il momento della resa dei conti, quella che arriva puntuale al contrario di me.
Non era questa la giornata giusta per incontrare di nuovo il tuo sguardo nel mio, che ancora non crede. Ma l'amore, il mio amore, non deve mai sapere e non ha bisogno neanche del sole, la pioggia va bene comunque anzi, intristisce il tuo sguardo già cupo e fa di quel raro sorriso, rivolto a un altro e per cortesia, la sola immagine che conservo di te.
Sì, non capisco e non voglio capire.
Ed è per questo che vago, abbracciata a questa distrazione lenta e consapevole, e ho cominciato a balbettare, a sorridere per strada pensando di avere accanto te, a perdere cose importanti e lasciare che altre mani le tocchino, mai le tue.
E non posso nemmeno pensarci più a quelle mani che vedo ogni giorno benedetto, quando impugni la maniglia di apertura del treno per apparire e scomparire poi fra giacca, cappotto e sedile, come quelle di un abile mago, placarsi finalmente, nella morbida presa di un giornale, uno qualunque va bene, perché con quelle mani non è mai importante.
E poi ti distrai, lo vedo perché ti conosco.
So come ti scomponi annoiato, quando sai già la risposta: nervoso appoggi il giornale sulle gambe e sfreghi con forza e più volte il viso lungo e troppo spesso stanco. E guardi fuori dal finestrino la campagna che corre insieme a chissà quali pensieri.
Ed è allora che vedo le tue mani non grandi distendersi forti e gentili e abbandonarsi subito dopo, solo per un attimo.
Certe cose sono invisibili e mi domando perché le veda solo io. Perché mi sembra di conoscerti da sempre e di sentire ogni tuo mutamento di umore.
Cerco il pezzo giusto, devo ascoltare qualcosa che mi parli di te mentre sei lì davanti a me, che mi lasci immaginare di accarezzare con forza la tua mano, così che possa sembrare vero magari, mentre distratto tieni il ritmo di quel brano trasparente che risuona in te da quando sei bambino.
Mi hai guardata per la prima volta e a lungo, senza mai distogliere gli occhi dai miei, stupiti, lì dal tuo sedile, ti sei fermato di colpo tu sempre in movimento su quel povero schienale, e non ho avuto dubbi che guardassi proprio me.
E’ successo più di un anno fa, mi pare.
Ma tanto tu non lo ricordi. Tanto per te non è vero niente di ciò che non è stato.
E io ancora non ci credo e mi sembra d’impazzire.
Ma non è nulla.
Sarà facile essere puntuale per il regionale delle 08:05 perdere il treno ostile delle 08:26, non vederti più arrivare con quello sguardo di attesa -anche se dura solo un attimo-, sarà indolore non aspettarti davanti alla porta a dieci minuti dalla stazione per sentirti dietro di me, distrattamente attaccato alla mia schiena, così vicino che basterebbe niente per potersi baciare in quel modo che sogno ancora.
Ma scendo sempre io per prima, e affretto il passo anche perché ho paura.
Paura di trovarti: in fondo non so proprio chi sei.
Cambio brano, Metheny andrà bene, devo correre alla Metropolitana e ricordarmi di evitare i tacchi a spillo da domani! Cambio brano, qualunque altro andrà bene, devo correre alla Metropolitana e ricordarmi di evitare altri occhi domani.
Ed è per questo che vago, abbracciata a questa distrazione lenta e consapevole, e ho cominciato a balbettare, a sorridere per strada pensando di avere accanto te, a perdere cose importanti e lasciare che altre mani le tocchino, mai le tue.
E non posso nemmeno pensarci più a quelle mani che vedo ogni giorno benedetto, quando impugni la maniglia di apertura del treno per apparire e scomparire poi fra giacca, cappotto e sedile, come quelle di un abile mago, placarsi finalmente, nella morbida presa di un giornale, uno qualunque va bene, perché con quelle mani non è mai importante.
E poi ti distrai, lo vedo perché ti conosco.
So come ti scomponi annoiato, quando sai già la risposta: nervoso appoggi il giornale sulle gambe e sfreghi con forza e più volte il viso lungo e troppo spesso stanco. E guardi fuori dal finestrino la campagna che corre insieme a chissà quali pensieri.
Ed è allora che vedo le tue mani non grandi distendersi forti e gentili e abbandonarsi subito dopo, solo per un attimo.
Certe cose sono invisibili e mi domando perché le veda solo io. Perché mi sembra di conoscerti da sempre e di sentire ogni tuo mutamento di umore.
Cerco il pezzo giusto, devo ascoltare qualcosa che mi parli di te mentre sei lì davanti a me, che mi lasci immaginare di accarezzare con forza la tua mano, così che possa sembrare vero magari, mentre distratto tieni il ritmo di quel brano trasparente che risuona in te da quando sei bambino.
Mi hai guardata per la prima volta e a lungo, senza mai distogliere gli occhi dai miei, stupiti, lì dal tuo sedile, ti sei fermato di colpo tu sempre in movimento su quel povero schienale, e non ho avuto dubbi che guardassi proprio me.
E’ successo più di un anno fa, mi pare.
Ma tanto tu non lo ricordi. Tanto per te non è vero niente di ciò che non è stato.
E io ancora non ci credo e mi sembra d’impazzire.
Ma non è nulla.
Sarà facile essere puntuale per il regionale delle 08:05 perdere il treno ostile delle 08:26, non vederti più arrivare con quello sguardo di attesa -anche se dura solo un attimo-, sarà indolore non aspettarti davanti alla porta a dieci minuti dalla stazione per sentirti dietro di me, distrattamente attaccato alla mia schiena, così vicino che basterebbe niente per potersi baciare in quel modo che sogno ancora.
Ma scendo sempre io per prima, e affretto il passo anche perché ho paura.
Paura di trovarti: in fondo non so proprio chi sei.
Cambio brano, Metheny andrà bene, devo correre alla Metropolitana e ricordarmi di evitare i tacchi a spillo da domani! Cambio brano, qualunque altro andrà bene, devo correre alla Metropolitana e ricordarmi di evitare altri occhi domani.
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